SCIENZA E RICERCA

Con lo scioglimento del permafrost si rischia (anche) l'aumento del radon

In molte parti del mondo l’estate del 2022 sarà ricordata come tra le più torride, da quando le temperature hanno iniziato ad essere registrate in modo ufficiale e sistematico. Da Londra a Shangai, ricorda un recente articolo di Nature, le ondate di calore hanno raggiunto picchi senza precedenti e protratti nel tempo. Una combinazione che favorisce lo sviluppo di incendi, porta al sovraccarico delle reti energetiche e, soprattutto, mette a rischio la salute fisica e mentale delle persone.

Ma se l’Europa occidentale sarà sempre più un hotspot per le ondate di calore è importante ricordare che alle latitudini dell’estremo nord i cambiamenti climatici procedono a ritmi ancora più accelerati. Nell’Artico anche quest’anno la stagione estiva è stata caratterizzata da temperature ben al di sopra della media del periodo e questo, insieme agli eventi piovosi estremi, comporta il disgelo del permafrost, quello strato di terreno perennemente ghiacciato tipico delle aree più fredde del pianeta, come i territori artici del nord Europa, della Russia e dell’America settentrionale.

Questi suoli permanentemente ghiacciati hanno delle forti influenze sulla stabilità dei versanti e di recente si è scoperto che il loro scioglimento ha un impatto anche sui fondali marini. Tuttavia questo accelerato disgelo non ha conseguenze solo in termini morfologici, di sicurezza del territorio e degli insediamenti umani. A preoccupare è infatti anche quello che accade al di sotto di questi strati, quando elevate quantità di materia organica, rimasta a riposo per millenni sotto il ghiaccio, tornano a decomporsi rilasciando in atmosfera anidride carbonica e metano, gas serra che a loro volta contribuiscono al riscaldamento globale. 

E non è tutto: nei ghiacci artici sono intrappolati moltissimi microrganismi, compresi antichi virus ancora sconosciuti alla scienza, di fronte ai quali l’intera popolazione umana è del tutto indifesa. Il terreno ghiacciato è insomma come una sorta di congelatore, una capsula del tempo che mantiene intatti, e dunque potenzialmente in grado di riattivarsi, agenti patogeni che se si disperdessero nell'ambiente potrebbero rappresentare una minaccia per l'uomo o per altre specie animali. L'eventualità che da questo meccanismo possa svilupparsi un'epidemia su vasta scala può sembrare remota, ma vale la pena ricordare che qualche anno fa la liberazione del batterio Bacillus anthracis nei suoli della tundra siberiana, avvenuta durante un'ondata di calore estiva che insieme al permafrost aveva scongelato una carcassa di renna infettata dall’antrace oltre 75 anni fa, portò alla morte di un bambino e al ricovero di una ventina di persone. 

A rendere rischioso il processo di scioglimento del permafrost è anche la possibilità che la popolazione artica si ritrovi ad essere esposta a concentrazioni molto maggiori di radon, un gas radioattivo di origine naturale - inodore e quindi difficilmente percepibile da parte dei nostri sensi - che "abita" nel terreno, dove si forma per il decadimento  dell’uranio presente nelle rocce. La pericolosità di questo gas consiste nel fatto che la sua inalazione, in quantità eccessive e per periodi prolungati, è correlata ad un significativo aumento del rischio di tumore al polmone: come ricorda anche l'Oms, il radon rappresenta la seconda causa di insorgenza di questa malattia, dopo il fumo, ed è la prima tra le persone che non hanno mai fumato. Complessivamente può essere imputato all'esposizione al radon un decesso su dieci per neoplasia al polmone e tra le persone che hanno l'abitudine alla sigaretta l'effetto combinato dei due fattori di rischio è particolarmente insidioso.

