SOCIETÀ
Bhopal: il più grave disastro industriale della storia continua ancora oggi
Foto credits: The Bhopal Medical Appeal
Domenica 2 dicembre 1984. Sono le ore 23 e a Bhopal, una città situata proprio nel bel mezzo dell’India, sta per accadere qualcosa che gli abitanti del luogo non scorderanno mai.
Un operaio della Union Carbide India Limited si accorge di una piccola fuoriuscita d’acqua dalla fabbrica. La fabbrica in questione era stata costruita nel 1969 da una multinazionale statunitense, la Union Carbide Corporation (UCC). Di fatto l’azienda americana era la massima proprietaria di questo stabilimento, ma non l’unica. A dirigere la succursale indiana infatti, c’era la Union Carbide India Limited, una società appositamente creata per ciò, partecipata al 50,9% dalla UCC e dal restante da investitori indiani, compreso il Governo.
Nello stabilimento di Bhopal, città in cui all’epoca vivevano circa 350 mila persone, si produceva il Sevin, una sostanza chimica utilizzata principalmente come insetticida. 350 mila persone ignare di quello che stava per accadere la notte tra il 2 e 3 dicembre 1984. 350 mila persone che ora sono più di 2 milioni e mezzo e che le proiezioni dicono che aumenteranno ad un tasso di 500 mila persone ogni cinque anni. Significa che nel 2030 più di 3 milioni di abitanti dovranno vivere attorno a quella fabbrica che nel 1984 ha ucciso, con una morte terribile, tra le 3 mila e le 15 mila persone. 3 milioni di esseri umani che dovranno vivere in un luogo in cui le conseguenze del disastro accaduto 40 anni fa sono ancora estremamente evidenti, dove c’è tuttora una crisi sanitaria, oltre che ambientale.
L’incidente della notte tra il 2 e 3 dicembre 1984 non fu un fulmine a ciel sereno. Negli anni c’erano stati diversi allarmi e la manutenzione della fabbrica era scarsa. La stessa Union Carbide India Limited, a causa dell’abbassamento della domanda di Sevin, nel novembre di quell’anno, aveva deciso di dismettere la fabbrica. Pochi giorni dopo, una fuoriuscita di 42 tonnellate di isocianato di metile colpì la popolazione di Bhopal.
International Campaign for Justice in Bhopal (ICJB)
Chi sta lottando affinché gli abitanti di Bhopal possano ottenere finalmente giustizia è un’associazione: l‘International Campaign for Justice in Bhopal (ICJB), composta da sopravvissuti al disastro, volontari internazionali e gruppi ambientalisti.
“Ad oggi, si contano più di 25.000 persone morte a causa dell’esposizione al gas letale nella notte del 2 dicembre 1984 – spiega Rachna Dhingra, attivista e coordinatrice dell’associazione, che da anni lavora a contatto con i sopravvissuti, fornendo assistenza e supporto -. L’obiettivo dell’ICJB è dimostrare che questa non è una questione passata, di 40 anni fa, ma un disastro che continua a influenzare la vita delle persone. L'organizzazione si batte in tribunale e nelle strade per chiedere il giusto riconoscimento dei crimini commessi dalle aziende responsabili e per affrontare le tante complicazioni mediche e legali.
Nessuna società o individuo è stato, fino ad ora, ritenuto responsabile del più grande disastro industriale della storia - continua Rachna Dhingra -. Questo dimostra che le attuali forme di giustizia non hanno funzionato e non funzioneranno per disastri come quello di Bhopal. La situazione resta drammatica, con una crisi medica e ambientale in corso e persone che continuano a subire danni a causa della contaminazione. Un esempio può essere considerato il periodo del Covid-19, in cui le persone esposte al gas hanno avuto un tasso di mortalità superiore di ben 3.84 volte rispetto alle persone non esposte”. Come riportano alcuni studi, infatti, la causa potrebbe essere legata alle complicazioni mediche di una già precaria condizione di salute dei sopravvissuti alla tragedia, con problemi respiratori cronici, malattie cardiovascolari, immunodepressione e altre patologie croniche.
Dopo 40 anni l’area che si sviluppa intorno alla ex fabbrica della Union Carbide India Limited è ancora contaminata, una zona in cui vivono ancora più di 200.000 persone e le cui acque, che scorrono nel sottosuolo, sono ancora inquinate dalle stesse sostanze che in quella notte uccisero centinaia e, in seguito, migliaia di persone.
“Da un punto di vista legale e umano, questo dramma ha creato un precedente senza limiti: la Union Carbide e il suo attuale proprietario, la Dow Chemical, non sono mai stati chiamati a rispondere delle loro responsabilità. Questo porta a pensare che le aziende possano causare disastri, inquinare e uccidere, pagando poi solo una cifra irrisoria di risarcimento”, conclude l’attivista.
La cifra di cui parla Rachna Dhingra, corrisponde a 500 dollari per lesioni permanenti e 2.000 dollari per ogni morte.
