SOCIETÀ

Un sinodo per l'Amazzonia

Povera Pachamama. È venuta dal Rio delle Amazzoni per finire nel Tevere. L’hanno rubata, quella statuetta simbolo della Terra madre, dalla Chiesa di Santa Maria in Traspontina a Roma, e gettata con disprezzo nel fiume che attraversa la Città Eterna. Sono stati, a quanto pare, cattolici integralisti che hanno inteso così dire no a quel dialogo culturale con i popoli indigeni dell’Amazzonia che è al centro dell’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la regione Panamazzonica che, iniziato il 7 ottobre scorso si concluderà in Vaticano domenica prossima, 27 ottobre.

Il Sinodo dedicato all’Amazzonia è stato voluto da papa Francesco sia per affrontare i temi religiosi relativi alla missione della Chiesa in quella parte del mondo sia per affrontare il tema dell’ecologia integrale che è stato il cuore dell’Enciclica Laudato si’ scritta e pubblicata nel 2015.

La statuina che rappresenta Pachamama – la Terra madre – è quella di una donna incinta, simbolo di fecondità. E appartiene alla cultura dei popoli amazzonici (e, per la verità, alle culture di gran parte del mondo). La sua presenza in una mostra ospitata a Santa Maria in Traspontina così come la presenza di rappresentati dei popoli indigeni della regione amazzonica all’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi voleva (vuole ancora) testimoniare la sostanza dell’ecologia integrale di cui parla papa Francesco.

Si tratta di un tema assolutamente laico. Che ripropone uno dei risultati cui giunse nel 1987 la Commissione indipendente presieduta dalla signora Gro Harlem Brundtland, allora primo ministro di Norvegia, presentati nel rapporto Our common future: il nostro comune futuro. L’idea è che l’umanità ha bisogno di uno sviluppo sostenibile. E che, per essere sostenibile, lo sviluppo non può che esserlo in contemporanea sia dal punto di vista ecologico sia dal punto di vista sociale.

Ne discende, per esempio, che non è possibile difendere i diritti della popolazione indigenza dell’Amazzonia (compreso il primario diritto alla vita) senza la tutela della sua straordinaria foresta (uno degli hotspot di biodiversità terrestre) e del suo maestoso fiume (il più grande al mondo per portata d’acqua). 

Ora quei popoli indigeni (3 milioni di persone) sono soggetti a un fenomeno di migrazione di massa. Vengono progressivamente scacciati dalle loro terre e spinti verso le grandi città che stanno nascendo sulle rive del fiume e/o dei suoi affluenti. Come tutti i migranti poveri di questo mondo in questa strana epoca, quelle popolazioni sono spesso fatte oggetto di discriminazione inaccettabili. E quando pure va loro bene, costrette a vivere quasi sempre in sobborghi tra i più degradati del pianeta. Un autentico inferno.

Nel medesimo tempo – a dimostrazione che ecologia e società vanno di pari passo – la grande foresta che interessa ben nove diversi paesi è sottoposta a un attacco con pochi precedenti, di cui gli incendi di qualche settimana fa sono solo l’epifenomeno. Lo ha detto chiaro il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro: l’Amazzonia non è un patrimonio dell’umanità, ma è una nostra esclusiva proprietà e ne facciamo ciò che vogliamo. Ovvero abbattiamo gli alberi ed espandiamo l’area coltivata o utilizzata a pascolo o industrializzata.

Sembra, quella di Bolsonaro, una posizione egoista e irrazionale, ma legittima dal punto di vista giuridico. 

Proprio mentre si consumava l’oltraggio integralista a Pachamama, sull’inserto La Lettura del Corriere della Sera il costituzionalista Sabino Cassese sosteneva che non è esattamente così. Che l’Amazzonia è di tutti. Dei brasiliani e di tutti gli altri abitanti della Panamazzonia. Ma anche di tutti gli altri cittadini del pianeta. Perché quella foresta è di tutti. E che questa tesi può essere proposta anche in sede giuridica, vista la giurisprudenza internazionale che ogni paese – checché ne dicano i sovranisti – è tenuto a rispettare, sia nella lettera sia nello spirito.

E le leggi internazionali – per esempio la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti Climatici e quella sulla Diversità Biologica – impongono di tutelare patrimoni naturali come quello dell’Amazzonia. 

Di tutto questo si sta facendo carico l’Assemblea Speciale del Sinodo dei vescovi per la regione Panamazzonica in corso in Vaticano. Una riunione insolita che, come abbiamo visto, ha suscitato reazioni irritate negli ambienti cattolici più integralisti. Mentre, al contrario, si sta svolgendo nell’assordante silenzio della gran parte dei media italiani. Eppure l’occasione è ghiotta per discutere tanto dell’our common future, del futuro ambientale di noi tutti, sia del fenomeno globale delle migrazioni. Lo stesso papa Francesco ha detto che questa attenzione all’Amazzonia è la prima di una serie di focalizzazioni su diversi biomi e su diverse popolazioni indigene della Terra sottoposti all’attacco del nuovo colonialismo. 

Il tema è tanto più attuale in vista di COP 25 (la nuova Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione dell’ONU sul clima che si terrà nelle prossime settimana a Santiago del Cile, ammesso che i disordini lo consentiranno) e soprattutto di COP 26 che si terrà tra un anno a Glasgow e che dovrà decidere definitivamente se il mondo è disponibile a uno sforzo per rendere meno indesiderabile il clima nei prossimi decenni. 

È per questo che è assordante il silenzio che circonda il sinodo in corso. Speriamo solo che le campane di San Pietro domenica sveglieranno le coscienze, dei credenti come dei laici.  E che qualcuno vada a recuperarla, Pachamama, nel fiume Tevere per riportarla al suo posto. Che non è solo la Chiesa di Santa Maria in Traspontina, ma anche il cuore e la mente di noi tutti.

 

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