Secondo i dati forniti da LitCovid – una piattaforma della National Library of Medicine che raggruppa la letteratura scientifica sul nuovo coronavirus – gli articoli pubblicati su PubMed solo nella settimana dall’11 al 17 maggio sono 2.504. A questi vanno aggiunti quelli consultabili su portali ad accesso aperto come BioRxiv e MedRxiv, che raccolgono invece paper non ancora sottoposti al processo di revisione paritaria (peer review). Si tratta di due archivi online in cui confluiscono le ricerche prima di essere pubblicate su riviste scientifiche (preprint). Siti di questo tipo esistono ormai da molti anni, i primi a fare la loro comparsa furono dedicati alla fisica, alla matematica, alle scienze sociali. Poi nel 2013 e nel 2019, arrivarono i due dedicati rispettivamente alla biologia e alle scienze mediche. “La comunità dei ricercatori si è mobilitata come non mai”, afferma John Inglis, della casa editrice accademica Cold Spring Harbor Laboratory Press di New York e cofondatore dei due portali citati, e aggiunge: “Le visualizzazioni e i download su MedRxiv, ad esempio, sono aumentati di oltre 100 volte da dicembre”.
A fronte di questi numeri, sorgono alcune questioni: come si spiega, innanzitutto, un numero così elevato di articoli scientifici pubblicato tanto rapidamente, tenendo conto di quali siano di norma i tempi richiesti dal lavoro di ricerca scientifica (raccolta dati, analisi, interpretazione etc.)? In secondo luogo, gli studi su MedRix e BioRxiv, pubblicati senza che venga valutato il metodo seguito e le conclusioni raggiunte, hanno lo stesso “peso” dei paper su riviste scientifiche? Infine, considerando l’urgenza posta dall’attuale pandemia ma anche la sensibilità dei dati contenuti spesso negli studi biomedici, la pubblicazione di preprint in siti ad accesso aperto pone più vantaggi o rischi?
The Science family of journals is gathering its #coronavirus research papers and commentary in one place: https://t.co/eqE6eV4Ywc.
— Science Magazine (@ScienceMagazine) March 5, 2020
The page will be updated as new information is available. #COVID19
“La pandemia da coronavirus – sottolinea Paola Zanovello, docente di immunologia all’università di Padova – ha sconvolto le nostre vite personali e professionali, ha avuto un impatto incredibilmente forte su tutti gli aspetti della società, da quello sociale a quello economico e culturale, fino a coinvolgere anche la comunicazione della scienza e la ricerca scientifica. La scienza è stata forse uno dei primi ambiti in cui la comunicazione internazionale è diventata fondamentale: i dati della ricerca devono essere diffusi e messi a disposizione di tutta la comunità scientifica. Per molti anni la condivisione in genere è sempre avvenuta solo tra scienziati, e questi sono stati accusati di aver circoscritto al loro interno il dibattito scientifico e di essere stati poco capaci di comunicare all’esterno. Oggi però stiamo assistendo quasi a un ribaltamento di questa situazione”.
I dati della ricerca scientifica, prima della pubblicazione, sono sempre andati incontro a un processo di revisione tra pari, anche abbastanza severo, che garantisce la bontà e correttezza del metodo e la solidità dei risultati. “La possibilità, in questo momento, di poter prescindere dal processo di peer review e di poter accedere a piattaforme in cui anticipare la pubblicazione dei dati – continua l’immunologa – per certi versi solleva delle perplessità. Bisogna essere consapevoli dei vantaggi e dei rischi cui si può andare incontro. Sicuramente, durante una pandemia, lo sforzo collettivo da parte degli scienziati di condividere osservazioni, dati preliminari, speculazioni è un aspetto positivo”. Secondo la docente, infatti, fare rete e condividere tutti i dati senza aspettarne la pubblicazione secondo l’iter classico può rappresentare un indubbio beneficio con ricadute facilmente intuibili: una più veloce comprensione della biologia del virus e la caratterizzazione di aspetti che possono tornare utili nell’immediato per le cure e più a lunga distanza per la formulazione di un vaccino.
Del resto, come è avvenuto nei mesi scorsi, il rilascio delle sequenze genomiche complete del virus attraverso una piattaforma di accesso pubblico, e dei protocolli dei test di reazione a catena della polimerasi, sviluppati di conseguenza, ha permesso di diagnosticare con precisione le infezioni nelle prime situazioni di emergenza. La stessa Organizzazione mondiale della Sanità ha sottolineato come la rapida condivisione dei dati sia alla base delle azioni di salute pubblica.
