SCIENZA E RICERCA

Servono misure più affidabili per mappare e ridurre le emissioni di metano

L’anidride carbonica è il principale gas responsabile dell’effetto serra, ma non il solo. Si stima che circa un terzo del riscaldamento globale, dalla rivoluzione industriale in avanti, sia stato causato dalle emissioni di metano (CH4). Le sue concentrazioni in atmosfera sono stabilmente cresciute negli ultimi decenni e oggi si assestano a circa 1.930 parti per miliardo (ppm). Sebbene il potere climalterante del metano sia decine di volte superiore a quello della CO2, il suo tempo di permanenza in atmosfera è molto più ridotto, nell’ordine delle poche decine di anni (l’anidride carbonica invece permane in atmosfera per oltre un secolo prima di degradarsi).

Ciò significa che tra tutte le azioni di contrasto al cambiamento climatico, la riduzione delle emissioni di metano è quella che può dare i maggiori risultati nel più breve termine. Anche solo un loro dimezzamento farebbe risparmiare 0,3°C di riscaldamento globale, un contributo essenziale per mantenere le temperature al di sotto dei 2°C, possibilmente di 1,5°C, come richiesto dall’accordo di Parigi.


LEGGI ANCHE


La maggior parte del metano che la società rilascia in atmosfera proviene dal settore agricolo, seguito da quello energetico che ne produce poco più di un terzo del totale. È proprio su quest’ultimo però che è più facile intervenire per ottenere una significativa riduzione delle emissioni.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) nel suo Global Methane Tracker 2024 ha stimato che nel 2023 le emissioni di metano del settore energetico sono state circa 130 milioni di tonnellate (su circa 350 totali), un valore che sostanzialmente non è cambiato dal 2019, quando è stato raggiunto il picco storico. Un altro modo di inquadrare il dato è riportarlo in un’altra unità di misura: l’anno scorso sono finiti in atmosfera 170 miliardi di metri cubi di metano, una quantità superiore a produzione di gas naturale del Qatar.

80 milioni di tonnellate, circa i due terzi, provengono dai 10 maggiori emettitori al mondo. In cima alla classifica ci sono gli Stati Uniti (i maggiori produttori di petrolio e gas) seguiti dalla Russia, mentre la Cina è la prima produttrice di emissioni di metano provenienti dall’utilizzo del carbone.

Alla Cop 28 di Dubai quasi 200 governi si sono impegnati a ridurre significativamente le emissioni di metano entro la fine di questo decennio. Canada, Unione Europea e Stati Uniti hanno annunciato iniziative regolatorie a riguardo. Persino le compagnie dell’Oil & Gas si sono dette pronte, con l’Oil & Gas Decarbonization Charter, a intervenire sulle proprie infrastrutture per ridurre le perdite derivanti dalle operazioni di estrazione e trasporto degli idrocarburi.

Il Global Methane Pledge, lanciato alla Cop 26 di Glasgow nel 2021, ha raccolto l’adesione di più di 155 Paesi, tra cui ora anche l’Azerbaijan, la cui economia è fortemente incentrata su petrolio e gas e che ospiterà a novembre di quest’anno la Cop 29.

Se tutte queste iniziative venissero rese operative, secondo la IEA entro fine decennio le emissioni di metano del settore energetico si potrebbero ridurre di circa il 50%. Tuttavia i piani nazionali ad oggi esistenti spesso non presentano tutti i dettagli per raggiungere questo risultato e anzi sono compatibili con una riduzione di solo il 20%.

Nel frattempo, la richiesta della IEA è di fare di più e farlo più in fretta: “un taglio del 75% delle emissioni di metano dai combustibili fossili entro il 2030 è imperativo per far sì che il pianeta non si riscaldi fino a livelli pericolosi” ha dichiarato il direttore dell’agenzia, Fatih Birol. “Sono fiducioso, vedendo la spinta degli ultimi mesi: la nostra analisi mostra che possiamo fare un’enorme e immediata differenza nella lotta al cambiamento climatico. Ora dobbiamo trasformare gli impegni in azione, continuando a mirare più in alto”.

La ragione per cui il settore energetico dev’essere il primo a ridurre le emissioni di metano è che è economicamente conveniente. Secondo la nuova analisi della IEA, “circa il 40% delle emissioni derivanti dalle operazioni di estrazione e trasporto dei combustibili fossili nel 2023 si sarebbero potute evitare a un costo netto pari a zero, poiché il valore del metano recuperato sarebbe stato maggiore del costo delle misure di abbattimento. Ridurre le emissioni di metano dei combustibili fossili del 75% entro il 2030 richiederebbe una spesa circa 170 miliardi di dollari, meno del 5% degli utili generati dall’industria nel 2023”.

La ragione per cui le compagnie non intervengono secondo la IEA può avere a che fare con il fatto che il ritorno economico dell’abbattimento delle emissioni di metano sarebbe più lungo di altre opportunità di investimento. Una soluzione secondo la IEA potrebbe essere quella di dare un prezzo alle emissioni di metano di circa 20 dollari a tonnellata di CO2 equivalente. Servirebbe però innescare un processo regolatorio che governi questo meccanismo finanziario. Il tutto dovrebbe venire attentamente monitorato da dati precisi sulle emissioni.

La IEA segnala infatti un enorme problema. Le compagnie dell’Oil & Gas dichiarano una quota minima delle emissioni di metano che producono: 5 milioni di tonnellate, il 95% in meno di quante ne stima la IEA. Un lavoro pubblicato su Science nel 2018 aveva trovato che le emissioni di metano negli Stati Uniti erano il 60% più elevate di quanto stimato anche dall’Agenzia statunitense di protezione dell’ambiente.

Servono quindi misure più trasparenti e affidabili. Esistono diverse iniziative indipendenti che mirano a colmare questa lacuna grazie ai dati raccolti da sistemi satellitari: alcune di queste sono Karryos, GHGSat, il Methane Alert Response System (Mars) dell’Unep (il pogramma ambientale dell’Onu).

A inizio marzo è stato lanciato in orbita un nuovo satellite, MathaneSAT, che promette di rendere più accurate le rilevazioni. Grazie a un’altissima risoluzione, è in grado di risalire direttamente alla fonte emissiva, partendo dalle misurazioni di concentrazioni di metano in atmosfera in una certa regione. I satelliti finora esistenti erano in grado di fare l’una o l’altra cosa, ma non tutt’e due insieme.

Il progetto, da 88 milioni di dollari, è stato coordinato dall’Environment Defense Fund, un gruppo ambientalista con sede a New York, e vi hanno partecipato Google e l’università di Harvard.

I dati raccolti saranno resi liberamente accessibili e strumenti di intelligenza artificiale, sviluppati da Google, contribuiranno a mappare le infrastrutture dell’Oil & Gas da cui provengono le emissioni.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012