CULTURA

Ritrovati i temi di Antonio Gramsci al liceo di Cagliari, uno su Leopardi

Ha suscitato un qualche interesse culturale e biografico l’inatteso ritrovamento di tre temi inediti che Antonio Gramsci (1891-1937) scrisse ventenne durante l’anno scolastico 1910-1911, ultimo al liceo Dettori del capoluogo sardo, uno dei quali dedicati a Leopardi. Per alcuni aspetti il clamore è giustificato, pur se l’enfasi non va esagerata per cortesia, comunque contestualizziamo tutto. Il percorso scolastico del gracile studente costretto dalla salute malferma a iniziare tardi (a 7 anni) gli studi elementari, impossibilitato a proseguirli per due anni fra giugno 1903 e ottobre 1905 per necessità di lavorare (a 12 anni), sorretto sempre da una forte volontà di apprendimento, vissuto poveramente a Cagliari per completare il liceo con l’aiuto del fratello maggiore Gennaro, contabile in una fabbrica e cassiere della Camera del lavoro; cosa era allora la Sardegna e quanto pesava la spinta intellettuale degli strati popolari. Gli studi superiori di italiano e di letteratura nell’Italia monarchica ed elitaria dei primi del Novecento; cosa poteva essere in quel quadro leggere e studiare i grandi autori dell’Ottocento, il secolo immediatamente precedente, all’interno della lenta progressiva affermazione dell’importanza di una parte dei testi dell’intellettuale recanatese. Il testo didattico giovanile, elaborato per un insegnante, rivolto a metterlo e mettersi alla prova alla fine di un anno di lezioni, studi e verifiche, in vista di un futuro che avrebbe comportato rinunce e fatiche fuori dall’amata isola, di nascita ed esistenza fino a quel momento; un futuro di clamoroso impatto sociale ed esterno, oltre che di innumerevoli scritture pubbliche e private, divenute fra le più apprezzate in Italia e all’estero, postume.

I temi erano conservati fra le carte del dirigente comunista lombardo Francesco Scotti (Casalpusterlengo, 1910 - Milano, 1973), militante antifascista e partigiano, poi parlamentare italiano del Pci dal 1946 al 1968, per cinque legislature, sia deputato (Assemblea Costituente, I° e II°) che senatore (III° e IV°). Come talvolta accade per i ricchi variegati faldoni accumulati e custoditi da grandi personalità delle vicende politico-istituzionali, non vengono ovviamente subito catalogati dopo la loro morte. Appare possibile che gli originali fossero stati donati a Scotti dal fratello Carlo Gramsci quando la Fondazione Gramsci nemmeno esisteva. A un certo punto, recentemente il figlio Giuseppe Scotti e la nipote Alice Barrese hanno rintracciato i manoscritti affidandoli alla Fondazione Gramsci, dove esperti studiosi ne hanno innanzitutto verificato l’autenticità sotto il coordinamento di Maria Luisa Righi. Materialmente si tratta dei classici antichi fogli protocollo a righe, un foglio e quattro facciate per ogni tema, scritti in classe su mezza pagina per lasciare spazio a eventuali correzioni, si faceva così un tempo. In prima pagina il titolo e subito sotto lo “svolgimento”, in quarta la firma dello studente e il giudizio del professore che aveva seguito la classe e proposto la prova, nel nostro caso il piemontese Vittorio Amedeo Arullani (Agliano Terme, 1866 - Firenze, 1912), maturità classica e laurea in Lettere a Torino, poeta e docente di lettere italiane in vari Ginnasi Licei. Gramsci lo ebbe in cattedra a Cagliari appunto nel suo ultimo anno di liceo.

