SCIENZA E RICERCA

Quel legame tra l'arte ceramica, il cervello e la socialità

La diffusione della tecnologia ceramica ha influenzato profondamente l’economia e le dinamiche socioculturali durante il Neolitico. La possibilità di plasmare l’argilla per costruire strumenti, oggetti utili o decorativi ha cambiato non solo il modo in cui venivano preparati e consumati i cibi, ma ha creato anche nuove occasioni di apprendimento sociale, perché le conoscenze e le competenze relative alla lavorazione di questo materiale plastico potevano essere insegnate e quindi trasmesse da una persona all’altra.

Gli autori di uno studio pubblicato su PLOS One hanno utilizzato delle tecniche neurofisiologiche per monitorare l’attività cerebrale di un gruppo di studenti a cui è stato insegnato a lavorare l’argilla. Lo scopo era quello di capire come l’invenzione e la diffusione della tecnologia ceramica possa aver influenzato la plasticità neurale e le dinamiche di apprendimento sociale nelle comunità neolitiche.
La ricerca ha coinvolto i dipartimenti di Neuroscienze, Psicologia generale e dei Beni culturali dell’università di Padova. La prima autrice è Vanessa Forte, archeologa preistorica dell’università La Sapienza di Roma e post-doc all’università di Padova nel periodo in cui è stato condotto lo studio. Il professor Antonino Vallesi, docente di neuroscienze cognitive, ha coordinato il lavoro.

“La relazione tra gli umani e l’argilla ha origini molto antiche, ma la ceramica viene generalmente considerata una delle più importanti innovazioni tecnologiche del Neolitico, un’epoca di grande trasformazione economica, sociale e culturale”, racconta Forte. “In questo periodo avvenne infatti un graduale passaggio dalle economie di caccia e raccolta a quelle di produzione, basate su stili di vita più stabili e forme sempre più strutturate di società. Allora la diffusione della tecnologia ceramica – avvenuta probabilmente in modo graduale e non sempre lineare – ha giocato un ruolo chiave dal punto di vista sia economico che sociale.

La lavorazione dell’argilla è stata spesso considerata meno complessa rispetto alla produzione di oggetti in pietra, di cui è stato più volte indagato l’impatto cognitivo ed evolutivo.
La ceramica, al contrario, viene ritenuta un’innovazione tecnologica alla portata di tutti, associata a delle competenze più facilmente acquisibili. A causa di questo pregiudizio è stata trascurata anche la complessità dei sistemi di apprendimento legati alla sua produzione”.

Questo tipo di artigianato preistorico è invece tutt’altro che semplice. “La tecnologia ceramica è molto complessa, perché si basa su un’interazione con un materiale plasticol’argilla – che va raccolto, preparato, plasmato ed esposto al calore, perché si trasformi in ceramica, un materiale stabile ed impermeabile”, continua Forte. “La cottura, che avviene a temperature molto alte (mediamente attorno ai 850 °C), è un passaggio cruciale che si basa anche su un buon controllo del fuoco”.

La lavorazione dell’argilla richiede inoltre tanta manualità, controllo motorio, precisione e coordinazione: abilità da imparare e allenare.I resti di vasi rinvenuti nei contesti archeologici presentano tracce di manifattura associabili non solo all’utilizzo di tecniche differenti, ma anche a diversi livelli di abilità”, continua la ricercatrice. In altre parole, osservando i reperti antichi è possibile distinguere manufatti “di qualità”, opera di ceramisti esperti, e oggetti più grezzi e irregolari. “Ciò suggerisce che nelle comunità neolitiche la tecnologia ceramica venisse trasmessa da persone con conoscenze specializzate ad apprendisti, anche in età molto giovane, in contesti di apprendimento sociale ben definiti”.

Attraverso un approccio interdisciplinare, basato sull’archeologia sperimentale, le neuroscienze cognitive e la psicologia comportamentale, gli autori hanno indagato come l’apprendimento delle tecniche di produzione ceramica abbia influenzato le capacità neuromotorie di un campione di 28 studenti e studentesse di archeologia dell’università di Padova.

“Dal punto di vista evolutivo, il nostro cervello non è cambiato molto rispetto al periodo in cui si è diffusa la tecnologia ceramica”, spiega Vallesi. “Per questo è possibile esplorare come l’innovazione e la crescente conoscenza delle tecniche di ceramica possano aver influenzato il cervello umano (e viceversa) prendendo Homo Sapiens moderni come modelli di riferimento”.

