SOCIETÀ

PFAS: il conto salato pagato dai cittadini per avere acqua pulita

Alla voce ‘temibile’, sul Vocabolario della Lingua Italiana Treccani si legge: “che è da temere, che si può o si deve temere”. Nel parlare comune è un aggettivo che usiamo con una certa leggerezza, propendendo più per il significato di “si può temere”, cioè non è insensato averne paura. Ma quando a essere definite ‘temibili’ sono alcune sostanze inquinanti, e l’aggettivo viene usato in tribunale, il significato tende di più dalla parte di “si deve temere”: bisogna averne paura.  Il riferimento è a una famiglia di sostanze chimiche che vengono indicate con una sigla, i PFAS, che sta per “perfluorinated alkylated substances”, cioè “sostanze perfluorurate alchilate”. E il contesto è quello di un processo in corso a Vicenza, perché proprio nel territorio della sua provincia, un’azienda ha inquinato con i PFAS la falda acquifera e le acque potabili di una vasta area di Veneto.

Una storia lunga quarant’anni

L’azienda sotto accusa è la Miteni che aveva il proprio stabilimento a Trissino, in una posizione strategica dal punto di vista delle acque. Proprio lì sotto, infatti, si trova una delle falde acquifere sotterranee più grandi del continente, dalla quale almeno tre aziende che si occupano dell’estrazione di acqua potabile, quella che arriva nei rubinetti delle case, prelevava il necessario per soddisfare i bisogno di oltre 350 mila abitanti sparsi in un’area di più di 180 km2 che si allarga anche nelle province di Verona e Padova.

Le prime avvisaglie di sversamenti inquinanti risalgono al 1977, quando dai rubinetti della zona esce acqua gialla che ha allarmato la popolazione. La Miteni era attiva solamente da 12 anni, inizialmente con il nome di RiMAr (Ricerche Marzotto) poi diventata Miteni quando è stata acquistata da Mitsubishi e EniChem. Miteni produceva composti fluorurati, i PFAS appunto, sostanze di sintesi, ossia che non esistono in natura, ma che nel corso dei decenni hanno trovato tantissimi impieghi grazie alle loro caratteristiche chimiche: dalle pentole antiaderenti agli indumenti e alle scarpe impermeabili, ma anche come componente di materiali ignifughi e da imballaggio. Oggi è quasi impossibile sapere anche solo quante sostanze diverse facciano parte di questa famiglia. Solitamente si parla di un numero tra i 7 e i 12 mila, mentre nuove formulazioni continuano a essere messe a punto, e alcune tra le prime a essere state prodotte (PFOA, PFOS, etc) sono state già vietate da anni. A renderli unici è proprio la loro grande stabilità, motivo per cui i PFAS sono stati anche definiti “sostanze inquinanti eterne”: una volta finiti nell’ambiente vi rimangono inalterati per tempi lunghissimi e la loro rimozione non è molto semplice. Per questi motivi, PFAS più vecchi, anche se vietati da oltre quindici anni, sono ancora in circolazione

Nel vicentino e nelle altre aree interessate dall’inquinamento di PFAS, la popolazione ha mostrato problemi di salute dopo che per anni ha bevuto, utilizzato per cucinare e irrigare orti e campi acqua che li conteneva. La ricerca scientifica ha, a oggi, legato queste sostanze all’aumento dei livelli di colesterolo, ad alterazioni nel  fegato e nella tiroide, interferenza con il sistema immunitario e riproduttivo, ad alcuni tipi di tumore, oltre che alterazioni della coagulazione del sangue, interferenze con il ciclo mestruale e la produzione di testosterone.

Gli anni recenti e il processo

Il disastro Miteni è scoppiato nella sua interezza nel 2013, in seguito a uno studio commissionato dal Ministero dell’Ambiente  e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) proprio sul territorio veneto interessato. Lo studio è stato realizzato per il CNR da Stefano Polesello e da Sara Valsecchi dell’Istituto per la Ricerca Sulle Acque (IRSA). Come lo stesso Polesello ha raccontato a Radar Magazine nel 2023, i valori misurati sui primi campioni prelevati erano talmente alti che “eravamo convinti di avere inquinato i campioni o di averli confusi con altri”. 

