SOCIETÀ

Schiavitù antiche e moderne, oggi sono ancora tante, in quantità e qualità

La schiavitù, risultare assoggettato al potere assoluto di un altro sapiens (uno o più padroni), è una condizione umana di solito naturalmente associata a conflitti, guerre ed emigrazioni forzate. L’eliminazione fisica, lo sterminio, la morte in battaglia e in guerra nella storia neolitica (stanziale) della nostra specie potevano non riguardare tutti gli stranierisconfitti, alcuni furono “conquistati” come nullatenenti privi di diritti, ridotti schiavi o servi o vendibili piuttosto che deportati, proprietà privata (almeno da quando esiste storicamente), utilissimi (non necessariamente in loco) per i lavori agricoli e edilizi d’infrastrutturazione agricola, politica, religiosa, commerciale, militare, le donne (senza assoluta esclusività) anche per funzioni domestiche, riproduttive e sessuali. Quasi tutte le civiltà e i popoli del lunghissimo periodo agricolo (non tutte, per esempio anticamente non nelle valli dell’Indo) conobbero prima o dopo massicce deportazioni, forme di schiavitù conseguenti a conquiste e conflitti armati (ora qui ora là, c’erano anche altre premesse più o meno temporanee, come l’insolvenza per debiti o la condanna per gravi reati), quasi un modo di produzione in talune fasi e in talune città, per esempio in molte di quelle dell’antica Grecia (anche la metà della popolazione).

Le storiografie sulla schiavitù e la sua evoluzione, sui molteplici possibili gradi e forme di proprietà su altro/altra/altri/altre sapiens, sui caratteri sociali, fisici, psichici e psicologici (talora autonomi e non interdipendenti) dell’assoggettamento umano, su differenze e nessi con il servaggio, l’apartheid, la prigionia, il vassallaggio, le semilibertà, la mezzadria, la casta inferiore, il maschilismo padronale sono così ampie che non è pensabile una trattazione unitaria e individuale, riassuntiva di tutte le epoche e i periodi. Lo stesso grande Marc Bloch concentrò l’attenzione sullaservitù nella società medievale, oppure sono stati fatti spesso singoli paralleli storici fra la situazione di vari popoli distanti nel tempo e nello spazio. Vi è tornato sopra recentemente (a fine 2022) il bravissimo storico Alessandro Barberocon conferenze molto seguite. Se ne è talora parlato anche qui, esaminando varie rotte e tappe cronologiche rispetto alla più nota schiavitù contro gli africani gestita da africani e poi dai colonizzatori europei, soprattutto a partire dagli studi della bravissima docente sarda Bianca Maria Carcangiu e riflettendo pure su alcuni aspetti o momenti particolari.

Nell’antichità greca (per fare un esempio) la vittoria giustificava un diritto di cattura del vinto e i vincitori attribuivano a una sorta d’inferiorità climatica la naturalità della schiavitù. Qualcuno riusciva a fuggire prima della conquista o dopo la riduzione in schiavitù, emigrava (fuggiva) altrove; la schiavitù è strettamente connessa alla grande variabilità dei fenomeni migratori, siano essi armate invasioni immigratorie nei confronti di comunità e popoli, fughe dei residenti non uccisi né resi prigionieri (perlopiù schiavi), emigrazioni forzate dei residenti prigionieri. E, ovviamente, molto hanno inciso condizioni e cambiamenti climatici. In Asia, per altro, la deportazione di schiavi era cominciata prima che in Africa e risultò poi quantitativamente simile. La deportazione di africani dall’Africa sub sahariana, soprattutto dalle zone interne distanti dalla costa (occidentale), come lavoratori coatti (esercito agricolo di riserva e integrazione rispetto agli indios) ridotti in schiavitù (o già parzialmente schiavi), barattati soprattutto con acquavite, fucili, zucchero (energia e gusto) è la più grande migrazione intercontinentale forzata mai esistita, molto influenzata dalle condizioni climatiche.

