CULTURA

Soldati di Salamina: a vent’anni dalla prima pubblicazione un graphic novel per riscoprirne la storia

A marzo del 2021 Soldati di Salamina, il romanzo che diede fama mondiale a Javier Cercas, compirà vent’anni. Da allora, dal 2001, Cercas ha scritto altri capolavori, battendo strade innovative, passando dall’autofiction a raccontare eventi reali come se fossero fiction, e poi, con l’ultimo Terra Alta, recuperando il thriller e il grande romanzo ottocentesco per narrare una storia sul conflitto tra giustizia formale e giustizia sostanziale, tra la legge e la vendetta. E intanto, Soldati di Salamina acquisiva via via le caratteristiche di un «classico», nel senso che indicava Italo Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» e ogni sua rilettura «è una lettura di scoperta come la prima».

Fra le «riletture», vanno sicuramente annoverate quelle realizzate con altri strumenti espressivi, a cominciare dal film che dal romanzo ha tratto David Trueba per finire al graphic novel di José Pablo García, appena pubblicato da Guanda nella traduzione di Pino Cacucci (pp. 154, euro 20), che ripercorre visivamente, in un’ottima trasposizione, le vicende del romanzo di Cercas. E così, anche rileggendolo in versione grafica, Soldati di Salamina conferma di essere vivo e vegeto, di riservarci ancora nuove scoperte, di essere a tutti gli effetti un classico.

La storia che il romanzo racconta comincia il 30 gennaio del 1939. Incalzato dalle truppe franchiste ormai vittoriose, l’esercito repubblicano spagnolo si sta ritirando dalla Catalogna verso la frontiera francese. La confusione è al culmine. Centinaia di migliaia di militari e civili fuggono sotto una pioggia battente tra camion e cannoni abbandonati, stracarichi di casse, balle, armadi, cani, pecore, bottiglie e materassi, esposti alla minaccia dei trimotori italiani che li bombardano. I repubblicani in fuga hanno ammassato duemila prigionieri nazionalisti nel santuario del Collell, vicino a Gerona. Tra loro, c’è Rafael Sánchez Mazas, scrittore e notissimo falangista della prima ora, amico personale di José Antonio Primo de Rivera.

La mattina di quel 30 gennaio, lo scrittore viene portato insieme a una cinquantina di detenuti in una radura del bosco che circonda il santuario. Ha i riflessi pronti, Sánchez Mazas: appena capisce che i repubblicani stanno per sparare, si butta nel folto del bosco e scampa miracolosamente alla morte. È lì, tremante, acquattato nel fango, quando vede arrivare un giovane miliziano che lo fissa per qualche attimo negli occhi prima di gridare ai suoi compagni: «Qui non c’è nessuno!». Poi il miliziano si volta e se ne va. Per la seconda volta, Sánchez Mazas si salva. Nei giorni successivi, aiutato dagli «amici del bosco», tre disertori repubblicani nativi del posto, riesce a sopravvivere fino all’arrivo dei franchisti e a diventare perfino ministro nel primo governo nazionalista.

Sessantacinque anni dopo, Rafael Sánchez Ferlosio, figlio di Sánchez Mazas, anche lui scrittore, racconta l’episodio al giornalista Javier Cercas. E quello sguardo, i pochi incredibili attimi che salvano la vita al gerarca franchista, convoca tutto ciò che accadrà nel libro, si trasforma nell’«ossessione che costituisce il combustibile indispensabile alla scrittura» del romanzo. Il quale non narra soltanto la storia di Sánchez Mazas e degli «amici del bosco», ma anche quella dello stesso Javier Cercas che costruisce il suo racconto, che spiega come è nata l’idea, quali problemi ha affrontato mentre la scriveva e gli aiuti che ha ricevuto, giocando con i generi, con la finzione e la realtà, con la stessa scioltezza con cui s’immerge nel passato e ne rilegge le tracce. Reale è tutta la documentazione storica, reali le persone che compaiono nel racconto con i loro nomi e cognomi, dai protagonisti ancora vivi della vicenda agli scrittori Andrés Trapiello o Roberto Bolaño che lo aiutano nelle sue ricerche. Ma assolutamente narrativa è la disposizione dei materiali, il modo di giocare con lo spazio e il tempo, l’abilità nel fornire dati o nell’occultarli, le entrate e le uscite dei personaggi. «Non è un romanzo, quello che sto scrivendo, ma un racconto reale», ripete più volte il narratore. Ma Roberto Bolaño gli risponde:

«Fa lo stesso. Tutti i buoni racconti sono reali, almeno per chi li legge, ed è l’unica cosa che conti». 

Sarà proprio Roberto Bolaño a parlare a Javier Cercas di uno di quegli eroi dimenticati della guerra civile, di Antoni Miralles, un miliziano repubblicano che ha poi combattuto in Africa con Leclerc e in Francia fino alla liberazione di Parigi. Nel racconto di Bolaño, quell’uomo ormai anziano ballava un pasodoble, Suspiros de España, con una donna in un camping catalano; lo stesso pasodoble che Sánchez Mazas vide ballare, da solo, nel cortile della prigione, al miliziano che gli parve di riconoscere come il suo salvatore. Allora Javier parte alla ricerca di Miralles: è lui, pensa; è lui l’uomo che non denunciò Sánchez Mazas. Lo troverà in un ospizio di Digione, con tutte le sue cicatrici e le sue ferite. È un eroe davvero? «Gli eroi», gli dice Miralles, «sono eroi solo quando muoiono o vengono ammazzati. Non ci sono eroi vivi, giovanotto. Tutti morti. Morti, morti, morti». Come i suoi tanti compagni, a cui Miralles pensa ogni giorno. «Forse», annota Cercas, «non sono ancora morti del tutto proprio perché lui si ricorda di loro». Ma è stato proprio lui a salvare il gerarca franchista? Forse Miralles è davvero un eroe perché rifiuta di ammetterlo. Che importa, in fondo? Gli chiede piuttosto un abbraccio, perché sono tanti anni che non abbraccia più nessuno. Quando Cercas lo lascia, riflette tristemente sul fatto che «non c’è una sola persona che sappia dell’esistenza di quel vecchio mezzo guercio e prossimo alla fine, che fuma di nascosto in un ospizio, eppure non c’è una sola persona che non sia in debito con lui». Raccontare la sua storia è un modo per farlo continuare a vivere, per far continuare a vivere anche i suoi compagni ormai morti. Un romanzo intensissimo, che sfiora la perfezione, imperdibile. Da leggere per la prima volta o da rileggere ancora, magari anche nella versione graphic novel di José Pablo García, adesso. A vent’anni di distanza.

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