Foto: Omar Sanadiki/Reuters
In Siria si continua a combattere, incessantemente, da dieci anni. Mezzo milione di morti, 12 milioni di sfollati. Città e villaggi trasformati in cumuli permanenti di macerie. Scuole bombardate (con dentro i bambini), stessa sorte per gli ospedali (con dentro i malati) e per i mercati all’aperto. Un Paese devastato, sfregiato ben oltre il limite del tollerabile. Il 90% della popolazione, stima l’Onu, versa in condizioni di estrema povertà. L’economia è in caduta libera, l’inflazione è fuori controllo. La corruzione imperversa. Non c’è più pane da mangiare o combustibile per riscaldarsi. Mentre la pandemia sta dilagando ben oltre i numeri ufficiali, con un sistema sanitario che, semplicemente, non esiste più: non ci sono macchinari, non ci sono medici o infermieri. I pochi posti letto rimasti sono perennemente occupati. Surreale immaginare l’esistenza di dotazioni adeguate di mascherine o di tamponi: manca l’ossigeno, manca perfino l’acqua potabile. Una situazione che definire drammatica è poco. E la fine del tunnel ancora non si vede.
Quella siriana è una guerra tutt’altro che civile, nata nel 2011 sull’onda delle “Primavere arabe”, con proteste plateali sì, ma pacifiche: i manifestanti, che a decine di migliaia affollavano le piazze, chiedevano libertà, dignità, lavoro e riforme, puntando il dito contro il regime, chiedendo a gran voce dimissioni, un cambio netto di pagina e di storia dopo quarant’anni (ormai sono diventati 50) di dittatura. Il dittatore in questione, Bashar al-Assad, non la prese bene: dopo qualche mese di attesa e di tentennamenti (all’inizio sembrò addirittura disponibile a concedere alcune aperture) decise di passare all’azione, stroncando con estrema violenza qualsiasi pretesa, ordinando all’esercito di sparare sulle folle, sequestrando, torturando, uccidendo. Simbolo di quella protesta è rimasto Ghiath Matar, chiamato “il piccolo Ghandi”, un ragazzo che all’epoca aveva 26 anni, sarto di professione, pacifista per convinzione, un figlio in arrivo. A Daraya, un sobborgo a pochi chilometri da Damasco, andava a viso aperto incontro ai carri armati inviati dal regime, offrendo ai soldati mazzi di rose e bottiglie d’acqua: «Sono siriani come noi» ripeteva, quasi a convincersi di quanto quel gesto, in quel momento storico, fosse indispensabile (qui il trailer del film dedicato alla sua storia). Lo lasciarono fare per un po’. Il 6 settembre 2011 fu arrestato, e con lui altri attivisti. Quattro giorni più tardi il suo cadavere, con evidenti segni di torture, fu scaricato davanti alla porta della sua casa. Fu quello l’innesco definitivo che portò all’esplosione della rabbia, alla rivolta, alla guerra, per tutti coloro che decisero che di fronte a un simile sfregio soltanto con le armi avrebbero potuto sperare di cambiare il corso degli eventi.
