SOCIETÀ

Stati Uniti, l'incognita Trump trionfa alle primarie repubblicane

Donald Trump cavalca agevolmente, com’era prevedibile, l’onda gelida dell’Iowa e s’impone come dominatore unico del campo Repubblicano, mortificando gli avversari, costretti ad accontentarsi di percentuali irrisorie. I sondaggi l’avevano previsto: è lui, e non altri, il candidato forte, fortissimo, da spingere verso la Casa Bianca alle elezioni del prossimo novembre. Si voterà ancora altrove, fino a giugno (il prossimo appuntamento è il 23 gennaio, nel New Hampshire), ma lo schema ormai è svelato: Trump vincerà, e di gran lunga, ovunque gli elettori conservatori saranno chiamati a esprimere il loro candidato preferito, in questo antico rituale chiamato “caucus” (termine di origine indiana che vuol dire “incontro tra capi tribù”) dove iscritti e simpatizzanti esprimono la loro preferenza. Perfino Joe Biden, che nei giorni scorsi si era scagliato con veemenza contro Trump paragonandolo ai nazisti e definendolo «una minaccia per la democrazia», si è sentito in dovere di trarre già le conclusioni: «Sarà lui il mio sfidante. Ma attenzione: non possiamo correre il rischio che Trump guidi ancora il Paese». Un rischio assai concreto, soprattutto se nei prossimi mesi sarà confermato l’attuale assetto della sfida, con Biden e Trump nel ruolo dei contendenti. Il presidente uscente non ha buon vento nelle vele: il suo indice di gradimento è scivolato al 39% e in un’ipotetica sfida con Trump, stando ai sondaggi di oggi, sarebbe indietro di almeno quattro punti. Sondaggi che, naturalmente, vanno presi con le molle, come suggerisce anche la rivista di analisi economica Econotimes: «I sondaggi di gennaio sono storicamente inaffidabili». E anche Trump, nonostante lo straordinario sostegno popolare, ha ancora diversi macigni sulla sua strada, a partire dai 91 capi d’imputazione da cui dovrà difendersi in quattro differenti procedimenti giudiziari: dalla frode alla falsificazione di documenti, dalla sottrazione di documenti agli abusi sessuali, fino alla sovversione elettorale e all’insurrezione, che se sommati tutti assieme potrebbero in teoria portare a 712 anni di condanna.

La macchia dell’assalto al Campidoglio

Ma è proprio l’accusa d’insurrezione la vera spina nel fianco di Trump e dei suoi sostenitori. In oltre 30 stati sono state già intentate cause per valutare l’opportunità di escludere Donald Trump dal ballottaggio del prossimo novembre, proprio in virtù del ruolo che avrebbe avuto nell’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti, Capitol Hill, il 6 gennaio del 2021, quando aizzava i manifestanti con false accuse di brogli elettorali e li incitava a “combattere come dannati, a scatenare l’inferno”. Il comma 3 del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti prevede esplicitamente la “squalifica automatica” per chiunque abbia prestato giuramento in difesa della Costituzione e poi successivamente «abbia partecipato a un'insurrezione o ribellione contro di essa, o abbia dato aiuto o conforto ai suoi nemici». Avvisando che «soltanto il Congresso può, con un voto di due terzi di ciascuna Camera, rimuovere tale disabilità». I sostenitori di questa tesi sostengono che il tentativo di Trump di confutare l’esito delle elezioni del 2020, e il suo incitamento alla rivolta del 6 gennaio, soddisfino i criteri. Il 19 dicembre scorso la Corte Suprema del Colorado(con un voto al limite: 4 favorevoli contro 3) ha dichiarato Trump “ineleggibile per la presidenza” e lo ha formalmente escluso dalle primarie del Partito Repubblicano, in programma dal 5 al 9 marzo. Lo staff legale di Trump ha presentato immediatamente ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti: che valuterà il caso l’8 febbraio (ma per avere la sentenza potrebbe essere necessario aspettare alcuni giorni).