Oltre che a preoccupare la cittadinanza del vicentino, gli altissimi valori ripresi e pubblicati anche dall’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente del Veneto (ARPAV), hanno messo in moto anche uno scontro politico tra l’allora ministra per la salute Beatrice Lorenzin, nel governo di larghe intese guidato da Enrico Letta, e il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, con scambi di accuse a mezzo stampa. Mentre si cominciava a comprendere i contorni temporali e l’estensione di un inquinamento molto grave, la Regione nel 2017 ha introdotto per il suo territorio i limiti più restrittivi d’Europa. Il 29 maggio del 2018 il governo nazionale ha nominato un commissario straordinario per l’emergenza PFAS in Veneto. Il suo nome è Nicola Dell’Acqua, già direttore straordinario di ARPAV e futuro commissario straordinario, nel 2023, per l’emergenza siccità, come abbiamo raccontato qui sul Bo Live nell’inchiesta sullo stato di salute dei bacini idrici sotterranei

In parallelo si è aperto anche un fronte giudiziario che ha portato a un processo, attualmente in corso, in cui sono imputate quindici persone legate all’industria chimica di Trissino per diversi capi d’accusa, tra cui disastro ambientale e disastro doloso. Le udienze si sono chiuse sul finire dello scorso anno e la sentenza è attesa per la prima parte del 2025. Nel frattempo, il 9 novembre del 2018 la Miteni S.p.a. di Trissino è stata dichiarata fallita e l’anno seguente gli impianti sono stati acquistati da una società indiana che li ha trasportati nel subcontinente, a 80 chilometri a sud di Mumbai.

I costi dell’inquinamento: dal Forever Pollution al Forever Lobbying Project

L’inquinamento da PFAS nel Veneto ha già provocato diversi danni, portando il caso, oltre che a processo, anche all’attenzione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, che ha effettuato un sopralluogo nel 2022. Miteni, però, non è l’unico caso italiano e, tantomeno, europeo. In Italia è da ricordare almeno la situazione simile di Spinetta Marengo, nell’alessandrino, dove è attivo uno stabilimento dell’azienda Solvay. Le zone di maggiore inquinamento a livello continentale sono state già individuate nella prima fase di un progetto di inchiesta internazionale di mappatura degli oltre 23mila siti inquinati europei, il Forever Pollution Project, con una metodologia messa a punto e sviluppata da Stéphane Horel, giornalista d'inchiesta per Le Monde, che ha coordinato il progetto fino alla fine. Il lavoro è stato portato avanti da un team composto da giornalisti di 16 diverse redazioni, e ha messo a disposizione tutta la documentazione e i dati sull'inquinamento da PFAS creando un sito dedicato e pubblicando decine di articoli su diversi media europei nel corso di tutto il 2023.

In questa seconda fase, avviata da Stéphane Horel assieme ai giornalisti freelance Luc Martinon e Sarah Pilz, anche il Bo Live è entrato a far parte del progetto in collaborazione con il centro di giornalismo scientifico indipendente Facta.eu, contribuendo alla parte di progetto che ha come obiettivo il calcolo dei costi di questo inquinamento nelle diverse casistiche. L’inchiesta cross-border Forever Lobbying Project ha visto il coinvolgimento di oltre 46 giornalisti, tra cui chi scrive, e 29 media partners in 16 paesi. Il lavoro, durato oltre un anno, ha diversi obiettivi, come racconteremo qui e in un secondo articolo. 

Uno degli sforzi principali è stato quello di utilizzare una metodologia articolata e basata su criteri scientifici per provare a calcolare quale possa essere il costo di risanamento ambientale nel caso in cui tutta l’Europa volesse rimuovere i PFAS dall’ambiente. Il risultato finale è ovviamente il frutto di varie approssimazioni. Ciononostante, la cifra è immensa, difficile anche solo da afferrare e sufficiente a rendere molto chiaro quanto questo problema sia diverso, per scala e per impatto anche economico oltre che ambientale e di salute, rispetto ad altri casi di inquinamento. Parliamo di 2000 miliardi di euro in 20 anni. E secondo gli esperti che hanno collaborato in modo continuo e intensivo con i giornalisti del progetto nei mesi scorsi questo è senz’altro un calcolo per difetto.

Il costo dell’inquinamento in Veneto

Il team del Bo Live ha ricostruito nel dettaglio il costo della rimozione da PFAS sostenuti dalle aziende che portano l’acqua potabile nelle case della cittadinanza. Se non è ancora possibile pensare di rimuovere i PFAS dalle falde acquifere, le aziende delle acque hanno comunque dovuto garantire i fabbisogni idrici della popolazione, ricorrendo a diverse strategie. 