Guerre nelle guerre
Solo che poi, nel corso degli anni, anche la guerra tra insorti e regime è diventata altro, con l’ingresso sulla scena di estremismi, terrorismi, fazioni religiose opposte (l’insanabile frattura tra sciiti e sunniti), potenze straniere con obiettivi che spesso non riguardano direttamente la Siria, ma la “attraversano”: conflitti nei conflitti, a volte sovrapposti, a volte paralleli (qui una ricostruzione degli schieramenti in campo, pubblicata un paio di anni fa dal New York Times). La svolta avvenne nel 2015, dopo un’iniziale débacle del regime di Assad, che era arrivato a un passo dal cedere il controllo del paese ai ribelli dell’Esercito Siriano Libero, sostenuti economicamente e militarmente dalla Turchia e dai paesi del Golfo Persico, come Arabia Saudita e Qatar (finanziatori del fondamentalismo islamico internazionale). Ribelli tuttavia minati al loro interno dalla sempre maggiore influenza di galassie più o meno consistenti di fondamentalisti jihadisti: dal Fronte Al Nusra, la “filiale” siriana di Al Qadea, fino alla creazione dell’Isis (Islamic State of Iraq and Syria), che avrebbe dovuto inglobare lo stesso Fronte Al Nusra, mentre invece divennero rivali, dando origine a una guerra nella guerra. Così nel conflitto che punta ad arginare l’espansione dell’Isis (il cui vero obiettivo sarebbe creare un califfato che si estenda ben oltre i confini della Siria e dell’Iraq) entrano anche Stati Uniti, Israele (entrambi con obiettivi anche in chiave anti-iraniana) e una coalizione di potenze europee, compresa la Francia e la Russia. Per non parlare della galassia di milizie presenti in Siria che sostengono Assad (afghane, pakistane, yemenite, palestinesi) e del ruolo semi-neutrale della Cina, che non si schiera, non interviene militarmente, ma vigila, non attacca Assad e punta, per tutelare i propri interessi, a una soluzione diplomatica del conflitto. Un puzzle al limite dell’inestricabile.
La svolta, dunque, nel 2015, quando il regime di Assad, sul punto di crollare e disposto a tutto pur di non cedere, chiese aiuto a due dei suoi storici alleati: l’Iran e la stessa Russia. Che misero in campo formazioni armate e armamenti tali da riuscire a ribaltare la situazione (alla fine del 2016 la riconquista di Aleppo), anche se a un prezzo altissimo, economico e di vite umane. E qui il racconto diventa orrore. Perché la controffensiva decisa, concordata e autorizzata dal regime fu spietata. Già nel dicembre 2016 Human Right Watch denunciava senza mezzi termini quanto accaduto tra settembre e ottobre di quell’anno: «La coalizione russo-siriana ha commesso crimini di guerra durante una campagna di bombardamenti aerei nel territorio controllato dall’opposizione ad Aleppo. La campagna di bombardamenti ha ucciso più di 440 civili, tra cui più di 90 bambini. Gli attacchi aerei spesso sembravano essere sconsideratamente indiscriminati, mirati deliberatamente ad almeno una struttura medica e includevano l’uso di armi come munizioni a grappolo e armi incendiarie. L'uso di quella quantità di potenza di fuoco in un’area urbana con decine, se non centinaia, di migliaia di civili, prevedibilmente, ha ucciso centinaia di civili. Coloro che hanno ordinato e compiuto attacchi illegali dovrebbero essere processati per crimini di guerra».
L’accusa al dittatore Assad: ha usato armi chimiche
Da lì in poi la situazione è perfino peggiorata. Un rapporto pubblicato lo scorso anno dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) ha formalmente accusato Bashar al-Assad di essere il mandante, dunque il responsabile assieme a Mosca, di una serie di attacchi contro il villaggio di al-Lataminah, nel governatorato di Hama, nel mese di marzo 2017, nei quali furono utilizzate armi chimiche. Nel dettaglio: bombe contenenti gas sarin (classificato come arma chimica di distruzione di massa), lanciate da due jet da combattimento Sukhoi Su-17 (di fabbricazione russa). Mentre in un’altra azione, questa volta da un elicottero, un cilindro contenente cloro venne lanciato sull’ospedale di al-Lataminah: tetto sfondato, trenta pazienti morti soffocati. Nel 2018 un nuovo attacco, contro la città di Duma, a una ventina di chilometri da Damasco. Di nuovo bombe al cloro gassoso, di nuovo lanciate dagli elicotteri Mil Mi-8 (nome in codice Hip, sempre di fabbricazione russa). Le vittime, nell’immediato, furono un centinaio. I feriti lamentavano convulsioni, gravissime bradicardie, schiuma alla bocca e al naso, bruciature delle cornee.
