SCIENZA E RICERCA

Scavi in un'isola caraibica rivelano la vita quotidiana degli schiavi africani

Per più di 300 anni, sulla rotta della tratta Atlantica, migliaia di navi europee trasportarono ai Caraibi schiavi provenienti dall'Africa, per poi salpare verso il vecchio continente carichi di zucchero, caffè e altre colture prodotte dal lavoro degli stessi schiavi. Questo sistema brutale ha guidato l'economia mondiale per un lungo periodo, tanto che quasi tutte le navi in attività in quel momento storico erano, in un modo o nell'altro, parte della tratta. Sulla rivista Science è stato pubblicato un articolo di Lizzie Wade dal titolo Unearthing the reality of slavery, Excavations on a Caribbean island reveal the lives of enslaved Africans, and how their labor built today’s world che racconta come da degli scavi archeologici portati avanti a St. Croix, nell'arcipelago delle Isole Vergini, si stia cercando di ricostruire lo stile di vita degli schiavi africani.

Tra il 1500 e il 1875, circa 4,8 milioni di africani ridotti in schiavitù furono portati nei Caraibi, rispetto ai circa 389.000 portati negli Stati Uniti. Una volta giunti a St. Croix, venivano venduti alle tenute dell'isola, tra cui Estate Little Princess, che si trova sulla costa, 3 chilometri a nord-ovest del porto di Christiansted ed è ora una riserva di proprietà della Nature Conservancy. Un censimento ha documentato la precedente esistenza di 38 case nel villaggio della tenuta, ma molte sono state demolite. I ricercatori hanno trovato le rovine di solo cinque di queste, nella forma di muri fatiscenti fatti di pietra e pezzi di corallo raccolti dalle scogliere dell'isola. Gli schiavi africani hanno vissuto e lavorato nella tenuta Little Princess a partire dalla fondazione della piantagione, nel 1749, fino all'abolizione della schiavitù a St. Croix, nel 1848. Nel 1772, all'apice della produttività della piantagione, erano presenti 141 schiavi. Furono costretti a compiere il duro lavoro di seminare e raccogliere la canna da zucchero, frantumarla e bollirla per produrre zucchero e rum. La loro fatica portò grandi guadagni ai piantatori bianchi della tenuta e al loro paese d'origine: la Danimarca, che governò l'isola dal 1672 al 1917.

Le fonti scritte che parlano di questa e altre piantagioni dei Caraibi, riportano dati quali il numero di schiavi che abitavano quei luoghi, il loro sesso, l'età e la provenienza, però non rivelano quasi nulla della loro vita quotidiana. Eppure quelle persone strinsero dei legami, delle amicizie, ebbero figli e costruirono famiglie nell'incertezza della loro sorte. Nei villaggi coltivarono il proprio cibo, raccolsero l'acqua e usarono l'argilla locale per produrre nuovi stili di ceramiche. Allevarono bestiame e probabilmente pescarono e catturarono la selvaggina. Inoltre, vendevano le eccedenze dei propri raccolti e prodotti di artigianato in mercati auto-organizzati. Per raffigurarsi questo universo variegato, fatto di brutalità, ma anche di normalità, occorre affidarsi all'archeologia.

Visti dagli occhi degli archeologi, i bottoni, le ossa cotte e i frammenti di pentole e porcellane sono indizi vitali su come queste persone avessero mantenuto le proprie individualità e umanità all'interno di un sistema progettato per spogliarle di entrambe. Inoltre, lo studio della vegetazione, dei sistemi idrici e di altre caratteristiche ambientali permette agli archeologi di documentare come la schiavitù abbia letteralmente rimodellato le isole e il mondo. Dopo aver ordinato per tipologia gli oggetti rinvenuti, questi verranno inseriti nell'Archivio digitale di artefatti provenienti da siti di schiavitù (Daacs), che include materiale proveniente da 53 siti statunitensi e da 24 siti in sei isole dei Caraibi.