Gli studenti coinvolti nello studio – nessuno dei quali aveva esperienza con la lavorazione dell’argilla o di altri materiali plastici – sono stati divisi in due gruppi: il primo (il gruppo sperimentale) ha seguito un corso di ceramica neolitica per quattro settimane; il secondo (il gruppo di controllo) non ha assistito alle lezioni in questione.

“Abbiamo scelto di approfondire, in particolare, la tecnica del colombino, che non era probabilmente l’unica ad essere utilizzata nella preistoria, ma era la più diffusa”, spiega Forte. “Questo metodo si basa sulla produzione di lunghi cordoli d’argilla di forma cilindrica – chiamati, per l’appunto, colombini – che vengono sovrapposti a spirale per costruire il vaso. Può sembrare una tecnica banale, ma in realtà richiede un buon controllo motorio e una precisa pressione delle dita e del palmo della mano per plasmare il materiale. Una volta ottenuta la struttura del vaso, bisogna omogeneizzarne la superficie attraverso specifici gesti di pizzicatura e lisciatura.

Il periodo di apprendimento dei partecipanti è stato strutturato in modo tale da ricreare delle condizioni che fossero più simili possibili a quelle del passato: è stata usata, ad esempio, una materia prima grezza, diversa dall’argilla commerciale per hobbisti, che avesse una consistenza simile a quella diffusa nel Neolitico. Sono stati forniti anche degli utensili analoghi a quelli di cui si servivano i ceramisti antichi per rifinire le superfici (come spatole in osso o in legno).
Gli apprendisti imparavano a modellare l’argilla cercando di replicare i movimenti di un’insegnante esperta, che mostrava le tecniche, ma non interveniva direttamente sui prodotti lavorati dagli studenti”.

Prima e dopo il corso, tutti i partecipanti (sia quelli del gruppo di controllo, sia quelli del gruppo sperimentale) hanno guardato dei video in cui comparivano le mani di una persona mentre lavorava l’argilla”, prosegue Vallesi. “Il filmato comprendeva sia sequenze in cui la lavorazione del colombino era impeccabile, sia sequenze in cui la persona commetteva qualche errore: effettuava troppa pressione sul colombino, realizzando quindi un cordone di argilla imperfetto, oppure utilizzava la spatola in modo poco preciso.

Mentre visionavano i filmati, i partecipanti sono stati sottoposti a tre tecniche neurofisiologiche non invasive: la prima è la stimolazione magnetica transcranica, che consente di inviare degli impulsi magnetici in specifiche aree del cervello per sondare il loro funzionamento. Nel caso specifico, abbiamo mandato degli impulsi alla corteccia motoria per osservare eventuali cambiamenti nell’eccitabilità cortico-spinale (specificatamente, nel collegamento tra il cervello e i muscoli coinvolti nella lavorazione dell’argilla). La seconda tecnica, chiamata elettromiografia, prevedeva l’utilizzo di elettrodi posti su alcuni muscoli della mano per monitorarne l’attivazione e la contrazione. Abbiamo usato, infine, l’elettroencefalografia: i partecipanti indossavano una cuffia con 64 elettrodi capaci di registrare l'attività elettrica cerebrale con un’elevata precisione temporale”.

Quando gli studenti hanno visionato il filmato la seconda volta, ovvero dopo il completamento del corso di ceramica almeno da parte dei membri del gruppo sperimentale, questi ultimi hanno mostrato uno schema di attivazione cerebrale diverso in zone visive sullo scalpo, legato alle nuove conoscenze tecniche acquisite. “Solo nei membri del gruppo sperimentale è stata registrata un’attività cerebrale diversa rispetto alla fase pre-training”, prosegue Vallesi. “In particolare, la visione del video causava in loro una specifica attivazione delle regioni occipitali (legate alla percezione visiva) che non è stata invece osservata tra gli studenti del gruppo di controllo. Gli studenti che avevano seguito il corso hanno mostrato inoltre un aumento dell’eccitabilità corticospinale del first dorsal interosseous, il muscolo tra il pollice e l’indice, coinvolto nella lavorazione dei colombini e responsabile dell’errore compiuto dall’insegnante nel video. Un altro muscolo di controllo non coinvolto non mostrava tale effetto di apprendimento. Anche in questo caso, tale differenza non è stata riscontrata nel gruppo di controllo. Questo risultato suggerisce che il sistema motorio di chi aveva imparato a lavorare l’argilla era diventato capace di riconoscere e prevedere l’errore”.