Pacato e determinato. Massimo Carmagnani, responsabile ricerca e sviluppo di Acque Veronesi, l’azienda per la distribuzione di acqua potabile che si è trovata al centro della questione PFAS in Veneto, proprio nel mezzo della zona rossa veneta, ci condivide dati e spiegazioni nel corso di una lunga chiacchierata online. 

Acque Veronesi assieme ad altri gestori delle acque della zona si è costituita parte civile nel processo contro Miteni. In totale, le parti civili ammesse sono state 314, a partire dalle Mamme no PFAS, che sono state tra le prime a sollevare il problema e a protestare chiedendo un intervento deciso, fino ai sindacati e a diverse istituzioni locali e nazionali, tra cui il MInistero dell’ambiente, e associazioni della società civile. 

I dati che Massimo Carmagnani condivide con noi non sono segreti, anzi. Sono quelli depositati presso il tribunale. E parlano molto chiaro: più di 21 milioni di euro spesi in 10 anni, dal 2013 al 2023, per la gestione complessiva della centrale dell’acqua di Madonna di Lonigo, di Acque Venete, di cui ben 13 milioni, quindi più del 60%, dovuto alla rimozione dei PFAS. 

La tabella che Carmagnani ci condivide indica le voci di costo fisse e relative al funzionamento della centrale, ed evidenzia quelle aumentate o introdotte ex novo per la gestione del problema PFAS. Si tratta, come si vede chiaramente, di spese dovute all’energia elettrica che serve per potenziare i sistemi di filtrazione, costi per il personale adibito all’impianto e alla rimozione dei filtri., materiali e manutenzione. Perché se è vero che l’acqua va comunque portata nei pozzi, anche per altri trattamenti, e quindi il costo del ‘sollevamento dell’acqua’ ci sarebbe lo stesso, i filtri a carbone attivo invece sono interamente dovuti al problema PFAS. In totale, appunto, 13 milioni di euro, più di un milione di euro l’anno. Solo per trattare l’acqua potabile, non per la depurazione delle acque né altri trattamenti in falda o di reflue, ad esempio. Quindi si tratta di una spesa esclusivamente dovuta al trattamento in pozzo e con filtri dell’acqua che verrà distribuita. Sulle tecnologie e la loro evoluzione, intensificata proprio dalla necessità di trattare con urgenza il problema, torneremo nel prossimo articolo. Per ora ci soffermiamo sui costi. 

Queste sono le voci che trovate riportate qui sotto, nel grafico che permette di capire esattamente cosa il gestore ha dovuto pagare in più rispetto al normale per riportare i valori dei PFAS nell’acqua distribuita “sotto lo zero tecnico”, e cioè al di sotto dei valori stabiliti dalle leggi regionali, introdotte nel 2016 dalla Regione Veneto dopo lo scoppio del caso PFAS per alzare il livello di sicurezza per la popolazione e ispirate a un approccio molto più conservativo e stringente anche rispetto agli standard nazionali.

Ci sono poi una serie di investimenti fatti negli anni per potenziare la centrale, i sistemi di filtrazione e le vasche di accumulo, circa 5,3 milioni di euro dal 2013. Un altro milione di euro di spese di adeguamento dell’impianto, per esempio per cambiare le pompe. Poi ci sono più di 600mila euro per estendere le reti e arrivare a servire utenze che precedentemente avevano un approvvigionamento autonomo ma che non possono più usare l’acqua dei propri pozzi, anche per usi agricoli. E infine, poco meno di 28 milioni di euro per la sostituzione delle fonti inquinate con altre.

ARPA stima che questo inquinante persisterà per ben oltre un secolo. “Quindi non ha senso bruciare 1.000.000 di euro all'anno di carbone per un secolo” spiega Carmagnani, “E quindi cerchiamo zone in cui ci sono pozzi senza PFAS, o perlomeno privi di questo livello di contaminazione. Abbiamo cominciato a lavorare per revisionare il modello strutturale degli acquedotti del Veneto.”

Insomma, oltre 34 milioni di euro di investimenti sostenuti finora. E altri 29 milioni previsti per completare la sostituzione di altre fonti. Un cifra molto consistente anche per una zona ricca come il Veneto. Parte dei costi sono stati finanziati con fondi regionali, altri rientrano nel PNRR, soprattutto per l’investimento in infrastrutture e per la ricerca di nuove fonti di approvvigionamento. 

