SCIENZA E RICERCA

L’impatto ambientale dell’estrazione di nichel è più alto di quanto si pensasse

La transizione ecologica è un contenitore molto vasto, dentro cui devono coesistere azioni che a volte possono anche andare in contrasto l’una con l’altra. Il passaggio a fonti energetiche a basse emissioni prevede la sostituzione di tecnologie alimentate da combustibili con equivalenti elettriche, che necessitano di una serie di materie prime che, almeno nella prima fase della transizione, vanno estratte dal sottosuolo.

Per tutelare gli ecosistemi e la biodiversità, circa 150 Paesi delle Nazioni Unite si sono impegnati a invertire e fermare la deforestazione entro il 2030, anche per consentire alle foreste di assorbire l’anidride carbonica dall’atmosfera e mitigare il riscaldamento globale.

Si stima che l’industria dell’estrazione mineraria sia già responsabile di circa il 10% delle emissioni annuali di gas serra nel settore energetico. Il settore minerario però raramente include nel conteggio delle proprie emissioni quelle provocate dall’abbattimento di biomassa forestale.

Se n’è accorto un gruppo internazionale di ricercatori, che lavorano in Regno Unito e in Australia, che hanno provato a quantificare, in un lavoro pubblicato su Nature Communications, le emissioni prodotte dalla deforestazione provocata dall’estrazione di nichel, un metallo essenziale alla produzione di batterie (ma anche di acciaio inossidabile), che è stato inserito nella lista della Commissione Europea dei 34 minerali critici per la transizione energetica.

I risultati fanno emergere una forte sottovalutazione dell’impatto ambientale dei siti estrattivi. I ricercatori infatti hanno preso in considerazione il land transformation factor, un fattore che misura la superficie di terreno impattata dall’attività mineraria, in termini di m2 (metri quadri) di terreno trasformato per tonnellata di nichel estratto. I valori trovati dalla ricerca risultano fino a 500 volte più alti di quelli riportati dal Nickel Institute, che solitamente vengono utilizzati per stimare l’impatto delle miniere sull’ambiente circostante.

Non tutti i siti estrattivi però hanno lo stesso impatto ambientale, sottolineano gli autori, che anzi hanno trovato grande varietà nell’impatto delle 481 miniere di nichel diffuse in tutto il mondo che hanno considerato nello studio.

Laterite e solfuri

Ad oggi solo il 15% del nichel estratto viene destinato al settore delle energie pulite, ma con la transizione l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) stima che la domanda del settore energetico passerà dall’attuale mezzo milione di tonnellate (Mt) annuo a 3,4 Mt al 2040. Nonostante aumenterà anche la capacità di riciclare il metallo già estratto, una buona parte della fornitura continuerà a venire dall’estrazione.

Le riserve globali conosciute di nichel sono circa 130 Mt, ma quelle stimate sarebbero tre volte tante, intorno ai 350 Mt, abbastanza per soddisfare la crescita di domanda. Circa i due terzi è contenuto in depositi di laterite, un suolo rosso scuro frutto dell’alternanza tra periodi secchi e molto piovosi, tipico delle zone tropicali. Non è da qui però che oggi viene estratto la maggior parte del nichel, che invece proviene da depositi di solfuri, una roccia magmatica.

Dal futuro aumento della domanda però ci si attende che i depositi di laterite verranno sfruttati sempre di più. Il problema è che comportano un dispendio energetico e un impatto sull’ambiente maggiore di quello che si ha estraendo il nichel dai depositi di solfuri.

L’impatto calcolato

I ricercatori, dopo una fase di raccolta e riordino dei dati disponibili sulle miniere di nichel in funzione negli ultimi decenni, hanno stimato che quelle che estraggono nichel da solfuri hanno un impatto medio di 30 m2/t nichel (ma con un’ampia variazione da miniera a miniera, che va da 4 a 398 m2/t), mentre le estrazioni da laterite hanno un fattore medio più alto di 50m2/t (anche qui con una larga forbice che va da 7 a 229 m2/t).

I due più grandi siti produttivi (che estraggono da solfuri) sono il Sudbury Basin in Ontario, Canada, e Norilsk-Talnakh in Siberia, Russia. Il primo è attivo dal 1880 e ha estratto 12 Mt di nichel, mentre il secondo è attivo dal 1930 e ha estratto più di 8 Mt. Rispettivamente, sottolineano gli autori, hanno un impatto di 4 e 10 m2/t.

Dal 1870 invece si sono estratti più di 5 Mt di nichel da depositi di laterite in Nuova Caledonia: qui l’impatto misurato dagli autori è stato di 20 m2/t, e la ritengono una sottostima.