L’esperimento ha inoltre confermato che la lavorazione dell’argilla è un’attività che richiede tempo, allenamento e un contesto di apprendimento ben strutturato. “Analizzando i lavori degli studenti nel corso del tempo, abbiamo riscontrato differenze significative tra quelli realizzati all’inizio del corso e quelli prodotti alla fine”, racconta Forte. “I colombini modellati da chi non aveva competenze (ovvero dagli studenti del gruppo sperimentale prima che seguissero il corso, e da quelli del gruppo di controllo) apparivano piuttosto schiacciati e irregolari: non erano funzionali, quindi, alla costruzione di un buon vaso. Anche i vasi plasmati dagli studenti del gruppo sperimentale all’inizio del corso erano asimmetrici, irregolari e dalla superficie poco rifinita”.
Le lezioni, però, hanno dato i loro frutti. “Chi ha seguito il corso, ha mostrato un miglioramento progressivo, che dimostra come la pratica e l’esperienza siano essenziali per acquisire una maggiore padronanza del materiale e affinare le tecniche di lavorazione”, prosegue la ricercatrice.

“Questo risultato suggerisce che la neuroplasticità abbia aiutato i nostri antenati ceramisti ad apprendere culturalmente questa attività non facile”, commenta Vallesi. “In particolare, gli esseri umani antichi potrebbero aver acquisito le competenze legate alla lavorazione dell'argilla attraverso l’osservazione, l’imitazione e la capacità di riconoscere gli errori compiuti dal modello osservato fino al livello del muscolo specifico coinvolto”.

È possibile che le stesse dinamiche osservate tra gli studenti di archeologica che hanno imparato a lavorare l’argilla siano avvenute anche negli esseri umani antichi durante il Neolitico, i quali hanno “allenato” la loro neuroplasticità attraverso questa attività. “I miglioramenti mostrati dagli studenti che hanno seguito il corso suggeriscono l’esistenza di un mutuo rapporto di co-costruzione tra gli artigiani e la materia prima”, aggiunge Forte. “Il ceramista plasma l’argilla e viene a sua volta “trasformato” dalle competenze che acquisisce man mano che impara a lavorarla”.

Come specificano Forte e Vallesi, i risultati in questione sono da considerarsi un punto di partenza per successive ricerche sull’argomento. “Sarebbe interessante scoprire quale fosse la percezione sociale dei ceramisti esperti nelle comunità Neolitiche, dal momento che queste figure erano depositarie di un sapere prezioso e avevano il compito di tramandarlo”, prosegue Forte. “Si potrebbe inoltre replicare lo studio indagando l’impatto dell’introduzione del tornio, un’ulteriore svolta tecnologica che ha trasformato l’interazione con l’argilla; l’utilizzo di questo strumento richiedeva infatti un diverso controllo della forza e del movimento durante la lavorazione della materia prima”.

“Lo studio appena concluso ha analizzato l’esito finale di una complessa catena di processineurali innescati dall’apprendimento della tecnologia ceramica”, sottolinea Vallesi. “Per questo, in futuro, sarebbe interessante approfondire tutti i meccanismi cognitivi coinvolti attraverso una mappatura più dettagliata delle aree implicate nel processo. Un’altra possibilità, più difficile dal punto di vista tecnico, ma teoricamente realizzabile, sarebbe quella di monitorare i cambiamenti neuroplastici nei partecipanti che hanno appreso la lavorazione dell’argilla. Si potrebbero ad esempio approfondire i cambiamenti nella connettività funzionale delle reti neurali, mappando quindi l’attività cerebrale whole brain (del cervello intero) con una risoluzione spaziale maggiore rispetto a quanto consentito dall’elettroencefalogramma, in modo tale da esplorare l’interazione tra le diverse regioni cerebrali e non limitarsi solo all’area motoria e ai suoi effetti periferici.

Ogni nuova invenzione e sviluppo tecnologico provoca una reazione “a cascata” sulla neuroplasticità, influenzando non solo lo sviluppo individuale, ma forse anche l’evoluzione della nostra specie. Dalle tecniche di controllo del fuoco fino alle tecnologie digitali più avanzate, è affascinante osservare come il progresso tecnologico abbia sempre plasmato il nostro cervello nel tempo. Viene spontaneo domandarsi, quindi, quale sarà l’impatto dell’intelligenza artificiale generativa sulle nostre menti. In un certo senso, noi esseri umani contemporanei siamo parte di un continuo esperimento in corso”.

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