Non sono i primi temi scolastici conosciuti e pubblicati di Antonio Gramsci. I tre “nuovi” sono coevi rispetto ad altri quattro già conservati nell’Archivio Antonio Gramsci e già ricompresi nel volume Scritti 1910-1916 dell’Edizione nazionale degli scritti pubblicato nel 2019 da Treccani. Da alcuni anni vi è, infatti, una procedura istituzionalizzata rispetto a quanto è stato firmato o può essere attribuito a Gramsci. Così, anche questi tre componimenti saranno ufficialmente editati secondo i criteri stabiliti per tutti i manoscritti, segnalando i ripensamenti, le cancellazioni, le aggiunte in interlinea, gli interventi del professore e, per quanto possibile, le fonti esplicite e implicite. Come è noto, risulta avviata la pubblicazione nazionale ufficiale degli scritti di Gramsci, posta sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica nel 1990, istituita dal Ministero per i Beni culturali e ambientali con un decreto del 20 dicembre 1996, edita dall’Istituto della Enciclopedia italiana dal 2009. Dopo che fu nominata la commissione scientifica e fu stabilito l’articolato piano dell’opera (lunghi studi preliminari e lenta pubblicazione), nel 1998 fu approvata una ripartizione in sezioni (ognuna con una pluralità di volumi, in parte pubblicati, in larga parte ancora in elaborazione) con le seguenti denominazioni: Scritti 1910-1926Quaderni del carcere 1929-1935Epistolario 1906-1937.

L’esigenza di sistematizzare e certificare le scritture e le attribuzioni gramsciane nasce proprio dal fatto che lui non poté curare in vita nessuna edizione dei propri testi. Gli scritti giornalistici potevano essere non firmati. Relazioni, interventi, conferenze, missive si svolgevano nel crogiuolo contingente della vita politico-istituzionale. La produzione letteraria carceraria fu sottoposta a censura e ha avuto necessariamente rocambolesche vicissitudini: le lettere arrivavano in linea di massima ad altri e ad altre, in un rapporto privato e in piena dittatura italiana, alcune lettere non potranno essere rintracciate probabilmente mai; i quaderni erano meticolosi appunti in vista di una libertà di pensiero e stesura che certamente non arrivò mai, giunti al Pci grazie agli affetti di Gramsci. Non vi potrà essere una edizione “definitiva” di tutte le lettere e di tutti gli articoli, non a caso le stesse successive edizioni critiche (anche dei quaderni) meritano una costante attenzione storica e filologica, oltre che continui aggiornamenti paralleli alla ricerca biografica. Seguiremo gli sviluppi: i volumi “1910-1916” e “1917” sono già stati pubblicati nel 2019 e nel 2015, non ancora i successivi.

A prescindere dall’evidenza che di Gramsci si sa ormai moltissimo e dal lento rigoroso iter ufficiale, intanto possiamo leggere con gusto e interesse i tre “nuovi” temi trascritti con meticolosa attenzione dai manoscritti e, forse, pure segnalare un filone di studi da riprendere. I tre “nuovi” testi sono stati meritoriamente pubblicati su Il fatto quotidiano fra il 23 e il 26 giugno curati da Gad Lerner. Il professor Arullani non assegnava un titolo al componimento da fare, offriva una traccia, la frase di un autore studiato sui libri di testo e probabilmente in classe, nel nostro caso Giovanni Della Casa (1502 - 1556), ovvero “Non si dee l’uomo contentare di fare le cose buone, ma dee studiare di farle anche leggiadre”; Giacomo Leopardi (1798 - 1837), ovvero “Conosciuto, ancor che tristo, ha i suoi diletti il vero”; Henrik Ibsen (1828 – 1906), ovvero “Le verità, invecchiando, diventano errori”. Sono frasi per certi versi senza luogo e senza tempo, per altri versi connesse alle specifiche lezioni di quell’anno, più che una riflessione erudita chiedono spunti originali di pensiero e cura della forma stilistica. Gramsci li mostrò: prese il voto di 7-8 su 10 per i primi due temi, 8+ per il terzo (confermando la precoce matura passione per la drammaturgia europea). Insieme al voto numerico il professore metteva anche qualche frase o parola di commento sul tema svolto: la ragione del voto assegnato (di specifico apprezzamento nel caso di Gramsci), qualche aggettivo cu cui riflettere, un rispettoso riferimento di possibile critica nel merito o nel metodo. Magistrale.

