In questi ultime settimane alcune varianti di Sars-CoV-2, individuate grazie alle analisi dei genomi virali in Paesi come il Regno Unito, il Sud Africa e il Brasile, hanno contribuito a una preoccupante risalita della curva dei contagi. Queste varianti sono caratterizzate da alcune mutazioni (la N510Y in particolare) della proteina Spike che ne aumentano la trasmissibilità, anche del 50%. In particolare le varianti sudafricana e brasiliana (che condividono la mutazione E484K) sembrano addirittura capaci di rendere il virus meno identificabile dagli anticorpi del nostro sistema immunitario: il termine inglese per indicare questo fenomeno è immune evasion.
I governi di tutto il mondo sono preoccupati e sentono di dover mettere in campo tutte le misure di contenimento a propria disposizione per scongiurare una catastrofe sanitaria che si abbatterebbe su ospedali già allo stremo.
È anche per questo che alcuni Paesi hanno scelto di modificare la strategia di inoculazione dei vaccini prevista dai risultati dei trial clinici che hanno ricevuto l’approvazione dalle autorità sanitarie. Tutti i vaccini approvati finora infatti (sia quelli a mRNA di Pfizer/BioNTech e Moderna, sia quello di AstraZeneca, come anche quelli cinesi, russo, indiano) prevedono 2 somministrazioni a distanza di 3 o 4 settimane l’una dall’altra per raggiungere il massimo dell’efficacia e della protezione immunitaria.
Il Regno Unito già il 30 dicembre scorso tramite la sua autorità sanitaria in materia di vaccinazione (il Joint Committeeon Vaccination and Immunisation – JCVI) ha deciso di modificare questo protocollo di somministrazione. Ha infatti raccomandato di inoculare le prime dosi in arrivo dei vaccini di Pfizer e AstraZeneca a quante più persone possibile, anche a costo di non iniettare la seconda dose nei tempi previsti. Per le autorità sanitarie britanniche il tempo di attesa tra prima e seconda inoculazione può essere esteso fino a 3 mesi.
Pfizer/BioNTech ha fatto sapere che non ha evidenze per dire quale possa essere la risposta immunitaria dell’organismo, e quindi l’efficacia del vaccino, non rispettando le tempistiche che sono state testate nella fase 3 del trial clinico. L’8 gennaio, l’Organizzazione mondiale della sanità si è invece sbilanciata, sulla base dei dati a sua disposizione, raccomandando di non somministrare la seconda dose più tardi di 6 settimane dopo la prima.
La stessa amministrazione Biden ha considerato l’eventualità di modificare il piano vaccinale somministrando la prima dose a più persone possibili, con la convinzione che l’Operazione di finanziamento Warp Speed possa garantire l’arrivo della seconda dose in tempo per rispettare la procedura approvata dalla Food & Drug Administration.
Il capo dell’operazione Warp Speed, Moncef Slaoui, ha anche proposto un’altra modifica al protocollo vaccinale: del vaccino sviluppato da Moderna e dal National Institute of Health (NIH) potrebbe venir iniettata solo mezza dose, in modo da avere complessivamente più dosi a disposizione.
“Queste sono tutte questioni ragionevoli da considerare e da valutare, ma all’interno di trial clinici” ha dichiarato il 4 gennaio scorso il capo dell’FDA Stephen Hahn. “Tuttavia, ad oggi, proporre cambiamenti rispetto al dosaggio autorizzato dall’FDA o rispetto alle tempistiche di somministrazione di questi vaccini è prematuro e non radicato solidamente nelle evidenze disponibili”.
A complicare le cose in questi giorni, in Europa e in Italia, ci sono i ritardi nella consegna delle dosi da parte di Pfizer/BioNTech, che si è giustificata con problemi di assestamento nella produzione: la casa farmaceutica starebbe infatti potenziando l’impianto produttivo per garantire, in futuro, la regolare distribuzione delle fiale.
Intervistato da Barbara Paknazar per il Il Bo Live, Stefano Vella, infettivologo e docente di Salute globale all'università Cattolica di Roma, sostiene che la modifica del protocollo di somministrazione reca con sé un ulteriore rischio da non sottovalutare: "dilazionare le dosi è un errore perché porterebbe ad un’immunità parziale ed è proprio quella condizione che spinge il virus a mutare".
Vella si riferisce in particolare alla variante brasiliana, la più minacciosa ad oggi: “A Manaus l’infezione è stata lasciata correre totalmente libera, un po’ perché è in mezzo all’Amazzonia, un po’ perché il governo brasiliano ha scelto di gestire la pandemia in un modo molto pericoloso. Più lo lasciamo libero, più il virus replica e muta. E questo vale per tutti i Paesi del mondo. Non è quindi un caso che la mutazione che ci fa temere di più sia avvenuta dove si è replicato di più, vale a dire a Manaus".
Dai dati disponibili per il vaccino Pfizer, la protezione indotta dalla prima dose è stimata attorno al 50% (con un margine di errore che va dal 30% al 70%). Il dato viene sostanzialmente confermato dalle prime verifiche fatte in Israele, Paese di poco più di 9 milioni di abitanti che ha già vaccinato circa un terzo della sua popolazione. Di 200.000 vaccinati presi in considerazione, secondo Pfizer l'efficacia di protezione a 3 settimane dalla somministrazione della prima dose è del 52%.
Di conseguenza Vella è critico rispetto alla decisione del Regno Unito. “È un errore perché porterebbe ad un’immunità parziale ed è proprio quella condizione che spinge il virus a mutare. Lo abbiamo visto anche nell’ambito delle cure per l’HIV, quando sono stati usati farmaci antiretrovirali con dosaggi non appropriati: il virus ci impiega pochissimo a diventare resistente. Ed è il medesimo meccanismo che accade con gli antibiotici perché, se non vengono usati correttamente, si favorisce il formarsi dei fenomeni di resistenza”.
L’antibiotico-resistenza produce annualmente solo in Europa 4 milioni di infezioni da germi antibiotico-resistenti che causano oltre 37.000 decessi e che sono responsabili di un significativo assorbimento di risorse (sanitarie e non) che ammontano a circa 1,5 miliardi di euro l’anno. Nei soli Stati Uniti sono 2 milioni i soggetti colpiti ogni anno da un’infezione resistente agli antibiotici con circa 50.000 morti e una spesa che supera i 20 milioni di euro.
“Se non si rispettano le tempistiche della vaccinazione” conclude Vella “il rischio è sottoporre il virus a una pressione che non è sufficiente per bloccarlo. È meglio avere un po’ meno persone con un’immunità totale che tante persone con un’immunità parziale".