SCIENZA E RICERCA

Le sfide dell’agricoltura: innovazione e responsabilità, un binomio obbligato

Il sistema agricolo mondiale è un gigante dai piedi d’argilla: un sistema ormai globalizzato, che genera una quantità di prodotti e di profitti dalle dimensioni mastodontiche, ma che – a ben guardare – presenta crepe sempre più evidenti e profonde. Innanzitutto, l’impatto climatico: l’insieme delle pratiche agricole (coltivazione e allevamento) e le numerose attività ad esse collegate (deforestazione, consumo di suolo etc.) contribuisce per circa il 20% alle emissioni globali annue di gas a effetto serra; in secondo luogo, non meno importanti, gli effetti nocivi di queste attività per il benessere degli ecosistemi e per la tutela della biodiversità.

L’insostenibilità a lungo termine di questa sistema di produzione è ormai conclamata. Si stanno muovendo, in varie parti del mondo, i primi passi in direzione di una transizione verso quella sostenibilità teorizzata, ormai, decenni fa; tuttavia, non si è ancora verificato il cambio di passo necessario per la realizzazione di un effettivo cambiamento. Non modificare il sistema agricolo, infatti, significa rinunciare in partenza a raggiungere in tempi utili gli obiettivi di sostenibilità individuati dall’Agenda 2030.

Per orientarci tra le numerose problematiche sollevate dalle attività agricole, e per farci guidare nel panorama della ricerca e dell’innovazione in questo campo, ci siamo rivolti a Marco Giovannetti e ad Alessandro Alboresi, esperti di biologia vegetale ed entrambi docenti al dipartimento di Biologia dell’Università di Padova.

Tra gli strumenti divenuti essenziali, a partire dalla Rivoluzione verde, per l’agricoltura industriale su larga scala vi sono fertilizzanti e pesticidi: questi prodotti assicurano alti tassi di produttività con il minimo sforzo, ma al tempo stesso contribuiscono ad accrescere le emissioni di gas serra e, per di più, hanno effetti estremamente dannosi sugli ecosistemi nei quali vengono dispersi. La loro nocività è nota ormai da tempo – la prima a denunciare la moria di esseri viventi causata dai prodotti chimici ad uso agricolo fu Rachel Carson, con il celeberrimo testo Primavera silenziosa del 1962 –, ma nonostante questo si continua, ancora oggi, a farne un largo uso nella cosiddetta “agricoltura convenzionale”. Per quale motivo si ricorre ancora così frequentemente a questo tipo di soluzione, e quali possibilità alternative vi sono?

«L’agricoltura nasce come pratica innaturale, e quindi necessariamente deve ricorrere a degli input esterni ai normali equilibri ecosistemici», spiega Marco Giovannetti. «Tra questi input vi sono anche fertilizzanti e pesticidi. Questi sono, oggi, fondamentali per garantire la produzione e sfamare la popolazione umana: partire dagli anni ’70, con la Rivoluzione verde, le colture sono state selezionate prediligendo le varietà che garantivano una maggiore produttività in termini di biomassa, e per mantenere alti i livelli di rendimento il ricorso a sostanze chimiche era una soluzione semplice e veloce. La ricerca, da allora, ha fatto molti passi avanti: oggi si predilige da una parte l’intervento diretto sulle colture, selezionando le piante che sono in grado di sfruttare al meglio i nutrienti; dall’altra, si sta concentrando l’attenzione sui molteplici microrganismi del suolo che circondano le piante, che si sono coevoluti con esse e che possono essere un ottimo aiuto per migliorare l’efficienza del sistema produttivo.