“È chiaro, però – argomenta –, che questo modo di pubblicare porta con sé diversi rischi. La prima riflessione da fare riguarda la possibilità di conciliare la velocità nella diffusione dei dati e il rigore metodologico. I risultati della ricerca scientifica devono essere solidi e riproducibili. Siamo nell’università di Galileo e mi piace ricordare che è stato Galileo a insegnarci che si può parlare di scienza solo quando le osservazioni si possono misurare e riprodurre. Per ottenere risultati riproducibili, però, i ricercatori devono ripetere molte volte gli esperimenti, avere un numero elevato di pazienti (il campione statistico dunque è importante), per eliminare le variabilità, l’intervento di eventi casuali e rendere il dato più solido. E questo non è possibile in un mese, in due mesi. La ricerca ha dei tempi sotto ai quali è difficile arrivare. Certo, questo dipende anche dal tipo di indagine scientifica, dalla complessità del progetto, dai gruppi di persone che lavorano, dai finanziamenti”.
Molti degli articoli pubblicati invece non raccolgono dati, osserva la docente, quanto piuttosto speculazioni, riflessioni, commenti, ipotesi. “Se è vero che la ricerca parte da un’idea, da un’ipotesi di lavoro, è anche vero che fare ricerca significa dimostrare che quella speculazione, quell’idea originale è verificabile, significa confermarla con dati scientifici oppure non confermarla”. Dunque, secondo Zanovello, se si intende davvero aumentare le conoscenze sul virus Sars-CoV-2 è necessario sviluppare dei progetti secondo un modello solido, ottenere dei dati, consolidarli, renderli riproducibili e sottoporli alla critica tra pari. Alle stesse conclusioni giungono anche Fabrizio Bianchi e Pietro Greco in un articolo pubblicato recentemente su Scienzainrete, nel quale evidenziano che sulle riviste scientifiche, come sui media tradizionalisti, prevalgono più le analisi qualitative che i report quantitativi sottoposti a peer review.
“Un altro rischio che si corre – continua Zanovello – è la ricerca di visibilità personale. Mi pare che talvolta si voglia uscire con notizie clamorose, che facciano rumore”. E questo sembra prevalere sull’attenzione che invece la comunità scientifica dovrebbe prestare nei confronti del pubblico: oggi la collettività cerca notizie e certezze e può non essere in grado di interpretare nella maniera corretta quello che per un ricercatore è una semplice ipotesi.
What makes #coronavirus misinformation so potent? pic.twitter.com/wQDXU50Zgo
— Nature News & Comment (@NatureNews) May 14, 2020
“Quando uno scienziato parla o scrive, anche in queste piattaforme di accesso pubblico alle quali possono accedere persone prive di conoscenze biomediche, dovrebbe sempre precisare in qualche modo quando ciò che sta scrivendo è frutto di speculazione e non di dati consolidati. Io credo che questa responsabilità ci debba sempre essere. Tanto più in un momento in cui gli scienziati sono chiamati a contribuire ai dibattiti a tutti i livelli e considerando anche che i media, da parte loro, vanno spesso alla ricerca del sensazionalismo e dunque non sono di aiuto”. Se la comunicazione avviene “tra pari”, l’interlocutore è in grado di discernere il peso delle affermazioni; quando invece si presuppone che il lettore o l’uditore non possiedano conoscenze tali da permettergli di fare una valutazione critica, serve esplicitare con chiarezza presupposti e risultati.
Zanovello si sofferma infine su alcune critiche mosse a virologi, immunologi, infettivologi e quanti, in questo periodo di pandemia, hanno partecipato al dibattito pubblico. “È stato detto che gli scienziati si contraddicono tra loro, e che molte affermazioni troppo perentorie e presentate con troppa forza sono poi state corrette o smentite dai fatti. Sicuramente la scienza progredisce per piccoli passi, e i risultati delle ricerche possono trovare piena conferma o essere in qualche misura modificati sulla base di osservazioni successive. La scienza non è certezza, non è una verità assoluta; la scienza è ricerca. Lo scienziato fa un’affermazione sulla base delle conoscenze che ha in mano in quel momento, ma le cose possono cambiare, soprattutto quando si parla di un virus che non si conosce, di cui si sa ancora poco. Probabilmente, questo aspetto non è stato sufficientemente sottolineato al pubblico, e ciò può avere alimentato una sensazione generalizzata di confusione".
Conclude l'immunologa: "Al netto dei casi di protagonismo, che possono certamente rappresentare un limite per una corretta comunicazione, ritengo che la partecipazione degli scienziati nelle comunicazioni ufficiali e nel dibattito pubblico sia servito per riaffermare il ruolo della competenza in un’epoca in cui la Rete offre a tutti notizie non opportunamente filtrate. Quella attuale è stata una grande occasione per chi fa ricerca di dimostrare che il contributo della scienza è determinante anche nelle scelte organizzative, decisionali, politiche”.