SOCIETÀ

Bolsonaro, anatomia di una condanna

La condanna a oltre 27 anni di carcere per l’ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro, ritenuto colpevole di aver tentato un colpo di stato per rimanere al potere dopo aver perso le elezioni nel 2022, è una sentenza di portata storica per le istituzioni democratiche brasiliane. Perché traccia, come mai era accaduto nei quarant’anni che hanno seguito la caduta della feroce dittatura militare (1964-1985), una linea di confine invalicabile: vale a dire che le norme contenute nella Costituzione hanno un peso maggiore rispetto al ruolo che si ricopre. Che non basta diventare presidente della nazione per calpestare le regole, per tentare di sovvertire con la violenza un risultato raggiunto attraverso un regolare voto democratico. Che, piaccia o meno, la democrazia non è “a disposizione” del potente di turno. Che il ruolo del presidente ha dei limiti, come quello delle forze armate, che in Brasile hanno da sempre avuto un peso preponderante. Difatti i giudici della Corte Suprema hanno ritenuto colpevoli di vari reati anche gli altri sette coimputati, tutti stretti alleati di Bolsonaro. E tra loro anche tre figure di alto rango delle forze armate brasiliane: il Generale Walter Braga Netto, ex ministro della Difesa (già in carcere da dicembre dello scorso anno, è stato condannato a 26 anni, da scontare in un carcere di massima sicurezza), il Generale Augusto Heleno, ex ministro per la Sicurezza Istituzionale (21 anni di prigione), e l’Ammiraglio Almir Garnier Santos, ex comandante della Marina, che dovrà trascorrere in carcere i prossimi 24 anni. Sono condanne “inaudite” per il Sudamerica, dove storicamente le Forze Armate, dopo essersi macchiate dei crimini più atroci (Argentina su tutti, ma anche Cile, Uruguay, Paraguay, lo stesso Brasile) hanno sempre evitato i processi, beneficiando di amnistie collettive. Questa volta non è andata così. Lo storico brasiliano Carlos Fico, professore all’Universidade Federal di Rio de Janeiro, lo aveva detto chiaramente fin dall’inizio del processo: «A sorprendere non è tanto l’incriminazione di Bolsonaro, che è un nostalgico della dittatura, ma quella dei generali». E che oggi ribadisce: «Questa sentenza è un fatto inedito e della massima importanza, perché rappresenta un monito per le Forze Armate». 

La militanza violenta dell’estrema destra brasiliana 

Bolsonaro e i suoi accoliti sono stati condannati perché ritenuti colpevoli di cinque capi d’imputazione: cospirazione criminale armata; tentativo di abolizione dello Stato di diritto democratico; tentato colpo di Stato; distruzione violenta di proprietà pubblica; danni ai siti del patrimonio nazionale protetti. Secondo i giudici della Corte Suprema, l’ex presidente era quantomeno “a conoscenza” di un complotto (chiamato “Pugnale Verde e Giallo”) che includeva piani operativi per assassinare sia il presidente eletto, Luiz Inácio Lula da Silva, sia l’attuale vicepresidente Geraldo Alckmin. Stessa sorte sarebbe toccata a Alexandre de Moraes, il giudice della Corte Suprema che ha supervisionato il processo a carico di Bolsonaro. La cospirazione, scattata all’indomani della sconfitta elettorale dell’ottobre 2022, non fu portata a termine perché ai golpisti venne a mancare il sostegno dei comandanti dell’Esercito e dell’Aviazione brasiliana. Il presidente Lula prestò giuramento formale, senza incidenti, l’1 gennaio 2023. Ma la settimana successiva, l’8 gennaio, migliaia di sostenitori dell’ex presidente presero d’assalto gli edifici governativi della capitale, Brasilia: il Senato Federale, la Camera dei Deputati, il Palazzo Planalto, sede del governo, e la Corte Suprema. «L’8 gennaio non può essere considerato un evento isolato», scriverà un anno dopo gli eventi The Conversation. «È il punto di partenza che riflette il livello di organizzazione e la volontà di violenza di una militanza che si definisce “patriottica” ma che rappresenta, di fatto, l’attivismo di estrema destra in Brasile. Un movimento che è andato crescendo negli ultimi anni, e che trova nel concetto di “bolsonarismo”, un pensiero conservatore allineato a quelli che sarebbero i valori politici e morali dell'ex presidente Jair Bolsonaro, un importante fattore unificante e propagandistico». Quel giorno, a Brasilia, 1500 persone furono arrestate (il numero complessivo salì a oltre 2100 nei mesi successivi). Secondo i giudici i rivoltosi erano stati incitati dallo stesso Bolsonaro (che quel giorno non si trovava a Brasilia), il cui piano era che l’esercito brasiliano intervenisse, ristabilisse l’ordine e lo riportasse al potere. 