La concentrazione del radon viene misurata in Becquerel per metro cubo (Bq/m3). Non è nota una concentrazione di radon al di sotto della quale l’esposizione non presenta alcun rischio. Un livello soglia è stato comunque identificato nei 100 Bq/m3 perché si tratta di una quantità che, nell'arco di una trentina di anni, comporta un aumento di rischio di tumore del polmone pari a circa il 16 per cento. 

Uno studio condotto da scienziati dell'università di Leeds e pubblicato sulla rivista Earth's Future è tornato di recente ad analizzare il problema spiegando che il permafrost ha storicamente agito come una barriera protettiva, impedendo al radon di raggiungere la superficie e di entrare negli edifici. Adesso però la chiusura di questo passaggio (che in condizioni normali provoca la fuoriuscita di solo il 10% di radon) non è più garantita perché il riscaldamento globale aumenta il ritmo di scongelamento del permafrost, anche di quello situato a profondità maggiori. 

“Se il permafrost fosse stabile, non ci sarebbe motivo di preoccuparsi. Tuttavia, è ormai ampiamente riconosciuto che il cambiamento climatico sta portando a un significativo scongelamento del permafrost, con una perdita prevista del 42% nella regione del permafrost circumpolare artico (ACPR) entro il 2050", ha spiegato al riguardo Paul Glover, professore dell'università di Leeds e primo autore della ricerca. 

I risultati di questo studio hanno mostrato che quando il permafrost viene scongelato le emissioni di radon possono aumentare di 100 volte rispetto al loro valore iniziale per un periodo di sette anni. Questo gas può così viaggiare fino agli scantinati domestici e altre strutture a diretto contatto con il suolo esponendo gli abitanti del posto a rischi per la salute. Il lavoro condotto da Glover, insieme al collega Manuel Blouin della società di ricerca Geostack del Quebec, si è soffermato anche sulle caratteristiche degli edifici che rendono più o meno elevato il pericolo di accumulo di radon. Nelle abitazioni costruite in modo tradizionale su palafitte le concentrazioni di questo gas non hanno mostrato la tendenza all'aumento perché i rilasci di radon fluiscono all'esterno nell'atmosfera e non si accumulano in ambienti interni. Ma per gli edifici caratterizzati da altre strutture, in particolare quelli contraddistinti dalla presenza di scantinati, i rischi sono concreti e altrettanto dannosa è la scelta compiuta da molti proprietari di case su palafitte di sigillare lo spazio che separa le abitazioni dal permafrost sottostante per risparmiare sui costi di riscaldamento.

E per gli edifici con seminterrato, il disgelo del permafrost può far sì che la concentrazione di radon rimanga superiore al valore di 200 becquerel per metro cubo (Bq/m3), che molte nazioni utilizzano come soglia di azione, per un massimo di sette anni a seconda della profondità del permafrost e il tasso di disgelo.

L'esistenza del permafrost - e la sua condizione di disgelo - rende i residenti artici e subartici particolarmente vulnerabili all'esposizione al radon. I rischi sono inoltre aumentati da alcuni fattori specifici, come il clima freddo che tiene le persone all'interno più di quanto non accada a latitudini più basse, la scarsa ventilazione nelle case che tendono ad essere progettate per trattenere il calore e alti tassi di fumo di sigaretta, come è stato documentato nelle regioni Inuit canadesi e nell'Alaska settentrionale, ad esempio.

"Poiché storicamente le comunità artiche non hanno mai percepito il radon come un problema e il gas stesso non è rilevabile senza dispositivi specializzati, lo consideriamo come una minaccia importante e totalmente evitabile per la salute delle comunità del nord”, ha aggiunto Glover.

Per proteggere le persone le autorità locali distribuiscono kit per misurare i livelli di radon nelle abitazioni e promuovono interventi di mitigazione come una migliore ventilazione o l'uso di tecnologie in grado di aspirare il gas dalle case e disperderlo in atmosfera. Ma, sottolineano gli scienziati, c'è ancora molto da fare sia per comprendere quanto radon stia effettivamente fuoriuscendo dalle aree interessate dallo scioglimento del permafrost, sia per informare correttamente le persone. 