Comunque, almeno 10 milioni di africani in circa tre secoli (soprattutto alla fine del Settecento) vengono deportati solo nell’America meridionale (circa metà nelle isole caraibiche, circa metà in Brasile, ma una percentuale fra il 10 e il 20% muore in viaggio), altri (milioni) nell’America del Nord, nei paesi dell’Oceano Indiano e del Mar Mediterraneo, altri (milioni) vengono uccisi fra il luogo di cattura e quello d’imbarco, su un totale di popolazione dell’Africa sub sahariana di circa 50 milioni nel 1500 e di circa 200 nel 1900, cifre enormi e molto studiate (con esiti non univoci) per gli effetti e assetti demografici e genetici di lungo periodo. Partivano soprattutto dalle coste occidentali, più uomini giovani che altro. Sempre meno e solo all’inizio arrivano in Europa (anche se portoghesi e europei continuano a dirigere il tutto, complici alcuni trafficanti africani che si arricchiscono e imparano a commerciare), solo pochi (meno del 5%) dell’incredibile cifra complessiva di forzati a migrare sono schiavi negli Stati Uniti.

La schiavitù ha un suo proprio sistema demografico capitalistico, legato a come si ripaga il capitale investito.

Servono continue immigrazioni perché la mortalità è altissima e modesta la riproduttività (di schiavi). Per generazioni è triste e conveniente acquistare nel luogo di emigrazioni piuttosto che consentire riproduzione e cure parentali nel luogo di immigrazione. Migrazioni forzate, lavori forzati, morti uccisi. Questi forced displaced people transcontinentali andrebbero sommati a quelli africani interni: per quanto in una forma non devastante socialmente e demograficamente (maggiore coesione comunitaria e territoriale), la schiavitù continua a lungo ad alimentare anche le economie africane. Solo nel corso del XIX° secolo sarebbero stati fatti schiavi interni almeno 600 mila africani da parte di poterselo scegliere in ogni momento. L’abolizione della tratta dall’Africa dell’Ovest non impedì che poi il traffico (anche lecito) di schiavi partisse dalle coste orientali del continente verso altre destinazioni.

Gli storici hanno stabilito una differenza molto netta tra società con schiavi e società schiavistiche, tra comunità dove poteva essere considerata inaccettabile e comunità (in genere più antiche) dove veniva data per scontata. Comunque, solo un paio di secoli fa l’istituto della schiavitù cominciò a essere davvero giuridicamente abolito dai primi Stati occidentali (Inghilterra 1807, USA 1808, Olanda 1814, Francia 1814, ecc.) e dai nuovi stati indipendenti della Meso America (Cuba 1860, Brasile 1888, ecc.), più tardi l’apartheid legale negli USA. Continuò comunque in lungo e in largo, 1.300.000 africani ancora poi venduti, clandestinamente, assumendo anche forme infracontinentali, come a cavallo fra Ottocento e Novecento la tratta dei coolis, popolazioni indiane e cinesi forzate a migrare dai colonizzatori europei, con l’aiuto di trafficanti locali, verso miniere, piantagioni, fabbriche in Thailandia, Indonesia, Filippine, Oceania.

La questione cruciale riguarda l’esistenza della schiavitù dopo la colonizzazione europea occidentale, dopo la formale abolizione, dopo la Dichiarazione Universale dei diritti umani, dopo la fine del Novecento e pure ai giorni nostri, in corso. I lunghi secoli del crescente impegno abolizionista, tradottosi lentamente nel consenso maggioritario fra la popolazione libera e fra gli Stati democratici, infine sanzionato con voti e norme, si è immediatamente dovuto trasformare in impegno verificazionista dell’effettiva fine e nel contrasto con forme nuove, per quanto internazionalmente illegali, di schiavismo padronale e schiavitù umana. Nel contempo, si sono sempre più analizzate da una parte le dinamiche di potere assolutointerumano prima del capitalismo e della legale proprietà privata, nella preistoria e nella storia, dall’altra i meccanismi che determinano la tolleranza, il consenso e talora l’accettazione del potere assoluto, pubblico o privato, proprio o altrui, nei contesti comunitari o nelle relazioni private.