È tuttavia inverosimile, ad oggi, pensare di poter eliminare totalmente fertilizzanti e pesticidi. In una situazione come quella attuale, caratterizzata da un rapido aumento della popolazione e dall’insidiosa incognita della crisi climatica, non possiamo più permetterci di rinunciare a determinate soluzioni, già disponibili sul piano teorico, solo per motivazioni ideologiche: è necessario essere aperti a tutte le possibilità, implementando e sperimentando sul campo differenti tecnologie che, se sommate, possono contribuire a migliorare l’efficienza dei nostri sistemi agricoli e, al tempo stesso, alleviarne l’impatto ambientale».

Anche Alessandro Alboresi è d’accordo su questo punto, e, tornando sulla questione delle diverse tecnologie disponibili, approfondisce: «Buona parte delle selezioni genetiche realizzate in passato si sono concentrate su determinate caratteristiche visibili nel prodotto agricolo finale, ma hanno trascurato altri caratteri – spesso accessibili solo attraverso uno studio molecolare – che, con le tecnologie attualmente a disposizione, possiamo invece isolare e selezionare più facilmente. Ad esempio, la fotosintesi è un carattere fondamentale delle piante, ma finora non è mai stata selezionata intenzionalmente. Oggi, però, abbiamo conoscenze molecolari specifiche, che spiegano come funzionano questi meccanismi alla base della produttività: poter sfruttare la manipolazione genetica per selezionare le varietà tenendo conto di simili caratteri è un avanzamento rilevante, che può garantire un ampio margine di miglioramento della produttività. Alcuni progetti attualmente in fase di sviluppo in ambito europeo si concentrano su come garantire un’adeguata protezione dell’apparato fotosintetico, che, se danneggiato, comporterebbe una significativa riduzione della produttività della pianta, o sullo studio delle reazioni biochimiche alla base della fotosintesi, per migliorarle qualora, nelle specie coltivate, si trovino a un livello non ottimale».

Uno degli esempi più eclatanti della controversia circa la possibilità di ricorrere a determinate tecnologie riguarda proprio il genome-editing, e in particolare la tecnica CRISPR (le cui inventrici sono state da poco insignite del premio Nobel). L’Unione Europea, ad oggi, nega la possibilità di coltivare organismi geneticamente modificati all’interno del continente, ma al tempo stesso importa prodotti agricoli da paesi in cui questo tipo di coltivazione non è proibita. Secondo i due ricercatori sarebbe necessario che, a livello comunitario, si assumessero posizioni legislative chiare: «Oggi abbiamo a disposizione tecnologie che rendono la modificazione genetica mirata ed efficace, senza la necessità di intervenire pesantemente sull’intero genoma», spiega Giovannetti.

E Alboresi continua: «Per noi studiosi è importante che venga fatta chiarezza su questo tema, e che l’Europa assuma una chiara posizione giuridica in proposito. Sicuramente c’è spazio per regolamentare meglio l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi, che troppo spesso sono gestiti in maniera approssimativa e con il solo scopo di raggiungere la massima produttività nel breve termine, senza minimamente valutare le conseguenze di lungo periodo sugli ecosistemi e sulla biodiversità. Al tempo stesso, poiché nei prossimi anni le esigenze di produttività cresceranno, seguendo l’esponenziale incremento della popolazione mondiale, non possiamo permetterci di chiudere gli occhi davanti a tecnologie che offrono possibilità di miglioramento finora insperate».

Un’altra questione scottante è la disponibilità – in costante calo – di terreni da destinare a coltura. Se, ad esempio, i paesi dell’Unione Europea dovessero fare affidamento solo sull’agricoltura interna, la produzione non sarebbe sufficiente a sfamare tutti i cittadini (come sottolinea un editoriale di Nature, molto critico nei confronti del Green Deal europeo). Questo, tuttavia, è un problema che non riguarda solamente l’Europa, ma che affligge tutto il mondo: la terra disponibile è sempre meno, sia per il costante aumento della popolazione mondiale e la conseguente urbanizzazione (ad oggi, circa il 55% della popolazione mondiale vive in aree urbane e, secondo le stime dell’ONU, entro il 2050 la percentuale toccherà il 70%), sia per i processi di desertificazione innescati da pratiche agricole intensive che depauperano i suoli, inaridendoli nell’arco di poche decine di anni. La ricerca scientifica deve far fronte anche a queste enormi sfide, per tentare di innovare il sistema di produzione agricola armonizzando le esigenze umane e la necessità di tutelare gli ecosistemi e la biodiversità.

