SOCIETÀ

Rifiuti pericolosi: un viaggio intorno al mondo

Il 5 maggio 1992 entrava in vigore, dopo tre anni dalla ratifica (1989), la Convenzione di Basilea, un trattato internazionale mirante a monitorare e, idealmente, ridurre i movimenti e il commercio internazionale di rifiuti pericolosi. Ad oggi, sono 189 i Paesi che hanno firmato l’accordo; tra questi, solo due – Haiti e gli Stati Uniti d’America – non lo hanno ancora ratificato.

L’enorme quantità di rifiuti prodotti ogni anno in tutto il mondo è, forse, uno dei prodotti più tangibili dell’attuale modello di sviluppo economico, fondato sul rapido e continuo sfruttamento delle risorse secondo un modello non circolare, ma lineare. Con il progressivo aumento della popolazione mondiale e il parallelo incremento del volume delle attività umane, anche la mole di rifiuti prodotti dalla nostra specie è costantemente aumentata, fino a raggiungere livelli difficilmente immaginabili: ogni anno, infatti, vengono creati tra i 7 e i 10 miliardi di tonnellate di rifiuti. Di questi, circa 300-500 milioni di tonnellate sono classificati come ‘pericolosi’.

Ma qual è il destino di questi prodotti di scarto? Quasi mai, in effetti, il rifiuto viene lavorato e smaltito nello stesso luogo in cui è stato prodotto. Per rispondere alla crescente necessità di gestire in modo rapido questo flusso continuo di materiale, nel corso del tempo si è sviluppato intorno ad esso un fiorente commercio, che ha preso la forma di una vera e propria ‘rete internazionale dei rifiuti’.

È così, infatti, che un gruppo di ricercatori dell’IFISC (Istituto di Fisica Interdisciplinare e Sistemi Complessi) dell’università di Palma di Maiorca, in Spagna, ha denominato la complessa rete di interconnessioni che delinea le relazioni tra Paesi che commerciano rifiuti: un world-wide waste web, le cui caratteristiche sono descritte in un lavoro pubblicato su Nature Communications.

Il volume di questa ‘rete’, in effetti, è cresciuto in diretta proporzione con l’aumento dei rifiuti: negli ultimi 30 anni, si è registrata una crescita del 500%, percentuale che – secondo i ricercatori – continuerà a salire, causando numerosi problemi a livello economico, sociale e ambientale.

Quel che più preoccupa, di questa realtà complessa e in larga parte invisibile, è soprattutto la difficoltà di regolamentazione. Storicamente, infatti, il flusso di rifiuti passa dai Paesi ricchi, generalmente esportatori, verso i Paesi in via di sviluppo, che sono principalmente importatori. In linea teorica, questo schema potrebbe rappresentare una soluzione ‘win-win’, vantaggiosa per tutte le parti coinvolte: ai Paesi sviluppati sarebbe garantita una soluzione economica e sicura dal punto di vista sanitario per lo smaltimento dei propri rifiuti; i Paesi più poveri, d’altro canto, potrebbero riciclare i rifiuti ricevuti utilizzandone i componenti come fonte a basso costo di materiali grezzi, da impiegare poi nelle industrie o da rivendere.

Quel che rende questa situazione ideale irrealizzabile è il fatto che la maggior parte delle nazioni importatrici sia caratterizzata da economie poco sviluppate, solitamente molto dipendenti dai crediti concessi da Paesi più ricchi o da enti privati, e che non abbia accesso a tecnologie che permettano di effettuare in sicurezza lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti, che arrivano in grandi quantità. Molto spesso, dunque, partecipare alla compravendita di rifiuti impone ai Paesi più poveri altissimi costi ambientali e altrettanto gravi rischi per la salute umana. Per di più, proprio le strutturali carenze tecnologiche e logistiche che i Paesi in via di sviluppo affrontano nella gestione dei rifiuti facilita e alimenta il commercio illegale, che sfugge al monitoraggio della Convenzione di Basilea, e che aggrava ancor più i potenziali danni ambientali.

L’analisi del gruppo di ricercatori spagnoli si concentra sui rifiuti pericolosi commerciati legalmente a livello internazionale nel periodo 2001-2019. I rifiuti sono stati classificati in sette categorie, che si basano sulla suddivisione presente nei documenti della Convenzione di Basilea. Nel periodo considerato, la mole dei rifiuti pericolosi oggetto di commercio ammontava a circa 1,5 miliardi di tonnellate. Alle prime tre categorie (Categoria I: rifiuti medici, scarti di produzioni farmaceutiche e industriali; Categoria II: rifiuti contenenti residui chimici; Categoria III: rifiuti domestici e diversi tipi di plastica) appartiene il 95,41% di quel miliardo e mezzo di tonnellate di materiali di scarto.

Analizzando più nel dettaglio i flussi che, nei primi anni del XXI secolo, hanno costituito il world-wide waste web, ci si accorge di una evidente sproporzione tra Paesi con situazioni economiche diverse. Per le categorie I e III, le nazioni più ricche hanno quasi esclusivamente esportato i propri rifiuti verso Paesi in via di sviluppo o poco sviluppati; al contrario, solo per la categoria II, comprendente rifiuti che contengono metalli di un certo valore, il flusso si inverte, e dunque i Paesi sviluppati diventano, in questo caso, interessati soprattutto all’importazione.