La costruzione di nuove centrali, la creazione di nuove dorsali, in previsione, arriverà a costare ben oltre 135 milioni di euro. Di cui una parte importante, circa 80 milioni, sono fondi ministeriali. Altri 10 milioni arrivano dalla commissione europea. Ma i restanti 40 milioni sono costi che verranno finanziati attraverso le tariffe. Così come una parte importante dei costi di esercizio, finisce in bolletta. E dunque viene pagata dalle persone, quelle stesse persone che già hanno subito il danno di aver bevuto per anni acqua inquinata e che successivamente, appena emerso il problema, hanno dovuto trovare a proprie spese soluzioni temporanee, come l’acquisto di acqua in bottiglia, finché la centrale non è stata in grado di riportare l’acqua a livelli di sicurezza. 

Quanto ci racconta Massimo Carmagnani è confermato anche dai dati di Acque del Chiampo, altro gestore della zona che con Acque Venete condivide una parte degli approvvigionamenti dalla falda inquinata da Miteni. Anche in questo caso, come già in quello di Acque Veronesi, l’azienda ha un approccio comunicativo molto aperto, pubblica dati e informazioni sul proprio sito e li discute in diversi incontri con la cittadinanza. I dati, evidenziati nella tabella sottostante, sono in questo caso relativi al periodo 2013-2029, e considerano dunque le spese già effettuate e quelle messe nei budget previsionali. Il totale sono quasi 8 milioni di euro in totale solo per gestire il problema PFAS, tra filtri, analisi, interventi sostitutivi come le casette dell’acqua e opere infrastrutturali necessarie a migliorare la sicurezza.

Anche questo gestore, come Acque Venete, sta lavorando a una soluzione più strutturale, mettendo in campo investimenti pari a quasi 29 milioni di euro, sempre nel periodo 2013-2029, per potenziare le proprie strutture, creare nuovi collegamenti di distribuzione e sfruttare dunque fonti alternative a quelle attuali. I dati sono evidenziati nella tabella sottostante. Si tratta dell’unica possibilità di risolvere il problema, perlomeno quello dell’approvvigionamento idrico, come ci ha detto Massimo Carmagnani. Rimane intoccato il cuore della questione, e cioè l’inquinamento ambientale permanente.

Costi a livello europeo: un esercizio fondamentale

Ci sono danni per i quali non si può dare una stima dei costi: alla salute, all’ambiente, compromettendo in modo permanente falde acquifere e terreni, e impedendo il consumo sicuro di vegetali lì coltivati e della carne che proviene da animali nutriti con mangimi e acqua che contengono PFAS. Aggiungiamo che siamo in un campo dove l’epidemiologia sta producendo solo in anni recenti i primi studi consistenti, e dunque è possibile, diciamo pure che è probabile, che capiremo sempre meglio quanti e quali danni queste sostanze possano fare alla nostra salute, e quanto questi limiti siano davvero accettabili o vadano, ulteriormente, riconsiderati.

Per avere un’idea precisa dei costi che è possibile calcolare è però in ogni caso necessario per operare delle scelte precise, per fare pressione politicamente a livello locale e a livello internazionale. E dunque il Forever Lobbying Project, attraverso la stretta collaborazione tra giornalisti e scienziati, ha provato a calcolare i costi, concentrandosi solo su alcune specie di PFAS, un piccolo sottoinsieme di quelli più conosciuti, presenti nell’ambiente da più tempo e che, anche per questo, possono essere isolati e distrutti con tecnologie messe a punto negli ultimi decenni.

Si tratta comunque di una sottostima. Così come sottostimata è la quantità di PFAS che annualmente viene immessa nell’ambiente solo in Europa, 75.000 tonnellate secondo il Registry of restriction intentions until outcome dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA). Rimuoverli tutti costerebbe 100.000 volte più dell'intero bilancio governativo di tutti i paesi dell'UE messi insieme. Spostare anche solo una parte di questo costo sugli inquinatori porterebbe al fallimento immediato di tutti i settori industriali legati ai PFAS. 

Anche concentrandosi dunque solo su alcune tipologie di PFAS il costo è comunque difficile da calcolare. Il calcolo è stato realizzato da un team dedicato all’interno del Forever Lobbying Project, composto dall’ingegnera Ali Ling, dell'Università di Saint Thomas negli Stati Uniti, da Hans Peter Arp, dell'Università Norvegese di Scienza e Tecnologia, Raphaelle Aubert del quotidiano francese Le Monde e Eurydice Bersi di Reporters United (Grecia). La scelta è stata quella di produrre due scenari piuttosto distanti.

