SCIENZA E RICERCA

Farmaci psichedelici e salute mentale: cosa dice la scienza?

Lsd, Mdma, psilocibina, dimetiltriptamina (Dmt). A lungo conosciute e riconosciute principalmente per il loro utilizzo a scopo ricreativo, le sostanze psichedeliche stanno ora vivendo un momento di rinnovato interesse nell’ambito della ricerca scientifica che ne indaga il potenziale nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici, come depressione, ansia, sindrome da stress post traumatico (Ptsd) e alcolismo. Un interesse iniziato negli anni Cinquanta e interrotto bruscamente nei primi anni Settanta del secolo scorso, ai tempi della “war on drugs”. Allora, queste sostanze furono inserite dall’agenzia federale antidroga degli Stati Uniti, la Drug Enforcement Administration (Dea), nella cosiddetta “Schedule I” e, con la firma del Controlled Substaces Act da parte del presidente Nixon, la ricerca scientifica nel settore venne praticamente bloccata. 

Ora, dopo alcuni decenni di stop, gli studi sulle sostanze psicoattive sono ricominciati e, poco a poco, hanno iniziato a dare i loro frutti, facendo parlare di un vero e proprio “rinascimento psichedelico”. Ma qual è la ragione dietro questa riscoperta? Ne abbiamo parlato con Stefano Comai, professore di farmacologia all’Università di Padova: “Uno dei principali motivi per cui la ricerca sugli psichedelici ha ripreso vigore è la persistente mancanza di farmaci efficaci per una parte significativa dei pazienti affetti da disturbi psichiatrici. Nel caso della depressione, ad esempio, molti antidepressivi tradizionali richiedono settimane per mostrare effetti e funzionano solo in una parte della popolazione, lasciando un gran numero di pazienti senza un trattamento adeguato. Inoltre, gli effetti collaterali di questi farmaci possono essere significativi, portando molti a sospendere la terapia.” 

Coniato dallo psichiatra Humphrey Osmond nel 1956, il termine "psichedelico" deriva dal greco e può essere letteralmente tradotto come "manifestazione della mente". Numerosi sono gli studi che hanno visto protagonisti Lsd, psilocibina, ayahuasca e Mdma nel trattamento di disturbi quali l’alcolismo, la dipendenza da nicotina e la depressione e che hanno ottenuto risultati promettenti. 

E oggi, grazie a queste evidenze, nuove sostanze sono in fase di sperimentazione. Un esempio è la ketamina. Nato come anestetico, la ketamina riesce, in aggiunta, ad indurre stati alterati della coscienza e allucinazioni, anche se attraverso un meccanismo d’azione differente rispetto ad altre sostanze psicoattive: “Gli psichedelici classici agiscono principalmente sul sistema della serotonina (un neurotrasmettitore spesso associato al benessere e alla regolazione dell'umore), la ketamina agisce sul recettore del glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio del cervello. A partire dagli anni 2000, è emerso un interesse crescente per l’uso di questa sostanza nel trattamento di quelle forme di depressione che non rispondono ai farmaci antidepressivi tradizionali. Studi clinici hanno mostrato che, in molti pazienti, la ketamina può produrre un effetto antidepressivo rapido, con un miglioramento clinico visibile già dopo poche ore dalla somministrazione. Questa evidenza ha portato allo sviluppo di una variante della ketamina, l’esketamina, approvata in Italia e in altri paesi. L’esketamina viene somministrata per via nasale, facilitando l’impiego clinico rispetto alla somministrazione endovenosa.” continua Comai. 

Terapia psichedelica, di cosa stiamo parlando? 

Ma come funziona una terapia che prevede l’utilizzo di sostanze psichedeliche? Ci spiega Comai che i pazienti che assumono specifiche dosi di queste molecole sperimentano un vero e proprio trip psichedelico, un’esperienza che cambia profondamente la percezione della realtà e che risulta essere molto soggettiva: “’Alcuni sperimentano allucinazioni visive, altri uditive, altri ancora vivono esperienze spirituali. La durata dell’effetto dipende, poi, anche dal tipo di sostanza: la dimetiltriptamina (DMT), principio attivo dell’ayahuasca, ad esempio, ha una durata più breve, mentre l’effetto dell’LSD può durare anche 6 o 8 ore.” 