I ricercatori hanno sviluppato un modello matematico che consente di calcolare la ‘capacità portante’ di un Paese, cioè la massima quantità di rifiuti che il sistema nazionale di smaltimento riesce a gestire senza rischiare la congestione. Il tempo di congestione è un buon indicatore del livello di rischio a cui un Paese è esposto. Un Paese con un’economia sviluppata, infatti, potrebbe contare su risorse economiche e infrastrutturali decisamente più ampie, riducendo così il rischio ambientale e sanitario legato alla gestione dei rifiuti.

Tali differenze economiche sono riflesse nell’Environmental Performance Index (EPI, Indice di performance ambientale), che consente di valutare il potenziale impatto ambientale della congestione del sistema di smaltimento dei rifiuti. Questo schema suggerisce che i Paesi che presentano un basso EPI dovrebbero gestire una quantità ridotta di rifiuti, così da non dover utilizzare metodi di smaltimento impropri, che aumentano in modo consistente l’impatto ambientale di questa attività.

Alla luce di questo modello, i Paesi considerati “ad alto rischio di impropria gestione e smaltimento dei rifiuti” (High Risk of Improper Handling and Disposal of Wastes, HRIHDW) sono 57: 29 nazioni africane, 16 asiatiche, 5 nelle Americhe, 4 europee e 3 in Oceania. Poiché, soprattutto per questi Paesi, le informazioni ufficiali sulla gestione degli scarti sono scarse e in gran parte aneddotiche, gli autori dello studio hanno deciso di valutare l’impatto ambientale attraverso dei proxy: si è scelto di utilizzare come marcatori le Impronte Chimiche, cioè quelle sostanze (o gruppi di sostanze) chimiche che sono generate dalla produzione di rifiuti e che lasciano tracce quantificabili nell’ambiente. Per quanto riguarda le tre categorie di rifiuti considerate, le Impronte Chimiche più comuni sono metalli pesanti, composti organici volatili e inquinanti organici persistenti.

I metalli pesanti sono largamente presenti nei rifiuti elettronici, e la loro dispersione nell’ambiente è spesso imputabile sia alle discariche abusive esistenti soprattutto (ma non solo) in molti Paesi in via di sviluppo, sia alle attività non regolamentate e ‘informali’ di riciclo di materiali elettrici ed elettronici. Le discariche abusive sono spesso causa della contaminazione di falde acquifere e terreni agricoli direttamente utilizzati dalle comunità locali; anche l’incenerimento dei rifiuti, d’altra parte, ha un altissimo impatto ambientale, causando il rilascio di scorie pericolose nell’aria. Laddove si riciclano scarti elettronici in assenza di condizioni di sicurezza, gli effetti sulla salute umana sono evidenti: ad esempio, nelle regioni della Cina ‘specializzate’ in questo genere di attività di smaltimento, i livelli di piombo in madri e bambini erano cinque volte superiori al limite di controllo. Alti livelli di materiali come piombo, cromo, nichel nei bambini sono correlati a un basso quoziente intellettivo e a una ridotta capacità respiratoria.

La Nigeria è un altro grande importatore di e-waste: i rifiuti elettronici prodotti da questo Paese, in gran parte frutto del riciclo di computer e altri prodotti di seconda mano o non più utilizzabili, superano il miliardo di tonnellate l’anno. Il Madagascar, invece, è uno dei principali centri mondiali per il riciclo delle batterie elettriche esauste (soprattutto quelle delle automobili), da cui viene estratto il piombo che viene spedito a sua volta in Paesi terzi, come la Cina, il Pakistan, Dubai. Anche il Messico, il Bangladesh, la Papua Nuova Guinea ed altri presentano alti livelli di metalli pesanti: è probabile che, almeno in parte, il problema vada ricollegato alla cattiva gestione dei rifiuti provenienti dal ‘mondo sviluppato’; ma si tratta di una supposizione difficile da provare, a causa della concorrenza delle miniere e dell’inquinamento industriale, anch’essi candidati ad essere tra i primi responsabili della estesa degradazione ambientale.

Dal monitoraggio del traffico di rifiuti degli ultimi due decenni emerge un ulteriore motivo di preoccupazione: si tratta del crescente squilibrio tra importazioni ed esportazioni. Sempre più frequentemente, infatti, i Paesi coinvolti possono essere descritti come ‘esportatori netti’ o ‘importatori netti’. Nella prima categoria si annoverano nazioni come Germania, Francia, Stati Uniti e Ucraina [l’analisi non tiene conto degli effetti della guerra in atto]; nella seconda categoria, invece, troviamo Paesi come Belgio, Spagna, Canada, Paesi Bassi. La Cina, inserita nella lista dei Paesi HRIHDW, è diventata negli ultimi anni un esportatore netto (solo pochi anni fa, nel 2017, la Repubblica Popolare Cinese ha chiuso quasi totalmente le proprie attività di importazione dei rifiuti), mentre ricadono nell’altra definizione Messico, India, Uzbekistan. Nella maggior parte dei casi, le nazioni HRIHDW sono i destinatari finali del ciclo dei rifiuti, divenendo letteralmente le discariche del mondo.

In assenza di un rapido intervento da parte della comunità internazionale, questa situazione continuerà a peggiorare. L’analisi, ad esempio, non ha preso in considerazione l’impatto ambientale della pandemia, e di tutti i rifiuti che le accresciute attività mediche di cura e prevenzione hanno generato. I ricercatori, tuttavia, affermano che il modello da loro sviluppato potrà essere un valido strumento per monitorare questo ed altri eventi, per realizzare previsioni e scenari futuri a medio e lungo termine, e per indicare possibili soluzioni.

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