I costi europei: lo scenario conservativo

Nel primo caso, più conservativo, il calcolo è stato fatto considerando solo l’inquinamento associato alla diffusione ambientale delle molecole di PFAS più tradizionali, a catena lunga, come il PFHxS (catena di sei atomi di carbonio), PFOS, PFOA (catena di otto atomi di carbonio) e PFNS (catena di nove atomi di carbonio). È importante specificare che queste sostanze sono già ietate in Europa da anni. Si tratta dunque, in questo caso, di un "inquinamento storico" e anche per questo il calcolo è stato fatto solo sul trattamento dell'acqua e del suolo necessari a rientrare nei limiti delle attuali normative europee. L’inquinamento “storico” dunque è quello che ha interessato, anche per casi di noncuranza quando non di violazione delle pratiche di buona gestione ambientale, soprattutto le acque destinate agli usi umani e i suoli. 

La bonifica dovrebbe riguardare anche gli impianti di produzione di PFAS, le industrie che li utilizzano e i principali luoghi di esercitazioni antincendio: aeroporti e siti militari. Questo scenario non comprende le fonti secondarie di contaminazione, come le discariche (il cui percolato può contenere PFAS), né gli impianti di trattamento delle acque reflue. Le bonifiche sono in corso solo in alcuni casi, spesso dopo lunghe trattative o addirittura processi. In Belgio, 3M, l’industria principale produttrice di PFAS in Europa, ha concordato di pagare più di 500 milioni di euro per bonificare il proprio sito di produzione, nei pressi di Anversa. La Norvegia sta bonificando i suoi principali aeroporti. La città di Rastatt, in Germania, ha avviato una costosissima bonifica, a spese dei contribuenti, dopo che il compost prodotto a livello municipale, prodotto anche con anche fanghi di carta contaminata da PFAS, è stato utilizzato per oltre sei anni come fertilizzante. 

In generale, aeroporti e siti militari sono tutti siti da bonificare, soprattutto per l’uso delle schiume e dei materiali ignifughi, una tra le principali fonti di PFAS nell’ambiente. Così come altre importanti fonti sono le industrie di packaging, in particolare di cartoni e materiali per alimenti, che fino al 2010 almeno contenevano tutti PFAS. Oggi, solo una parte di queste aziende utilizzano materiali PFAS-free.  

Considerando dunque i siti pesantemente contaminati già noti e inseriti nella mappa della prima fase del progetto, gli esperti arrivano a una cifra stimata di 95 miliardi di euro in 20 anni per la bonifica, 4.8 miliardi all’anno. Questi costi sarebbero quelli per rimuovere quanto già presente nell’ambiente. E dunque, anche se la proposta fatta da 5 paesi europei di restrizione totale dei PFAS, attualmente in discussione al Parlamento europeo dal 2023, e sulla quale torneremo nel prossimo articolo, dovesse essere approvata, il costo per ripulire quanto già inquinato sarebbe comunque vertiginoso.

I costi europei: lo scenario emergente

C’è poi uno scenario ancora più grave e costoso. Quello che il Forever Lobbying Project chiama  scenario emergente. In questo caso, i costi salgono a 100 miliardi di euro all'anno, per un totale di 2.000 miliardi di euro nei prossimi 20 anni. Queste cifre, approssimate per difetto secondo gli esperti coinvolti, sono dovute alla diffusione assai più ubiquitaria di PFAS di tipo diverso, più piccoli e mobili, come il TFA (l’acido trifluoroacetico, una piccolissima catena di due atomi di carbonio). 

Il TFA, e altre specie più recenti di PFAS, a volte sintetizzate e proposte come alternative ai ‘vecchi’ PFAS ormai vietati, sono state spesso ritrovate anche tra gli alimenti di cui ci nutriamo. Per esempio, uno studio recente ha rilevato concentrazioni molto elevate di TFA nei succhi di frutta provenienti da Spagna, Norvegia e altri paesi europei. Il problema è individuare la fonte di inquinamento: potrebbe derivare da pesticidi contenenti PFAS, dai gas fluorurati, degli impianti di condizionamento e delle pompe di calore, che si degradano in TFA e ricadono con la pioggia, o dalle emissioni di impianti industriali lontani dai luoghi in cui viene misurato l'inquinamento. 