Fenomeni schiavistici e di apartheid sono certamente diffusi ancor oggi, capitalisticamente rilevanti, anche molto dopo l’organizzazione e la legislazione delle nazioni unite, anche dopo la straordinaria rivoluzione pacifica e riconciliazione istituzionale del Sudafrica di Mandela.  L’elemento costrittivo può non avere un corrispettivo vitale. Altri scelgono: in quel momento da quel luogo si può essere proprio costretti ad andarsene se non si vuole diventare “schiavi” di quel potere e rinunciare alla propria identità (in particolare culturale visto che razziale non significa nulla, religiosa, politica, sessuale, civile, sono questi i cinque casi previsti per il diritto d’asilo). La relatività, la complessità, le reti, l’evoluzione, lo stesso rifiuto di determinismi non possono impedirci di vedere costrizioni assolute a migrare e di indagarle negli effetti istituzionali, sociali, culturali, ecologici. Vi sono vecchie e nuove costrizioni assolute e dirette, nel senso proprio che umani spostano con la forza altri umani. Non per gusto, non solo per denaro, come offerta rispetto a una domanda che sta altrove.

Per gli schiavi contemporanei la condizione di schiavitù preesiste (purtroppo) e prosegue (purtroppo) rispetto alla migrazione forzata (interna o internazionale), resta la costrizione assoluta; ancora oggi arricchisce illegalmente tanti, più di quel che crediamo, con funzioni moderne e complicate, per quanto disgustose (e disgustosamente funzionali a libertà di chi li compra): la tratta delle donne (magari con qualche consenso estorto, spesso con il volontario miraggio dell’immigrazione altrove), la tratta dei bambini e delle bambine (magari con il consenso di genitori). L’associazione americana Free the Slaves ne stimava un decennio fa circa 28 milioni, 1,2 costretti al traffico della prostituzione. Il dipartimento di Stato americano ne stimava solo nel 2004 quasi ottocentomila ridotti in schiavitù, un fenomeno globale, più fra paesi dello stesso continente, un terzo in Asia, quasi un terzo in Europa. La migrazione forzata è una delle tante violenze che possono subire. E, probabilmente, sono molti di più.

Uno dei primi a riparlarne esplicitamente e pubblicamente in Italia all’inizio del terzo millennio fu il grande compianto giornalista e intellettuale Alessandro Leogrande (1977 - 2017). Era vicedirettore del mensile Lo straniero, collaborava con quotidiani e riviste, conduceva trasmissioni per Radiotre e pubblicava vari libri di documentazione giornalistica su fatti e misfatti contemporanei, insistendo spesso sulla triste modernità della schiavitù. A fine 2010 così recensiva gli allora recenti volumi dello studioso americano Benjamin Skinner (1976), che aveva contato 27 milioni di sapiens barbaramente schiavi coevi (2008), e della studiosa messicana Lydia Cacho (1963), che aveva contato circa 1.400.000 donne ridotte schiave ogni anno (2010), entrambi subito tradotti: “Oggi nel mondo ci sono più schiavi di quanti ve ne fossero prima della Guerra di Secessione, più che in qualsiasi altra epoca del passato. Ci sono schiavi del lavoro forzato. Ci sono schiavi del sesso, o meglio “schiave del sesso” perché nella quasi totalità sono donne, e sono le ultime tra gli ultimi. Vi sono schiavi per debito, e schiavi bambini. Sono milioni…”