Analogie con l’assalto a Capitol Hill 

Moltissime le analogie con quanto era accaduto due anni prima negli Stati Uniti, il 6 gennaio 2021: l’assalto a Capitol Hill (la sede del Congresso americano, a Washington) da parte di migliaia di manifestanti, appartenenti soprattutto a milizie ricollegabili all’estrema destra, molti dei quali armati, dopo la sconfitta di Donald Trump alle elezioni presidenziali (assalto che provocò 5 morti). Come Bolsonaro, anche Trump aveva tentato di “resistere” alla sconfitta alle urne mettendo in dubbio la correttezza del voto, parlando di “brogli elettorali” mai provati, e fomentando la rivolta dei suoi sostenitori. E perciò era stato incriminato, con quattro capi d’imputazione, a partire dalla “cospirazione per frodare gli Stati Uniti”. Ma in quattro anni, i giudici della Corte Suprema americana non sono arrivati a formulare una sentenza definitiva. Salvo, nel luglio 2024, concedere all’ex presidente un’immunità parziale “per gli atti ufficiali”. La rielezione di Trump alla Casa Bianca, lo scorso novembre, ha di fatto bloccato il procedimento. E il 22 gennaio scorso il presidente americano ha concesso la grazia a centinaia di rivoltosi.  


Leggi anche: L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro agli arresti domiciliari. Proteste USA


La differenza tra i due casi è tutta qui: nella “fermezza” usata dai giudici nell’applicare la legge. Il che la dice lunga sull’opportunità di ridurre il ruolo del magistrato all’appartenenza politica di una delle parti, evidentemente con l’obiettivo di cancellare ogni linea di confine tra rispetto del diritto e “interesse” della singola parte politica: l’amnistia, pur parziale, che ha consentito a Trump di ripresentarsi alle elezioni (sentenza peraltro assai contestata) era stata votata dai 6 giudici nominati dai conservatori (alcuni avevano avuto l’incarico dallo stesso Trump), contro i tre liberali. «Ma quale democrazia può sopravvivere alla selezione di un leader che alimenta la violenza come fa il presidente Trump?», si chiedeva all’epoca il quotidiano The Hill. «I giudici evidentemente non si sono posti questa semplice domanda: se Donald Trump vincerà la presidenza nel 2024 ma perderà le elezioni nel 2028, sono fiduciosi che il presidente Trump riconoscerà la sua sconfitta e lascerà pacificamente l’incarico»? 

Le minacce del segretario di Stato Usa 

In Brasile, almeno questa volta, le cose sono andate diversamente. Dei cinque giudici della Corte Suprema soltanto uno, Luiz Fux, aveva chiesto l’assoluzione di Bolsonaro, che al pari dell’attuale presidente americano, si è sempre dichiarato innocente. Donald Trump ha immediatamente commentato la notizia, definendosi “sorpreso” dalla sentenza e commentando: «È molto simile a quello che hanno cercato di fare a me, ma non ci sono riusciti». Lo scorso luglio lo stesso Trump aveva deciso di applicare dazi al 50% al Brasile come forma punitiva proprio per aver avviato nei confronti dell’ex capo di stato “una caccia alle streghe”. Martedì scorso la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt aveva dichiarato che «il presidente degli Stati Uniti non ha paura di usare il potere economico, il potere militare degli Stati Uniti d'America per proteggere la libertà di espressione in tutto il mondo», riferendosi al processo dell’ex presidente brasiliano. Il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha criticato la sentenza avvertendo, o meglio minacciando, che Washington darà una risposta “adeguata”. 

La sentenza di condanna per Bolsonaro dev’essere considerata sostanzialmente definitiva, fin quando la difesa non terminerà di utilizzare tutte le richieste previste dalla legge: ma i suoi avvocati, che ritengono «le pene previste assurdamente eccessive e sproporzionate», non possono chiedere un secondo verdetto dal momento che un solo giudice si è espresso per l’assoluzione (l’appello è ammesso solo in caso di voto 3 contro 2). Potrebbero invece presentare una “richiesta di chiarimento”, che serve a segnalare contraddizioni, omissioni o errori materiali nella decisione. Infine chiederanno misure alternative alla detenzione, come gli arresti domiciliari, evento probabile, vista l’età del condannato (70 anni) e le sue non perfette condizioni di salute; oppure chiedere direttamente una (assai improbabile) amnistia. Mentre resta aperta la strada di un eventuale ricorso a tribunali internazionali. L’esecuzione materiale della condanna (che potrebbe prevedere un trasferimento, anche temporaneo, in carcere) avverrà soltanto dopo che tutti i ricorsi legali saranno esaminati. Comunque la supervisione dell’esecuzione della sentenza resta affidata alla Corte Suprema, in particolare al giudice relatore Alexandre de Moraes, lo stesso che Bolsonaro (stando all’accusa) voleva assassinare: spetterà a lui analizzare la questione e decidere se concedere, eventualmente, sconti di pena ai golpisti.  

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012