In ogni caso, i ricercatori notano che anche i più bassi valori che hanno rilevato sono comunque molto più alti di quelli riportati dal Nickel Institute, che vanno da 0,76 m2/t per le miniere sotterranee, a 1,8 m2/t per quelle a cielo aperto. Addirittura la miniera canadese di Bucko Lake, attiva dal 2009 al 2012, avrebbe avuto un land transformation factor di addirittura 398 m2/t, un valore 500 volte più alto di quelli riportati dal Nickel Institute. Quella brasiliana di Santa Rita, attiva dal 2009 al 2016 e dal 2019 al 2020, raggiunge i 335 m2/t.

Oltre la superficie, la densità

Per valutare correttamente l’impatto delle miniere sulla biomassa forestale, oltre alla superficie interessata occorre considerare anche la densità della vegetazione presente su quella superficie. La biomassa deforestata è stata calcolata in tonnellate di carbonio (tC). Anche in questo caso, dopo aver selezionato e calibrato il dataset, gli autori hanno trovato un’ampia variazione nei siti considerati: da 1,45 a 122,7 tonnellate di carbonio per ettaro disboscato (tC/ha) per i siti di solfuri, e da 2,5 a 141 tC/ha per le miniere di laterite. La media delle due tipologie di siti però in questo caso era simile: circa 36 tC/ha.

Di nuovo, gli autori avvertono che la loro potrebbe essere una sottostima, poiché non hanno tenuto conto delle azioni di deforestazione solo indirettamente legate all’attività estrattiva, quali la costruzione di case e strade nei pressi delle miniere.

Emissioni

I ricercatori hanno poi stimato le emissioni prodotte dalla deforestazione per ciascun sito. Quelle dei depositi di laterite variano da 0 a quasi 7 tonnellate di anidride carbonica per tonnellata di nickel estratto (tCO2/t) e quelle di solfuri vanno da 0 a 12,7 tCO2/t.

In alcuni casi questi valori sulle emissioni derivanti dalla perdita forestale sono simili alle emissioni che vengono prodotte dai processi di estrazione e lavorazione del nichel, che in alcuni casi ricorrono al carbone come fonte energetica. Tenendoli in considerazione, l’impatto di tutta la filiera aumenta notevolmente.


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Decisioni e dati per il futuro

“Esaminando le caratteristiche dei depositi non ancora sfruttati si possono ottenere informazioni per le strategie che servono a minimizzare le emissioni derivanti dalla futura estrazione di nichel” scrivono gli autori dell’articolo.

La densità della vegetazione intorno ai depositi di laterite, presenti soprattutto in aree tropicali, è infatti solitamente più elevata e dunque le emissioni derivanti dalla deforestazione sarebbero maggiori. Nei prossimi anni è attesa un’espansione dello sfruttamento di questi depositi. Paesi come l’Indonesia, che oggi è il maggior produttore di nichel al mondo, ma anche Papua Nuova Guinea, Filippine e Brasile, programmano di aumentare la produzione e gli autori dello studio stimano che in alcuni di questi casi le emissioni derivanti dalla perdita di foresta possano anche superare le 10 tCO2/t di nichel prodotto.

Un importante parametro da considerare quando si inaugura un nuovo sito estrattivo è il numero di anni di attività: più la miniera rimane attiva, più ammortizza il suo impatto sulla trasformazione del terreno, misurato in m2 per tonnellata di nichel estratto. La maggior parte della trasformazione del terreno infatti avviene all’apertura della miniera. Questo suggerisce che inaugurare nuovi siti, specialmente in zone tropicali, per estrarre quantità limitate di nichel ha un impatto straordinariamente elevato sull’ambiente.

Infine, gli autori sottolineano che ad oggi le aziende spesso tendono a non riportare le emissioni derivanti dalle trasformazioni del terreno su cui operano, nonostante un recente aggiornamento del protocollo GHG (GreenHouse Gas, il più diffuso per rendicontare le emissioni) richieda di farlo.

“È urgente che le aziende che estraggono nichel raccolgano dati appropriati per quantificare le emissioni prodotte dal cambio di uso del suolo delle loro operazioni” scrivono gli autori, che specificano il tipo di dati che devono raccogliere: “(1) i confini esatti delle aree dove la vegetazione viene tagliata, (2) la densità della biomassa della vegetazione tagliata, (3) il ripristino della biomassa tramite azioni di riforestazione”. Nello studio sono stati usati dati satellitari per stimare la densità della vegetazione nei siti considerati e ricavare le emissioni. Tuttavia i dati che sarebbero in grado di raccogliere le aziende sarebbero molto più precisi.

“Sarebbe necessario determinare i valori dei fattori di trasformazione del terreno e le perdite di carbonio immagazzinato nella biomassa deforestata anche per altri minerali essenziali alla transizione energetica, come alluminio, grafite, rame e litio” concludono gli autori. “Tuttavia, condurre un’analisi globale analoga per altri minerali sarebbe complicato, per via della mancanza di dati disponibili”. Non solo sulla riduzione delle emissioni, ma anche sulla raccolta dati è responsabilità delle aziende fare la propria parte.

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