“ Tutto quello che hanno ottenuto gli abitanti di Bhopal sono stati 500 dollari di risarcimento Rachna Dhingra - ICJB
I sopravvissuti: Sanjay Verma e Rashida Bee
E poi c’è chi, quella notte, dalla morte è stato solo sfiorato, per poi vederla posarsi sui volti di parenti, familiari e persone care. Ma è sopravvissuto e ha voluto raccontare la propria storia, facendo della tragedia di Bhopal un motivo per continuare a combattere.
“La notte del 2 dicembre 1984, ho perso sette membri della mia famiglia: entrambi i miei genitori, tre delle mie sorelle e due fratelli. Non ho mai potuto ricevere l’amore dei miei genitori perché avevo solo sei mesi quando sono morti. Siamo rimasti in tre, nella mia famiglia, da dieci componenti”. Le parole sono di Sanjay Verma, uno degli abitanti sopravvissuti alla tragedia che abbiamo raggiunto telefonicamente. Di quella notte non ricorda nulla, se non il vuoto lasciato dalle conseguenze del disastro.
Oltre al dolore per le perdite umane, d’improvviso, intere famiglie si ritrovarono senza nessuno che provvedesse economicamente a loro.
“Ad un certo punto, a casa, nessuno era più in grado di lavorare, solo allora ho capito che era necessario un cambiamento.” A parlare è Rashida Bee, un’altra sopravvissuta al disastro che ha segnato lei e la sua famiglia. Aveva 28 anni quando si è trovata a dover provvedere alla sua famiglia, poiché in molti, prevalentemente uomini, non erano più in grado di lavorare; c’era perfino difficoltà a trovare cibo e acqua: “Noi donne vivevamo in isolamento, ma quando la situazione divenne insostenibile, abbiamo dovuto affrontare la realtà e trovare un modo per andare avanti. Abbiamo deciso di uscire e cercare lavoro. Mi recai in un posto dove sapevo ci fossero dei lavori disponibili e lì trovai tante altre donne nella mia stessa situazione. Qualcuna aveva perso il marito, qualcuna i figli o i fratelli. Era chiaro che dovevamo lottare contro la compagnia responsabile della diffusione di quel veleno.”
Il desiderio di ottenere giustizia spinse Rashida Bee a fondare il primo sindacato femminile della storia dell’India e ad organizzare, solo cinque anni dopo, nel 1989, una marcia su New Delhi. L’obiettivo era quello di chiedere allo Stato un aiuto concreto per i danni subiti: “Dopo il disastro di Bhopal, noi donne abbiamo marciato fino a Delhi per chiedere che fossero forniti a Bhopal i giusti trattamenti medici, riabilitazione e lavoro per i sopravvissuti. Senza telefoni o risorse economiche, abbiamo affrontato difficoltà enormi. Abbiamo attraversato la giungla, incontrammo addirittura dei banditi, ma non ci siamo fermate, eravamo determinate ad arrivare a Delhi. Siamo arrivate, finalmente, dopo un mese e tre giorni di cammino. A quel punto, abbiamo chiesto di parlare con il Primo Ministro, all’epoca Rajiv Gandhi, ma non era presente al momento del nostro arrivo. Siamo riuscite, però, ad incontrare il capo del Governo [del Madhya Pradesh ndr] che ci disse che ci avrebbe fornito tutto ciò di cui avevamo bisogno. Noi ci siamo fidate e abbiamo deciso di tornare indietro”.
“ La forza di Bhopal sono le sue donne Rashida Bee
La situazione però non è cambiata da allora, Rashida Bee e tutte le donne che hanno rischiato la vita per arrivare a New Delhi per chiedere il giusto risarcimento per le vittime, che l’area contaminata venisse bonificata e che le aziende coinvolte nel disastro venissero perseguite legalmente sono rimaste inascoltate. Ma non si sono fermate, hanno continuato a manifestare, a chiedere di essere ascoltate, e continuano a farlo ancora oggi.
Per il suo coraggioso lavoro e la dedizione alla causa, Rashida Bee ha ricevuto, negli anni, numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il prestigioso Goldman Environmental Prize nel 2004, noto come il "Nobel verde", a sostegno di chi lotta per i diritti umani e l’ambiente.
Ma cosa si può fare per Bhopal oggi, dopo quarant’anni?: “La forza di Bhopal sono e sono state le sue donne - dice Rashida Bee -, si sono unite affinché le persone della città avessero un futuro migliore e per questo è necessario che Dow Chemical si assuma le sue responsabilità. Se le sorelle di Bhopal alzeranno la voce, e anche voi, allora questa causa troverà forza. Siamo già stati in Italia, invitati per parlare di questa questione e abbiamo portato avanti questa lotta lì e la stiamo presentando di nuovo qui di fronte a voi. Se tutti vi unirete per alzare la voce contro Dow Chemical, allora Bhopal potrà ottenere giustizia.”
Bhopal Medical Appeal
A fornire un quadro medico più chiaro di quelli che sono stati gli effetti dell’esposizione all’isocianato di metile sulle persone colpite dalla nube tossica è stato il Bhopal Medical Appeal, un’Ong che dal 1996 offre sostegno ai sopravvissuti, fornendo cure mediche di prim’ordine. Grazie al loro contributo è stato possibile aprire centri di assistenza medica e riabilitazione, come il Chingari Trust e il Sambhavna Trust, proprio a Bhopal.