Siamo dentro un percorso formativo, non si tratta di esami o di valori assoluti, non si tratta di trovare spunti letterari decisivi su Della Casa o Leopardi o Ibsen. Casomai, si evidenzia lo sforzo di Gramsci di ragionare sempre anche sull’attualità della situazione politico-sociale a lui contemporanea, a prescindere dallo spunto, seguendo una traccia personale di valutazione intellettuale e morale sul mondo di inizio Novecento. Colpisce innanzitutto il metodo di lettura della realtà e l’idea di dover esprimere una propria opinione “attiva”, non ideologica e tanto meno dogmatica. E colpiscono i frequenti cenni a fatti “diversi”, alle curiosità e ai nessi originali sottolineati da Gramsci. Il lavoro di ricerca biografica e filologica ci dirà quale tema fu svolto prima, quale dopo (anche rispetto agli altri già noti): era l’anno di fine liceo e, in parallelo agli studi superiori, in costanza di condizioni economiche molto disagiate (che lo portavano a scegliere quotidianamente se usare il poco denaro per mangiare o per comprare un qualche testo, per vestirsi meglio o per vedere qualche spettacolo a teatro), Gramsci maturò la scelta di tentare sia di militare più attivamente nel movimento socialista rivoluzionario che di iscriversi a una facoltà di studi universitari sul continente, impegnandosi per ottenere una relativa indispensabile borsa di sostegno economico.

Uno dei tre “nuovi” temi parte dalla traccia di un verso di Leopardi: meglio sempre conoscere il “vero” perché, anche se “tristo”, garantisce comunque alcuni “diletti”. La frase è presente quasi alla fine di un’Epistola in endecasillabi sciolti, composta a Bologna nel marzo 1826 e rivolta al Conte Carlo Pepoli per spiegare la volontà di studiare prevalentemente la filosofia e il vero, rispetto alle illusioni giovanili sulla poesia (concetto poi ripreso nello Zibaldone e divenuto fra i più commentati, pure in relazione a letteratura e teatro), probabilmente vi si era accennato in classe. Per oltre la metà del tema, nei primi quattro capoversi Gramsci non cita esplicitamente Leopardi, fa semplicemente propria la sua impostazione e riassume attestandosi su testi pure dell’ultimo Leopardi:

“… Maggiormente sono da ammirarsi quelli, che, pur sapendo che questa loro ricerca è come un arme a doppio taglio che li ferirà profondamente, si sacrificano e si dilaniano le carni, ma nel tempo stesso sentono innalzarsi la propria coscienza, che diventa superiore a quella di tutta la massa degli altri uomini, che vegeta senza aspirare a conoscere le sorgenti della vita, e rifugge da tutto ciò che potrebbe trarla dal suo errore, e si attacca anche agli uncini pur di mantenersi nello stato di beata incoscienza. E il Leopardi prima di morire protestò contro la tendenza degli uomini a voler negare la verità, anche se chiaramente tale. “Prego i miei lettori,” egli scrive “di industriarsi a distruggere le mie osservazioni e i miei ragionamenti, meglio che ad accusarne le mie malattie …”

Nella seconda parte del tema, senza mai più citare Leopardi, Gramsci ribadisce l’impostazione descritta, richiama a conferma Zola e Carducci (richiamato spesso in questi temi), coraggiosi nell’opporsi a gnomi e pigmei del proprio tempo (più o meno anche il suo), e conclude seccamente: “…  Quando si farà chiara la concezione che il vero, anche brutale, è preferibile alla illusione che intorpida i sensi, un gran passo si sarà fatta nell’evoluzione, e gli uomini saranno anche meno sofferenti di quello che sono ora.” È un invito a scuotersi, necessariamente vago. Chiosa il professor Arullani: “Questo ultimo concetto è un po’ oscuro: ma il lavoro è meditato e sentito, pregevole di pensiero e di forma. Il tema è bene inteso, e bene svolto.” Nulla da aggiungere sulla vicenda.

Ci si è in passato un poco interrogati sul rapporto di Gramsci con Leopardi. Certo, lo studiò a scuola approfonditamente. Certo, poi lo citò necessariamente poco in articoli giovanili, comizi, relazioni, lettere e quaderni. A suo tempo, ormai cinquant’anni fa, Sebastiano Timpanaro operò un’analisi accurata e completa (per i testi editi allora) dei richiami gramsciani a Leopardi: citazioni rare, quasi sempre indirette e brevissime, sporadici riferimenti a singole opere del nobile intellettuale recanatese. Forse oggi, in parallelo con l’edizione critica ufficiale degli scritti di Gramsci e con i molti studi successivi sull’approccio a Leopardi nella storia degli studi scolastici italiani, quell’analisi potrebbe essere utilmente aggiornata.

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