Sebbene alcuni descrivano il trip psichedelico come una delle esperienze più belle della loro vita, non sempre è così. Anzi, in certi casi può trasformarsi in una situazione molto difficile da affrontare. Si parla, in questo caso, di bad trip. Gli psichedelici, proprio per la loro caratteristica di essere “manifestazioni della mente”, possono riportare alla luce ricordi o traumi sepolti: “Se una persona ha vissuto abusi nell’infanzia o situazioni traumatiche, queste potrebbero riemergere durante il trip, causando angoscia o panico. In certi casi, al risveglio da un’esperienza del genere, la persona potrebbe sviluppare una vera e propria forma di disturbo da stress post-traumatico (Ptsd)” continua Comai. E in una piccola percentuale di persone, c’è anche un’altra possibile complicazione: la Hallucinogen Persisting Perception Disorder (HPPD), ovvero il persistere di allucinazioni anche dopo che l’effetto della sostanza è terminato. 

È necessario, pertanto, che queste sostanze vengano somministrate in un contesto medico. Spiega Comai che nei trial clinici in corso oggi, l’assunzione di psichedelici avviene sempre in un setting controllato, con un protocollo ben preciso e che l’uso terapeutico di queste molecole è sempre accompagnato dalla psicoterapia: non si tratta solo di prendere la sostanza, c’è un vero e proprio percorso strutturato, con una prima fase di preparazione, in cui uno psicoterapeuta formato incontra il paziente, per accompagnarlo lungo tutto il percorso, una fase di somministrazione della sostanza, in cui il terapeuta aiuta a gestire ciò che emerge durante il trip e una fase di integrazione, che consiste in incontri successivi che permettono alla persona di rielaborare l’esperienza. 

Per limitare alcune problematiche connesse alla componente psicoattiva degli psichedelici, uno degli obiettivi della ricerca è quello di sviluppare nuove molecole che agiscano sugli stessi meccanismi dei classici psichedelici, senza indurre allucinazioni. “Se riuscissimo ad avere lo stesso effetto terapeutico senza la componente psichedelica, avremmo farmaci potenzialmente molto efficaci ma con meno effetti collaterali o rischi psichici” continua Comai.

Le sfide della ricerca

Sono tante, però, le sfide che la ricerca deve ancora affrontare: in uno studio pubblicato nel 2024 su The British Medical Journal, un gruppo internazionale di esperti, supportati da ricercatori dell'Università di Rennes, ha eseguito un'analisi critica degli studi clinici condotti fino ad oggi sull’utilizzo degli psichedelici per il trattamento di patologie psichiatriche. L'analisi ha identificato diverse carenze, sottolineando come nella maggior parte dei casi gli esperimenti fossero stati condotti per un periodo di tempo limitato e su un gruppo esiguo di pazienti, limitandone la rilevanza anche negli studi in fase avanzata. Sembrerebbe, inoltre, che i ricercatori non siano riusciti ad affrontare adeguatamente i limiti dei protocolli in doppio cieco (quando né i pazienti né gli sperimentatori sanno quale trattamento è stato somministrato) per gli psichedelici. Commenta a riguardo Comai: “Ci sono tante domande a cui si deve ancora trovare una risposta. La ricerca è stata ferma per anni e, purtroppo, questo ha portato a delle conseguenze. Un esempio è quello dell’Mdma (anche detta ecstasy), che è stata studiata a lungo per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (Ptsd). Un grande studio, arrivato in fase tre su oltre 250 pazient,i è stato alla fine interrotto dalla Food and Drug Administration (FDA) che non ha approvato l’uso terapeutico della sostanza a causa di alcuni bias. È vero: purtroppo in molti studi sugli psichedelici i gruppi di campioni sono limitati, si parla di un massimo di 50 pazienti che, in aggiunta, sono spesso consapevoli della terapia che stanno assumendo perché nascondere gli effetti è più difficile. Inoltre, l’effetto placebo è molto alto, perché in questi casi anche solo l’aspettativa può migliorare i sintomi. Purtroppo in psichiatria siamo molto più indietro rispetto ad altri settori della medicina. Nel futuro l’obiettivo sarà capire quali pazienti possono beneficiare realmente di questi trattamenti e chi invece potrebbe rischiare effetti negativi. Questo ci porterà verso una psichiatria di precisione, in cui la terapia sia davvero personalizzata.”

Ma continuare a investire nella ricerca sugli psichedelici è di fondamentale importanza. Come sottolinea e conclude Comai: "È la scienza a determinare se un farmaco merita di essere portato avanti. Questo principio vale per qualsiasi trattamento, dalla psilocibina all’aspirina. Il metodo scientifico si basa su studi rigorosi e controllati, che valutano attentamente se i benefici superano i rischi. In molti casi, si tratta infatti di pazienti che non rispondono a nessun'altra terapia. Se i benefici sono significativi e i rischi risultano contenuti o gestibili, allora il trattamento può essere considerato giustificato.”

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