“Nessuno sa con certezza quante persone morirono, perché i decessi non furono registrati in maniera efficace - ha dichiarato Tim Edwards, executive trustee del Bhopal Medical Appeal -. Ci sono prove che suggeriscono che tanti morti furono nascosti, testimonianze di camion dell'esercito indiano che arrivavano in città dopo mezzanotte, trasportando corpi e scaricandoli in giungle e fiumi vicini. Ventitrè anni fa, parlai con un lavoratore municipale che faceva parte del team che spostava i corpi subito dopo la fuga di gas. Secondo lui, nei primi tre giorni c’erano stati otto camion in funzione e trasportavano dozzine di corpi per ogni viaggio. Basandoci sulla sua testimonianza, abbiamo calcolato che il tasso di mortalità potesse essere stato tra i 15.000 e i 18.000 morti in un primo momento. Cifre sconvolgenti e inimmaginabili. Amnesty International, nel 2004, concluse che almeno 8.000-10.000 persone morirono nei primi tre giorni. La cifra ufficiale dichiarata dal governo era di circa 2.700 morti. Oggi, il bilancio ufficiale delle vittime del disastro, fino ad ora (40 anni dopo), è di 5.479 persone. Tuttavia, si stima che le morti reali siano circa 22.000”.
Ma perché l’isocianato di metile ha provocato la morte di tutte quelle persone?
Secondo Edwards, il motivo è molto chiaro: stiamo parlando di un gas letale, esattamente 28 tonnellate di prodotto chimico sottoforma di gas, che rapidamente si diffusero nell’aria: “La soglia di sicurezza del MIC, secondo l'Agenzia per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti (EPA), è di 0,02 parti per milione, risultando, per questo motivo, 200 volte più tossico dell’acido cianidrico, la principale tossina del Zyklon B utilizzato durante l’Olocausto nelle camere a gas. Nelle aree dove vivevano le persone vicino alla fabbrica, il metil isocianato è stimato essere stato circa 15.000 volte sopra i livelli di sicurezza. Non c'era stato alcun avvertimento per la popolazione, che venne svegliata nel cuore della notte tra tosse e bruciore agli occhi. Quello che sembra averle uccise, in un primo momento, è stato l’edema polmonare, una reazione del corpo che cerca di eliminare le tossine dai polmoni, producendo grandi quantità di liquido al loro interno. Questo liquido diventa così abbondante che una persona finisce per annegare nei propri fluidi corporei.”
Nei giorni a seguire non andò meglio per tutte quelle persone che erano state colpite dalla nube tossica: “Contrariamente a quanto sostenuto inizialmente dalla Union Carbide Corporation, il MIC attraversò la barriera polmonare e si diffuse nel sangue, causando danni agli organi vitali come cervello, cuore, fegato e reni. Questo ha portato a malattie sistemiche che continuano a colpire i sopravvissuti ancora oggi. A distanza di 40 anni, i sopravvissuti hanno un tasso di mortalità del 28% superiore rispetto alla popolazione non esposta, e malattie croniche come il diabete, l'ipertensione, patologie cardiache e polmonari, e vari tipi di tumore sono molto più frequenti rispetto a chi non fu mai esposto - continua Edwards - Inoltre, numerose statistiche ci parlano di altri effetti a lungo termine, come tubercolosi e anomalie genetiche, trasmesse alle generazioni future. Oggi, la seconda e terza generazione delle vittime del gas non riceve alcun supporto sanitario o economico, per questo motivo è fondamentale il lavoro svolto da strutture come Chingari Trust e Sambhavna Trust, finanziate dal Bhopal Medical Appeal. In un luogo in cui le conseguenze del disastro avvenuto la notte del 2 dicembre 1984 non sono ancora state riconosciute e perciò non vengono fornite le giuste cure mediche, il loro ruolo è di primaria importanza, poiché forniscono supporto terapeutico e sociale a tutte quelle famiglie che hanno a che fare con bambini gravemente disabili. Mentre gli ospedali statali offrono principalmente cure sintomatiche con farmaci come antidolorifici e steroidi, cliniche come la Sambhavna Trust e la Chingari Trust si occupano di trattamenti più completi. La Sambhavna Trust combina la medicina moderna con pratiche tradizionali indiane, come l’ayurveda e lo yoga, per alleviare le sofferenze dei sopravvissuti, mentre la Chingari Trust si dedica alla riabilitazione di bambini con disabilità causate dal disastro. La Chingari Trust offre terapie fisiche, educative e di supporto per oltre 200 bambini al giorno, ma le risorse sono limitate rispetto al bisogno complessivo”.
Bhopal è un simbolo mondiale di giustizia mancata, che ancora oggi mostra come sia possibile e, oltremodo, semplice inquinare in comunità povere o emarginate per poi dimenticarsene. Un caso di studio per i peggiori motivi, ma che ricorda che è necessario un cambiamento globale per evitare che simili tragedie si ripetano.