In questo caso, l’entrata in vigore di un divieto totale o meno fa un’enorme differenza. Per esempio, in questo scenario, i fanghi di depurazione non verrebbero più applicati ai terreni agricoli come fertilizzanti. La scelta del Forever Lobbying Project è stata quella di supporre che che venga applicato il principio di precauzione, che i primi studi che dimostrano gli effetti dannosi del TFA (come quelli che lo classificano come tossico per la riproduzione) siano confermati da nuove evidenze e che vengano scoperte e trattate molte altre zone con suolo contaminato. Se così fosse, dovremmo fare i conti necessari a rimuovere la maggior parte del TFA, e degli altri PFAS a catena corta, non solo dalle fonti principali, come l'acqua potabile, ma anche da quelle secondarie, come i percolati delle discariche e gli scarichi degli impianti di trattamento delle acque reflue. Anche con queste aggiunte, i costi sono sottostimati, poiché non includono la bonifica delle infrastrutture inquinate da PFAS, come gli edifici in cemento, né la gestione delle vecchie discariche non rivestite che necessitano di adeguamenti per raccogliere e gestire il percolato. 

La domanda chiave naturalmente è: chi paga tutto questo? Se per i siti contaminati da aziende sono in corso dei processi e delle negoziazioni, e c’è la speranza di poter, almeno in parte, recuperare questi costi attraverso il principio del “chi inquina paga”, nello scenario emergente diventa impossibile individuare con precisione la fonte esatta dell'inquinamento diffuso e dunque è chiaro che il costo, ancor di più che nello scenario conservativo, finirà solo sulle spalle, e nelle tasche, dei cittadini e delle cittadine.  Risalire la catena di responsabilità diventa quasi impossibile. 

E dunque, non solo è sempre più importante analizzare il problema in chiave sistemica, come spiegheremo nel prossimo articolo, ragionando sulle tecnologie disponibili e su quelle sperimentali solo all’interno di una valutazione di tutta la catena produttiva e di accumulo di queste sostanze nell’ambiente e dentro ai nostri corpi.

È anche fondamentale lavorare sul piano regolativo per considerare i danni attuali e quelli potenzialmente futuri, anche economici oltre che ambientali e di salute, per mettere a punto regolamenti che non normino le singole specie di inquinante, né considerino solo lo status quo, ma riescano a fare un passo in più. Quello di definire cosa è accettabile in termini di rischio e cosa non lo è. Dove ha senso, se ha senso, fare dei compromessi tra sviluppo tecnologico e compromissione della salute umana e dell’ambiente circostante, e dove questo compromesso ha un costo troppo elevato per essere anche solo ragionevolmente sostenibile e accettabile.


Crediti

L’inchiesta cross-border Forever Lobbying Project è stata coordinata da Le Monde e ha coinvolto oltre 46 giornalisti e 29 media partners provenienti da 16 paesi: RTBF (Belgio); Denik Referendum (Repubblica Ceca); Investigative Reporting Denmark (Danimarca); YLE (Finlandia); Le Monde e France Télévisions (Francia); MIT Technology Review Germany, NDR, WDR e Süddeutsche Zeitung, (Germania); Reporters United (Grecia); L'Espresso, RADAR Magazine, Il Bo Live, Facta.eu e Lavialibera (Italy); Investico, De Groene Amsterdammer e Financieele Dagblad (Paesi Bassi); Klassekampen (Norvegia); Oštro (Slovenia); DATADISTA / elDiario.es (Spagna); Sveriges Radio e Dagens ETC (Svezia); SRF (Svizzera); The Black Sea (Turchia); Watershed Investigations / The Guardian (Regno Unito), con una partnership editoriale con Arena for Journalism in Europe, e in collaborazione con l’Osservatorio no profit sulle lobby Corporate Europe Observatory.

L’inchiesta è basata su oltre 14,000 documenti fin qui mai pubblicati sui PFAS; le sostanze chimiche persistenti, detti perciò anche forever chemicals. Il lavoro ha incluso la sottomissione di 184 richieste di accesso agli atti (FOIA), 66 dei quali sono state condivise con il nostro progetto dal Corporate Europe Observatory.

L’inchiesta ha sviluppato ulteriormente l’esperimento di giornalismo ‘expert-reviewed’ (rivisto e verificato da esperti) inaugurato nel 2023 con il Forever Pollution Project attraverso la costituzione di un gruppo di esperti composto da 18 esperti accademici internazionali e avvocati. 

Il progetto è stato supportato finanziariamente dal Pulitzer Center, la Broad Reach Foundation, Journalismfund Europe, e IJ4EU.

Il sito di riferimento del progetto internazionale è: https://foreverpollution.eu.

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