Alla fine del 2019 le forze filo-governative hanno lanciato un’ulteriore offensiva nel tentativo, riuscito, di riconquistare territori occupati dai ribelli. E l’ultimo rapporto dell’Onu sulla Siria, pubblicato a luglio dello scorso anno, aggiunge un nuovo tassello al mosaico degli orrori: su entrambe le linee di fuoco ci sono sempre loro, i civili. Che in questi anni, scrive l‘Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, «hanno sopportato sofferenze insondabili: bombardamenti aerei indiscriminati, arresti, torture, saccheggi, sfollamenti». Il presidente della Commissione d’inchiesta, Paulo Pinheiro, l’ha spiegato con chiarezza: «I bambini sono stati bombardati a scuola, i genitori sono stati bombardati al mercato, i pazienti sono stati bombardati in ospedale… e intere famiglie sono state bombardate anche durante la fuga». E i civili rimasti nelle aree sotto il controllo del regime, sono stati a loro volta presi di mira dai terroristi, le loro case saccheggiate, i dissidenti torturati e uccisi. Civili intrappolati in una doppia morsa di ferocia. L’unica possibilità è tentare di fuggire, altrove, nel nord-ovest della Siria o all’estero, nei campi per sfollati in Turchia, in Libano, in Giordania. In condizioni disumane, rese ancor più drammatiche dal dilagare della pandemia.
L’abisso economico e la delega a Putin
Bashar al-Assad, dal canto suo, continua a respingere le accuse («Non possediamo armi chimiche»), a negare qualsiasi responsabilità, nonostante le evidenze. E a lanciare proclami bellicosi: «La guerra continuerà fino a quando ogni parte del territorio della nazione non sarà liberata dai terroristi». Oggi gli analisti stimano che il regime abbia ripreso il controllo del 70% circa del territorio siriano (il nordest è controllato dai curdi, mentre in alcune aree nel nordovest si trovano ancora gruppi di ribelli, in gran parte islamisti e jihadisti). La situazione resta drammatica nel governatorato di Idlib, ancora nelle mani dei ribelli, l’unico dove la Turchia ha ancora voce in capitolo (ma dall’altra parte c’è Putin): lì vivono tre milioni di persone, un milione nelle tendopoli. Erdogan usa i profughi per fare pressione sull’Unione Europea. Mentre l’Onu è paralizzata perfino sugli aiuti da inviare attraverso la Turchia per i continui e ripetuti veti di Russia e Cina (significa stop al rifornimento perfino dell’acqua potabile). Una “bomba” umanitaria che potrebbe esplodere in qualsiasi momento.
Ma per Bashar al-Assad il problema più pressante, oggi, non è tanto l’aspetto militare (anche se si continua a combattere e a morire), quanto la gestione interna di questa fragilissima instabilità. Dieci anni di guerra hanno minato le fondamenta del regime, che dovrà decidere come affrontare l’abisso nel quale è precipitata l’economia, come tenere a bada il malcontento sociale (la disoccupazione, la fame), mentre la stessa élite imprenditoriale, a cui il regime si è spesso rivolto per colmare necessità economiche (ma da spremere è rimasto poco), ha cominciato a voltargli le spalle. Il tutto aggravato dalle sanzioni imposte dagli Stati Uniti (crescono gli appelli a rimuoverle, perché avrebbero riflessi soltanto su una popolazione già stremata), dall’Unione Europea (nella black-list è finito anche il ministero degli Esteri di Damasco) e dal crescente “peso” della Russia, che continua a difendere e a consolidare i suoi enormi interessi in Siria (militari, strategici, energetici) presentando il conto al regime. Quest’anno, peraltro, sono previste le elezioni presidenziali, poco più di una farsa, alle quali tuttavia Mosca tenta di assicurare un profilo di legittimità. E poco potrà fare anche il nuovo presidente americano Joe Biden, se non rafforzare l’azione diplomatica (drammaticamente assente nei 4 anni di gestione Trump) e confermare l’impegno militare contro l’Isis e contro il regime di Assad. Ma per costruire un’ipotesi, pur labile, di via d’uscita alla questione siriana è con Putin (e in parte minore con Erdogan) che bisognerà riuscire a trattare.