SOCIETÀ

La sorveglianza genomica delle varianti servirà anche dopo le vaccinazioni

La variante inglese (B.1.1.7) è arrivata in Italia ormai già da diversi mesi e secondo i report dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) è ormai responsabile di più dell’86% delle infezioni da Sars-CoV-2. Anche la variante brasiliana (P.1) è presente, ma è tenuta a poco più del 4% proprio dalla presenza preponderante di quella inglese.

Durante la fase di riapertura, che verrà inaugurata in Italia il 26 aprile, monitorare la diffusione delle varianti sarà fondamentale per non farsi trovare impreparati di fronte a quelle che potrebbero sfuggire alle difese del sistema immunitario e abbassare l’efficacia dei vaccini. Per far questo non servono i tamponi: occorre invece andare a studiare la composizione genetica dei campioni virali ottenuti proprio tramite tamponi.

In Europa, Regno Unito e Danimarca rappresentano le eccezioni virtuose della sorveglianza genomica. Le prime sequenze virali sono state condivise a gennaio 2020 dalla Cina e oggi su GISAID, la piattaforma di condivisione di dati genomici virali di tutto il mondo, è stato superato 1 milione di sequenze caricate e disponibili. Di queste, a fine marzo, 370.000 erano state caricate dal Consorzio britannico COG-UK. L’Italia ha contribuito invece con circa 20.000 genomi virali, gran parte dei quali sono arrivati solo nel 2021. Il primo anno di pandemia il nostro Paese aveva sequenziato poco più di 6.000 genomi.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, assieme ai centri di prevenzione e controllo delle malattie statunitense e europeo, ha stabilito che per rendere efficace il programma di sorveglianza genomica è necessario sequenziare almeno il 5% dei nuovi casi rilevati quotidianamente con i test diagnostici.

Abbiamo chiesto a Marco Gerdol, genetista dell’università di Trieste, come l’Italia stia affrontando la sfida della sorveglianza genomica.


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“In Italia c’è una sorta di consorzio spontaneo che si è venuto a creare, una rete che funziona, nonostante ci si basi per lo più sull’iniziativa di singoli gruppi” risponde Gerdol. “Quello che manca però è un coordinamento centrale che generi un network di competenze e un’analisi standardizzata. L’Istituto Superiore di Sanità tenta di stimolare i laboratori a fare sequenziamento. Adesso i report verranno fatti con cadenza regolare, ma siamo ancora distanti da programmi di altri Paesi europei, come Regno Unito e Danimarca”.

I loro consorzi, il COG-UK e il Danish Covid-19 Genome Consortium sono stati messi in piedi rispettivamente già a marzo e aprile 2020. “Noi dopo un anno siamo ancora molto indietro. Servono fondi, quelli che sono stanziati spesso arrivano con ritardo e sono i laboratori a sobbarcarsi i costi del sequenziamento. Servirebbe un programma serio che funzioni nel medio-lungo periodo, con una visione d’insieme che metta insieme ospedali e università, pubblico e privato”.

Se con le vaccinazioni riuscissimo ad arrivare sotto i 10.000 nuovi casi al giorno, per fare un buon sequenziamento basterebbe analizzare qualche centinaia di casi in Italia per raggiungere l’obiettivo del 5%. “Ad oggi la Campania è l’unica regione che ci riesce” commenta Gerdol. “Sta facendo bene con un progetto regionale messo in piedi appositamente per l’emergenza Covid e guidato da Tigem (istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli) grazie a uno stanziamento di 7 milioni di euro da parte della regione: ha iniziato a produrre buoni dati a partire da febbraio. Se le altre regioni si avvicinassero a questi livelli sarebbe già un fatto positivo”.

“Anche l’Abruzzo fa un buon lavoro” prosegue Gerdol. “È stato tra i primi a fare sequenziamenti, ha scoperto i primi cluster di variante inglese in Italia e oggi processa anche i campioni di Umbria e Molise. Altri invece processano i dati dei genomi virali in modo sporadico. La Lombardia da inizio pandemia ha contribuito con solo qualche centinaia di genomi”.

Fare meglio però si può. “La Danimarca punta già al 90% del sequenziamento dei nuovi casi giornalieri rilevati. Praticamente riescono a sequenziare in tempo reale rispetto alle analisi del tampone. Ottenere dati genomici rapidamente è importante, ma riuscire a farlo dipende dai macchinari che si hanno a disposizione” sottolinea Gerdol. “I grandi centri di sequenziamento ad esempio ne utilizzano di molto avanzati. I piccoli laboratori invece hanno spesso sequenziatori meno performanti. Il costo verrebbe ottimizzato con un’organizzazione centralizzata e andando in parallelo con macchinari di nuova generazione. Questa strategia è usata anche in Regno Unito. In Italia tutto è lasciato all’iniziativa di singoli laboratori, e così si fa presto a raddoppiare o persino triplicare i costi del sequenziamento”.