Un verdetto estremamente delicato: perché qualora fosse accolta la tesi dei giudici del Colorado, la sentenza della Corte Suprema avrebbe valore su tutto il territorio nazionale. E dunque decreterebbe per Trump l’impossibilità di correre nuovamente per la presidenza. Ipotesi che, al momento, appare improbabile: la Corte Suprema, con sede a Washington, ha una netta maggioranza conservatrice, peraltro con tre dei nove giudici nominati direttamente da Trump quando era presidente. Inoltre, i procuratori generali di 27 stati hanno presentato una memoria chiedendo alla Corte Suprema di respingere la sentenza del Colorado in quanto «creerebbe un caos diffuso». Perfino tra le fila dei Democratici non piace questa “via giudiziaria” per risolvere la sfida con Donald Trump. Come Marianne Williamson, scrittrice e attivista politica, candidata alle primarie democratiche, che ha dichiarato: «Non è stato condannato per il reato di insurrezione. Le persone che amano Donald Trump voteranno per Donald Trump. Potremmo incriminarlo altre 91 volte, potrebbe essere in prigione, la gente voterà per lui. Qualsiasi cosa facciamo per cercare di ostacolare Donald Trump, questo non è il modo in cui vinceremo nel 2024. Lo batteremo sulle questioni. Non picchiamolo in tribunale». O come Dean Phillips, altro candidato, tra i più critici verso Joe Biden: «Sono rimasto intrappolato nell'aula della Camera il 6 gennaio 2021. E posso dirlo ad alta voce: Donald Trump ha ispirato un'insurrezione. Tutti i miei colleghi al Senato e alla Camera lo sanno. Ma non penso che il Partito Democratico debba perseguire vie legali per battere Donald Trump. Dovremmo lasciare che gli elettori americani siano il giudice e la giuria».

Precipita il gradimento di Biden

E nell’altro campo, non è che Joe Biden se la passi meglio, con buona parte degli elettori democratici che si dichiarano “preoccupati” per la sua idoneità alla carica. Un sondaggio del mese scorso di YouGov per The Economistha rilevato che il 55% degli americani ritiene che la salute e l’età dell'81enne Biden “limitino gravemente la sua capacità di svolgere il lavoro” di presidente, compreso un 25% dei democratici. Solo il 24% degli americani vuole che si candidi di nuovo alla presidenza, mentre il 61% è contrario, compreso il 38% di coloro che hanno votato per lui nel 2020. «Joe Biden è un presidente davvero impopolare e questa insoddisfazione renderà piuttosto competitiva la resa dei conti nel 2024 con un avversario repubblicano», riassumeva pochi mesi fa il sito giornalistico Vox, che metteva in luce anche una netta perdita di appeal dell’attuale presidente tra gli elettori neri, ispanici e asiatici. Secondo Usa Today, Biden può contare oggi sul sostegno di appena il 63% degli elettori neri, un calo rovinoso rispetto all’87% che aveva nel 2020. Pochi giorni fa, in un’intervista al Guardian, il senatore progressista Bernie Sanders ha mandato un duro monito a Biden per questi ultimi, cruciali mesi di presidenza: «Dobbiamo vedere la Casa Bianca muoversi in modo più aggressivo sull’assistenza sanitaria, sulla casa, sulla riforma fiscale, sull’alto costo dei farmaci da prescrizione», ha dichiarato Sanders. «Se riusciremo a convincere il presidente a muoversi in quella direzione vincerà; in caso contrario non avrà possibilità». E a puro titolo di curiosità: un analista di JP Morgan ha pubblicato a inizio anno una serie di “previsioni” che potrebbero influenzare il 2024, da un punto di vista finanziario, ma non soltanto. Tra queste c’è anche il possibile ritiro di Joe Biden dalle presidenziali di novembre per “motivi di salute”: un ritiro che potrebbe avvenire dopo il Super Tuesday, il principale appuntamento pre-elettorale ché definirà con più esattezza la “griglia” di partenza delle presidenziali, con 16 stati al voto, il prossimo 5 marzo.

I prossimi mesi diranno se si tratta di suggestioni, speranze o timori concreti. Fatto sta che mai come in queste presidenziali americane, uno degli appuntamenti elettorali più importanti di questo affollato 2024, nessuno dei contendenti sembra al momento certo di potersi presentare al ballottaggio decisivo. Non Trump, per i motivi, soprattutto giudiziari, che ricordavamo prima: con i suoi due competitor, il governatore della Florida Ron Desantis e l’ex governatrice della South Carolina, Nikki Haley, che ancora sperano in un ribaltone. Ma nemmeno Biden, il più anziano presidente che gli Stati Uniti abbiano mai avuto (al termine di un eventuale secondo mandato avrebbe 86 anni) e, probabilmente, con una fragilità anche politica in progressivo aumento. E, soprattutto, senza che convincenti alternative siano ancora emerse nel panorama dei candidati democratici (oltre ai già citati Williamson e Phillips, c’è l’indipendente Robert F. Kennedy Jr., nipote del presidente John F. Kennedy e figlio del procuratore generale Robert F. Kennedy). E l’attuale vice, Kamala Harris, continua a non convincere appieno, anche se mai dire mai. Secondo l’Economist, «le possibilità di Joe Biden non sembrano buone. E i democratici non hanno un piano B». I prossimi mesi potrebbero regalare colpi di scena non da poco.

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