Riprendendo i due documentati saggi e riferendosi alla schiavitù come soggezione continuativa, Leogrande denunciava anche quanto accadeva (e accade) in Italia: “Queste cose non riguardano solo il Sud del mondo. Sono forme di dominio che si stanno diffondendo anche nel Nord del mondo, anche nei paesi del G8, e - come nel caso del lavoro forzato - rischiano di diventare la base di interi settori della nostra economia… La schiavitù da lavoro (presente anche, nelle medesime forme estreme, nell’agricoltura del nostro paese) è qualcosa che sta a metà strada tra il vecchio caporalato e le nuove schiavitù per fini sessuali. Se dal primo ha mutuato l’intermediazione di manodopera e l’ha portata su scala globale, impiegando braccia migranti, è dal secondo che ha assunto le forme del dominio. Basta leggere le poche inchieste della magistratura italiana su alcuni casi di riduzione in schiavitù nel mondo del lavoro per rendersene conto. C’è un salto di qualità rispetto al caporalato classico che non è spiegabile solo in termini di regressione o imbarbarimento delle relazioni del sotto-lavoro. C’è invece un preciso modo di sottomettere le vittime, di assoggettarle in modo continuativo, di renderle oggetto di tratta e di sfruttamento, che rimanda ad altre forme di schiavitù…

… Anche in Italia, con la legge 228 del 2003, è stato riformulato il reato di riduzione in schiavitù (art. 600 del nostro codice penale), secondo un’accezione molto simile a quella proposta dai due autori nei loro libri: facendo leva sull’idea di costrizione fisica e psicologica, sull’inganno, sul ricatto, sulla violenza, sulla non volontarietà, sulla promessa di un pagamento dilazionato nel tempo. Anche da noi, come negli Usa, le denunce per riduzione in schiavitù si sono moltiplicate. Ma il sentiero giuridico è più che accidentato: in meno del 10% dei casi si riesce ad arrivare al rinvio a giudizio, e in una percentuale ancora più bassa a una sentenza di condanna in primo grado. Questo ci dice non solo che è difficile incastrare i nuovi schiavisti, perché è difficile provare un reato che spesso avviene nell’ombra, e su scala trans-nazionale, ma che è di estrema importanza proteggere le vittime dalle minacce dei loro aguzzini per garantire loro la possibilità di denunciarli. È fondamentale far intravedere alle vittime un altro orizzonte di vita, un diverso reinserimento sociale, perché altrimenti il rischio di ricadere nello stesso girone da cui sono miracolosamente uscite diventa elevatissimo…”

Tutto ciò vale ancor oggi, nel 2023, drammaticamente. Sono tanti i paesi del mondo dove la schiavitù di fatto viene tollerata, o nella forma in caste della discriminazione sociale, o nelle forme moderne ricordate da Leogrande. Tutto ciò ci riguarda ancora da vicino. La tratta delle prostitute è florida, la maggioranza delle attuali oltre 100.000 praticanti italiane (quasi esclusivamente donne, perlopiù straniere, immigrate irregolari tramite schiavisti) subisce un potere assoluto (e spesso solo maschile e violento). E l’associazione Slaves no more ha recentemente presentato in Senato un rapporto che alla schiavitù sessuale aggiunge una frequente enorme vulnerabilità femminile (disparità salariale e soggezione continuativa) in molti altri lavori come quelli di cura e assistenza. Le condizioni di lavoro agricolo “schiavistiche” che ricordano le piantagioni di cotone in Virginia (dove lavorarono ovviamente anche immigrati italiani) riguardano adesso centinaia di migliaia di italiani e stranieri nel nostro paese, secondo l’ultimo rapporto “Agromafie e caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto. La stima attuale è che vi siano 366.000 bimbi (tra 7 e 15 anni) minorenni lavoratori in Italia (rapporto Save the Children, presente la ministra italiana). Non vi è lavoro “congruo” che tenga. Bisogna contrastare la forma e la sostanza delle orride schiavitù a noi contemporanee.

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