Gli oggetti che utilizzavano gli schiavi erano tutti quelli che si potrebbero immaginare nel contesto di una piantagione caraibica: bottiglie di vetro per conservare acqua o medicine, ceramiche di produzione locale, ossa di animali, bottoni e chiusure a strappo per vestiti, chiodi, frammenti di tubi e anche oggetti costosi di importazione come la porcellana. Contrariamente a un'ipotesi un tempo comune, i piantatori non hanno acquistato questi articoli. Quando, negli anni '70, i ricercatori iniziarono a scavare per la prima volta nelle piantagioni, pensarono che tutti gli oggetti nelle case dei lavoratori ridotti in schiavitù fossero forniti loro dalla classe dei piantatori. Tuttavia, ulteriori ricerche negli archivi e sul campo, hanno rivelato che gli schiavi africani, sia nei Caraibi che negli Stati Uniti sud-orientali acquistarono i loro beni. Ogni oggetto di ornamento personale ritrovato a St. Croix simboleggia una scelta economica e stilistica fatta da una persona schiavizzata. Quindi, in questa e in altre isole dei Caraibi, gli schiavi africani, insieme a persone libere di colore, commercianti di passaggio e residenti bianchi poveri e di fascia media, facevano acquisti e vendevano oggetti nei mercati, spesso gestiti sia da donne nere libere che da quelle schiavizzate.

Ma le tracce del passaggio di questi antichi abitanti dell'isola non si limitano a degli artefatti, infatti gli schiavi furono costretti a liberare vaste foreste per far posto ai campi di canna da zucchero modificando il paesaggio circostante. Inoltre la canna da zucchero è un coltura che consuma tanta acqua, perciò in molte isole dovettero deviare il corso dei fiumi per alimentare i nuovi campi. In una piantagione chiamata Morne Patate nella Dominica, gli studiosi hanno trovato semi e altri resti di piante provenienti da tutto il mondo: mais dalle Americhe, guava dai Caraibi, orzo dall'Europa e miglio e sorgo, che erano gli alimenti principali in Africa. L'accostamento sperimentale tra diverse colture ha portato alla creazione di una nuova cucina caraibica, guidata dalle decisioni e dai gusti degli africani schiavizzati.

Anche se la schiavitù a St. Croix venne abolita nel 1848 e nel 1917 l'isola divenne territorio degli Stati Uniti, la tenuta Little Princess produsse zucchero fino agli anni '60 del '900. I documenti attestano che molti dei neo-liberati rimasero nella tenuta e divennero lavoratori pagati, come accadde nelle piantagioni di tutta l'isola. Sebbene alcune case del villaggio furono demolite nel XX secolo per scacciare gli abusivi, le case ancora in piedi furono abitate fino agli anni '60 o anche più tardi: gli archeologi hanno scoperto batterie e frammenti di un boom box (radioregistratore).

Perché, una volta liberati, gli ex schiavi non lasciarono quelle terre? Ricominciare avrebbe potuto costituire un grande rischio, soprattutto perché la schiavitù non fu abolita nei Caraibi fino a quando Cuba non divenne l'ultima isola a metterla al bando nel 1886. Certamente erano ansiosi di sfuggire alla costante sorveglianza della classe dei piantatori: nel 1824,  nella Dominica, alcuni si trasferirono fuori dal vecchio villaggio e costruirono nuove case in mezzo ai campi dove lavoravano, più lontano dalle case dei piantatori, rivendicando la propria autonomia. Sono stati rinvenuti i resti di piattaforme rialzate fatte di pietra e terra, in cima alle quali venivano costruite le case dei neo-liberati. Queste abitazioni potevano essere rapidamente smontate e ricostruite altrove, se fosse stato necessario spostarsi per esigenze personali o per sfratto. Questa usanza è un ulteriore simbolo dell'isola di St. Croix e della sua gente, votate al cambiamento per la sopravvivenza.

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