SCIENZA E RICERCA

I virus e il loro viaggio in nave Oltreoceano (ai tempi di Colombo)

Ai giorni nostri, la pandemia di Covid-19 lo dimostra bene, virus e batteri viaggiano velocemente così come lo fanno le persone. Ma cosa succedeva nei tempi dei lunghi viaggi in nave, senza aerei di linea e con anche – decisamente – meno abitanti sulla Terra? Insomma: quanto era facile, o difficile, spostare un patogeno da un luogo all’altro o da un continente all’altro? A queste domande cerca di rispondere – non senza aver sollevato alcune critiche di metodo – uno studio pubblicato su PNAS in cui gli scienziati hanno analizzato la probabilità di viaggio transoceanico di alcuni virus lungo le antiche rotte di Cristoforo Colombo e fino all’avvento delle prime navi a vapore. Gli studiosi, riconoscendo al periodo di Colombo l’inizio dei viaggi globalizzati, hanno preso in esame tre virus: quello del morbillo, del vaiolo e dell’influenza. Con l’applicazione di modelli di predizione matematici, incrociando i tempi di incubazione media dei tre patogeni, la loro contagiosità, il tempo impiegato dalle navi per giungere a destinazione e il numero di persone a bordo, il paper dimostrerebbe come le chance di portare un nuovo virus Oltreoceano fossero, in realtà, più basse di quelle ipotizzate. Certo, gli europei portarono nuovi virus nelle Americhe, ma il processo non fu così rapido come nell’immaginario comune: non ci vollero pochi mesi, ma anni se non anche decenni.

Dopotutto, in un viaggio così lungo per il periodo post 1492 sarebbe plausibile credere che un virus estremamente contagioso avrebbe avuto poche chance – infettando tutto l’equipaggio – di sopravvivere ai giorni di traversata e arrivare a infettare individui a terra. Per esempio, come dimostra il gruppo di ricerca, la Santa Maria di Colombo impiegò 35 giorni (con 41 individui a bordo) per giungere a destinazione: in quel lasso di tempo, la probabilità che a terra altre persone potessero essere contagiate dal morbillo o dal vaiolo sarebbe stata pari al 24%, nel caso un membro dell’equipaggio avesse portato sulla nave uno dei due virus. Mentre, le chance calcolate per l’influenza sarebbero state ancora più basse. Ovviamente, le chance di un contagio sarebbero salite con l’aumentata frequenza dei viaggi (come poi accadde).

I ricercatori hanno poi applicato il loro modello di previsione ai viaggi occorsi tra il 1850 e il 1852 con destinazione San Francisco durante il periodo della cosiddetta corsa all’oro in California.

Nello specifico, se una persona si fosse ammalata d’influenza a bordo della nave Columbus durante i suoi 18 giorni di viaggio tra Panama e San Francisco con 420 persone a bordo, la probabilità di introdurre il virus a destinazione sarebbe stata pari allo 0,1%. Il rischio sarebbe salito al 66% per un viaggio di soli tre giorni dall’Oregon a San Francisco con 74 persone sulla nave.

L’introduzione delle navi a vapore, insomma, fece diminuire drasticamente il tempo necessario per effettuare un viaggio, aumentando – di conseguenza – le probabilità di un contagio.

I risultati dello studio, però, hanno suscitato alcune perplessità: da una parte le critiche si sono concentrate sul principio molto eurocentrico di considerare il viaggio di Colombo come l’inizio del trasporto di patogeni lungo i mari. Altri virus e batteri, come quelli della peste, della tubercolosi, della malaria e della lebbra, avevano già viaggiato grazie alle rotte navali. Infine, gli studiosi nel loro paper non avrebbero preso del tutto in considerazione il principio di immunità acquisita: all’epoca dei viaggi di Colombo, gran parte degli adulti europei era entrata sicuramente in contatto con i virus e chi non era morto aveva acquisito una certa immunità che potrebbe falsare, in parte, i modelli usati per il calcolo delle probabilità di contagio.

Si resta tutti d’accordo su un principio acquisito: la diffusione di patogeni aumenta con la velocità con cui si viaggia. Covid-19 lo dimostra bene, tanto che la pandemia è stata denominata da molti esperti come la prima dell’era dell’aviazione moderna.

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