Il modello proposto nello studio di Glover e Blouin è un primo tentativo di capire in che modo il disgelo del permafrost potrebbe influenzare l'esposizione delle persone al radon. Ancora più di recente a tornare sull'argomento è stato un articolo che il giornalista scientifico Chris Baraniuk ha scritto per il magazine Undark e che è stato poi ripreso da numerose altre testate. 

 

Secondo le stime di uno studio del 2021, circa 3,3 milioni di persone vivono in territori in cui il permafrost si sarà completamente sciolto entro il 2050. Non tutte queste persone abitano in aree soggette al radon ma in alcune parti del Canada, dell'Alaska, della Groenlandia e della Russia il rischio è reale. Baraniuk porta ad esempio uno studio, non ancora sottoposto a peer review, che ha misurato i livelli di radon nel corso di un anno in più di 250 case in tre città della Groenlandia scoprendo che a Narsaq quasi un terzo delle abitazioni aveva livelli di radon superiori a 200 Bq/m3.

L'autrice principale Violeta Hansen dell'università di Aarhus in Danimarca ha contestualizzato i risultati spiegando che lo studio è basato su un numero troppo piccolo di case e che occorrono molte più ricerche prima di poter valutare i rischi per la salute associati al radon in tutta la Groenlandia. Per questo motivo adesso sta conducendo un progetto internazionale che condurrà esperimenti sul campo e raccoglierà misurazioni del radon all'interno di diversi Paesi della zona artica, tra cui Canada e Groenlandia. "Dobbiamo riuscire a proporre misure di mitigazione a basso costo, efficaci e convalidate", ha affermato Hansen nell'intervista rilasciata a Undark.

E in tema di monitoraggio anche in ambito europeo si stanno compiendo molti sforzi per raccogliere, verificare e riportare informazioni sull’entità di rischio radon e avere una panoramica più chiara della situazione relativa alle sorgenti naturali di radioattività. In questa direzione va l’Atlante europeo delle radiazioni naturali pubblicato nel 2020 dal Centro comune di ricerca della Commissione Europea con la collaborazione di 60 istituzioni tra università, centri di ricerca, autorità nazionali ed organizzazioni internazionali, in cui è riportata la mappa di concentrazione media di radon nelle abitazioni, su una griglia di 10 per 10 chilometri.

"Le mappe possono dare solamente delle indicazioni su dove vi sia una probabilità maggiore di avere alti valori in ambienti chiusi, ma la valutazione del rischio deve essere fatta a livello di singolo edificio, che sia l’abitazione, il luogo di lavoro o la scuola. La misura deve essere rappresentativa dell’intero anno, perché ci sono grandi variazioni stagionali. In estate, grazie anche alla maggior aerazione, i valori sono molto più bassi, mentre in inverno molto più alti. Se i valori misurati, poi, sono al di sopra dei valori di riferimento delle normative nazionali è obbligatorio per i luoghi di lavoro e raccomandato per le abitazioni mettere in atto delle misure di risanamento per diminuire i valori. Le misure di risanamento possono riguardare interventi strutturali per evitare ad esempio che il radon risalga dalle fondamenta, dal basamento, o si possono aumentare i ricambi di aria nell’abitazione", ha spiegato Giorgia Cinelli, del Centro comune di ricerca della Commissione europea.

Tornando nello specifico ai territori dell'Artico i cambiamenti climatici li hanno resi osservati speciali: lo scioglimento del permafrost avviene in maniera più rapida di quanto atteso e, come detto, le conseguenze (negative) sono molteplici. Oltre al problema del radon c'è il rischio che a venire liberato in atmosfera sia il carbonio più antico mai immagazzinato, molto ricco di materiale organico e grande fonte di metano se bruciato. Un processo che potrebbe dare un’ulteriore accelerazione al riscaldamento globale.

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