Quattro atlete italiane, sorridenti e con il tricolore come sfondo: è questa la foto, diventata virale da qualche giorno, che sta facendo discutere il web. Il motivo? Le atlete in questione sono sì italiane ma provenienti da varie parte del mondo. Raphaela Lukudo, Maria Benedicta Chigbolu, Libania Grenot e Ayomide Folorunso sono le vincitrici della staffetta 4x400 negli ultimi Giochi del Mediterraneo che si sono tenuti quest’anno a Tarragona, in Spagna, con un tempo di 3 minuti, 28 secondi e 10 decimi. Ognuna di loro rappresenta una storia diversa d’integrazione, dalle seconde generazioni al matrimonio, che dimostra come il mondo dello sport stia cambiando, percorrendo la via della multiculturalità.
La più conosciuta a livello nazionale è Libania Grenot, di origine cubane ma italiana per matrimonio. Nata anche lei fuori dall’Italia, Ayomide Folorunso si è trasferita a Fidenza nel 2004, rimanendo affascinata, come racconta in alcune interviste, dalle neve candida che cadeva in quei giorni. Di origini nigeriane, “Ayo” ha sfiorato per un soffio la possibilità di partecipare nel 2013 ai Mondiali di atletica under 18 poiché il passaporto italiano le è stato consegnato solo dopo l’evento. Figlie di seconda generazione, Raphaela Lukudo e Maria Benedicta Chigbolu: la prima è nata ad Aversa da una famiglia originaria del Sudan, mentre la seconda è romana con padre nigeriano.
Alla vittoria sono seguite anche diverse dichiarazioni che hanno posto ai lati della bilancia le atlete e le posizione dell’attuale governo sul tema dell’immigrazione. “Io non sono diversa, - ha commentato Maria Benedicta Chigbolu, intervistata da Repubblica - sono italiana e basta. Fa piacere essere considerata un simbolo di integrazione, ma nello stesso tempo dico che non ci dovrebbe essere alcuna attenzione sul colore della nostra pelle. Tutto questo nel 2018 non dovrebbe neanche notarsi”. Libania Grenot dichiara di essere disponibile a un incontro con il ministro Matteo Salvini dopo che quest’ultimo ha espresso la volontà di incontrare le atlete vincitrici.
Indipendentemente da come si concluda la vicenda, dobbiamo affrontare il fatto che la società di qualunque paese sta cambiando: mettendo in campo, nel vero senso della parola, un argomento pop, i Mondiali di calcio, che si stanno disputando in Russia in questi giorni, portano alla luce storie di integrazione, di rivincita e di solidarietà. Prima di focalizzarci su alcune di queste, è bene ricordare come in questo mondiale, il numero di calciatori che giocano in un Paese non d’origine è molto elevato. Germania e Francia sono state le portabandiera di questa integrazione: nel primo caso si tratta di calciatori turchi o polacchi, mentre per la squadra d’Oltralpe sono persone provenienti dalle ex colonie.
Quest’ultima nazionale ha attirato anche l’interesse della stampa grazie a un giocatore, Kylian Sanmi Mbappé Lottin. Considerato nel mondo calcistico come uno dei più grandi talenti della sua generazione, Mbappé nasce nel 1998 a Bondy, nei banlieue di Parigi e nello stesso anno in cui la Francia vinse per l’ultima volta il campionato mondiale di calcio. Pur provenendo da un contesto difficile, Mbappé ha dichiarato al giornale francese Le Parisien: “La periferia mi ha trasmesso molti valori, in particolare l’educazione. Ci sono momenti difficili ma servono a essere forti, a rispettare le persone e a valutare le cose”. Oltre a ricevere il premio nel 2017 come miglior giocatore under 21 in Europa, Mbappé sta costruendo le basi per una carriera solida nel mondo calcistico, pur non dimenticando le proprie origini. Infatti, i 150mila che potrebbe ricevere per aver gareggiato in quest’ultimo mondiale saranno devoluti in beneficienza: “Non voglio soldi per giocare in nazionale”.
Una storia meno recente è quella che accomuna i giocatori della Svizzera: comunità kosovare e albanesi vivono da diversi anni nella Confederazione. La prima ondata si registra negli anni Sessanta; mentre la seconda è avvenuta a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, a causa dell’estrema povertà e della disoccupazione elevata che attanagliava l’ex Jugoslavia prima dello scoppio della guerra civile. Non a caso, infatti, possiamo notare che nella nazionale svizzera diversi cognomi appartengono a questa zona dell’Europa: Xherdan Shaqiri, Granit Xhaka, Valon Behrami, Blerim Džemaili, Haris Seferović, Mario Gavranović. Lo stesso allenatore, Vladimir Petković, è bosniaco naturalizzato svizzero. Il rapporto tra Svizzera e Kosovo in particolare è stato costruito nel corso degli anni, attraverso aiuti umanitari ed economici, durante e dopo il conflitto. Nonostante questo, i problemi per le popolazioni kosovare, albanesi e bosniache ci sono stati, dai movimenti xenofobi al divieto di ricongiungimento con i propri familiari per i rifugiati arrivati nella Confederazione.
Altro caso eclatante è la nazionale del Marocco: ben 17 giocatori su 23 convocati sono nati in territori extra marocchini. Analizzando la squadra, troviamo che la maggior parte di questi sono nati in Francia e a seguire Paesi Bassi, Spagna, Canada, Brasile e Belgio. Questo è stato possibile grazie al fatto che il Marocco concede automaticamente la cittadinanza a un bambino con entrambi o solamente la madre di origine marocchina, lasciando così libero il giocatore di scegliere quale nazionale rappresentare.
Anche i calciatori svizzero-kosovari hanno annunciato, dopo l’entrata nel campionato del Kosovo, che avrebbero preso in considerazione l’idea di poter gareggiare con la “squadra d’origine”, anche se il regolamento Fifa non permette il cambio di nazione. È forse questo il futuro dello sport? Giocatori e atleti che decidono quale paese rappresentare in base al proprio sentimento e non più al luogo di nascita?