Dati e metadati

Sarebbe quindi opportuno attrezzare un sistema coordinato, non solo per contenere i costi, ma soprattutto perché sarà fondamentale continuare a sequenziare genomi virali anche dopo che la campagna vaccinale sarà finalmente avviata e a regime. Meno sequenziamento facciamo, meno siamo in grado di seguire la diffusione delle nuove varianti e comprenderne la pericolosità.

Ma un altro aspetto importantissimo riguarda le informazioni epidemiologiche che saremo in grado di estrarre dall’attività di sorveglianza genomica. Sarà infatti fondamentale riuscire a incrociare i dati del sequenziamento genomico del virus con i dati dei pazienti da cui è stato ottenuto il campione virale. “Perché c’è differenza tra avere a disposizione montagne di dati genomici e tirarci fuori qualcosa di utile” puntualizza Gerdol.

“In prospettiva futura sarà importantissimo conoscere lo stato di salute e la storia clinica del paziente su cui viene individuata una variante, se è stato vaccinato, se ha sviluppato sintomi, quanto sono gravi, se ha già contratto il virus in passato. Occorre infatti fare estrema attenzione ai casi di reinfezione. Conoscere i dati del paziente e associarli a quelli genomici del virus ci consente di capire ad esempio se la variante in esame è capace di evasione immunitaria oppure no” spiega Gerdol. “È necessario associare i dati di sequenziamento genomico ai metadati del paziente, come la data di contagio, l’entità dei sintomi, lo stato di vaccinazione, l’età del soggetto, se è stato ricoverato o no, deceduto o no”.

GISAID, la piattaforma di condivisione dei dati sui genomi virali sequenziati, dà la possibilità di introdurre questi metadati, che naturalmente possono essere anonimizzati, superando il problema della privacy. “Su GISAID c’è persino la possibilità di inserire i dati di mobilità. Questi dati sono stati incrociati nel Regno Unito ed è così che si è mostrato che la variante inglese è non solo più trasmissibile ma probabilmente anche più letale” ricorda Gerdol, anche se il meccanismo biologico che indurrebbe maggiore letalità non è stato identificato e il maggior numero di morti registrati potrebbe dipendere dalla maggiore pressione sugli ospedali provocata dalla maggiore trasmissibilità.

Il Consorzio danese si appoggia a GISAID. Potrebbe farlo anche quello italiano Marco Gerdol

Sulla piattaforma sono disponibili strumenti di analisi statistica open source che permettono agli enti nazionali di mettere in piedi sistemi di monitoraggio: “Il Consorzio danese si appoggia a GISAID. Potrebbe farlo anche quello italiano” auspica Gerdol. “In Italia ci vorrebbe un consorzio strutturato, promosso dall’Istituto Superiore di Sanità, che si occupi di gestire i dati dei genomi virali e i metadati dei pazienti. Il caricamento dei dati su GISAID naturalmente dovrebbe essere fatto da un bioinformatico. Nel caso del Regno Unito il caricamento viene fatto direttamente dal Sanger Institute di Cambridge, che coordina il consorzio britannico”. Il nuovo governo italiano ha da poco riformato la composizione del Comitato Tecnico Scientifico. Tra i nuovi membri non c’è però neanche un bioniformatico.

“A livello internazionale ci sarà la tendenza a sviluppare piattaforme di condivisione dati per questi scopi” spiega Gerdol. “Google ha già dato disponibilità a collaborare al portale global.health. Anche Fondazione Rockefeller ha dichiarato di volersi mettere in campo per fare un lavoro di questo tipo”.

In Italia ci vorrebbe un consorzio strutturato, promosso dall’Istituto Superiore di Sanità, che si occupi di gestire i dati dei genomi virali e i metadati dei pazienti Marco Gerdol

Monitorare le nuove varianti sarà quindi fondamentale, ma ancor più importante sarà mettere in comunicazione tra loro i dati dei genomi virali con i metadati dei pazienti da cui sono stati ottenuti per comprendere la pericolosità delle varianti. In Italia quella brasiliana (P.1) è presente in circa il 4% dei casi attualmente positivi. C’è stato inizialmente un cluster in Umbria e Toscana, ma poi non si è diffusa, perché la fitness evolutiva della variante inglese resta più alta, spiega Gerdol. Sappiamo invece che P.1 si è diffusa massicciamente in Brasile dove ha mostrato di essere capace di reinfettare chi già aveva contratto Sars-CoV-2, come testimonia uno studio da poco pubblicato su Science.

“In Europa P.1 non è esplosa, ma le cose potrebbero cambiare più avanti. Sarà interessante vedere cosa accadrà in Israele, che sta riportando alcuni casi di reinfezione da variante sudafricana (B.1.351) in individui vaccinati. Bisogna capire se avranno impatto significativo su Rt. Per ora in Israele la curva delle infezioni è in calo, ma bisognerà monitorare”.

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