Secondo Giovannetti, la prima e più importante soluzione a questi problemi risiede nella responsabilità individuale: «È ormai inevitabile riconoscere la necessità di ridurre i consumi alimentari, e in particolare i consumi di carne: gli allevamenti sono – è noto – ben lontani dagli standard di sostenibilità, ed è impensabile che la stessa quantità di alimenti di origine animale oggi consumata dai soli Paesi occidentali sia disponibile, in un prossimo futuro, per una popolazione mondiale di 10 miliardi di persone. Dovremo essere dunque noi, in primo luogo, a cambiare le nostre abitudini – e dovremo farlo in un arco di tempo relativamente breve».

Molte speranze vengono poi anche dalla ricerca: «Gli Stati Uniti hanno recentemente finanziato un progetto che si occupa di studiare con maggiore attenzione l’apparato radicale delle piante, finora trascurato nei processi di selezione e di miglioramento genetico ma che, se efficacemente ottimizzato, non solo potrebbe garantire alle piante una maggiore resistenza agli stress ambientali – stress che aumenteranno, nei prossimi anni, a causa dei cambiamenti climatici – ma potrebbe anche contribuire al sequestro di CO2 dall’atmosfera, mitigando direttamente, almeno nel breve periodo, gli effetti del riscaldamento globale. Un altro ambito di ricerca promettente è l’impiego di simbiosi tra funghi e piante (si tratta delle micorrize, che interessano circa l’80% delle piante esistenti), collaborazioni naturali che consentono di aumentare l’apporto di fosfato dal terreno, assorbito dai funghi e reso disponibile alle radici delle piante: si potrebbe così sfruttare un processo naturale per far fronte alla crescente scarsità di questa sostanza, componente essenziale di molti fertilizzanti, le cui miniere si stanno ormai esaurendo».

Un’altra frontiera di ricerca promettente, nata proprio con l’obiettivo di individuare metodologie di coltivazione che non gravino ulteriormente sui suoli, è quella che si occupa delle microalghe, ambito di ricerca a cui lavora, attualmente, anche un gruppo di ricerca all'Orto botanico di Padova. Alessandro Alboresi spiega: «Le microalghe sono organismi fotosintetici che realizzano la produzione primaria in acqua, e che perciò non entrano in competizione con le piante coltivate in terra. Tali coltivazioni, perciò, hanno un alto valore aggiunto: sono “pulite” e sostenibili, poiché non richiedono l’utilizzo di sostanze inquinanti, e forniscono una produzione primaria utilizzabile sia per la nutrizione – ad esempio come integratori – sia per creare composti utili in altre catene produttive del settore agricolo».

Entrambi gli studiosi concordano, infine, sulla necessità di continuare a finanziare la ricerca: non esiste, infatti, alcuna tecnologia miracolosa che, da sola, potrà risolvere i problemi attuali, che sono complessi e multifattoriali; piuttosto, è necessario ricorrere a diverse soluzioni contemporaneamente, e combinarle in modo da potenziarne le possibili ricadute positive. Non solo, dunque, bisogna indirizzare il sistema agricolo industriale verso una maggiore sostenibilità, ma è anche necessario individuare, in tempi brevi, soluzioni facilmente applicabili nelle numerose situazioni di rischio che i cambiamenti climatici stanno innescando, e a causa delle quali il settore agricolo soffrirà molto se non si correrà ai ripari al più presto. Le conoscenze sono ormai avanzate: ora si tratta di metterle in pratica, e le legislazioni devono adeguarsi.

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