Foto: Guido Andolfato/Flickr
Un fiume, due identità. Proprio come il suo nome. Fino all’Ottocento era conosciuta come la Piave, molto più di un corso d’acqua per le popolazioni aggrappate alle sue rive, per poi adottare l’articolo maschile, indispensabile per sottolineare quello che sarà poi il suo tratto distintivo, cioè essere il “Fiume sacro alla Patria”.
Il Piave ha veramente due lati: uno, più docile, in cui si è sviluppato un notevole benessere economico, mentre il secondo, quello più buio, è costellato di conflitti, guerre mondiali, disastri ambientali e sfruttamenti. Per comprendere al meglio la complessità e la ricchezza di questo corso d’acqua, e quindi anche la sua storia, è necessario interrogarsi sul rapporto che il Piave ha con l’uomo, e viceversa. Tuttavia, un fiume non esisterebbe senza la sua sorgente e, come abbiamo già detto all’inizio, non potevano essercene che due.
Si stima che il Cadore e l’area circostante era ricoperta dal ghiacciaio Lapisino e dal suo scioglimento, tra i 30mila e i 20mila anni fa, si originò questo fiume. Da anni, due realtà dibattono sulla paternità della sorgente del Piave: la prima è il paese di Sappada, che nel 2017 è passato dalla regione Veneto a quella del Friuli Venezia Giulia; mentre la seconda è legata all’area veneta del Comelico, attraverso la Val Visdende. Non si tratta di puro e semplice campanilismo: nei primi anni Trenta il prof. Arrigo Lorenzi viene inviato dal CNR per porre fine alla questione. Dopo aver consultato numerosi fonti e visitato i territori, il professore ha stabilito che il ramo di Sappada è la vera sorgente del Piave. Come accennato poco fa, il comune di Sappada appartiene oggi al territorio friulano e non più veneto: questo cambio ha fatto sì che anche le sorgenti cambiassero regione, portando grande dispiacere ai veneti, legati storicamente, culturalmente ed economicamente al fiume. Tuttavia, nel 2019 l’esito del tavolo tecnico, voluto dal presidente della regione Veneto Luca Zaia e guidato dal professor emerito Luigi d’Alpaos, ha stabilito che le sorgenti sono ancora in territorio veneto, grazie al fatto che il Piave possiede più di una sorgente e che la maggior parte sia presente nella Val Visdende.
Archiviata la questione della sorgente, circa 220 chilometri più avanti troviamo la foce del fiume o, per rimarcare la complessità del corso d’acqua, le due foci. Fino alla metà circa del Seicento, la foce del Piave si trovava tra il lido di Jesolo e Cavallino ma già nel Cinquecento la Serenissima aveva tentato di spostare la foce più a nord, attraverso la Tajada de Re, per salvaguardare la laguna dalle numerose esondazioni e detriti ma l’intervento si rivelò inutile. Nel 1642 iniziarono i lavori per deviare il percorso del fiume ancora più a nord, costruendo l’Argine de Intestadura, un ulteriore canale artificiale. L’antico alveo del Piave fu utilizzato poi per far scorrere il fiume Sile. La piena del 1683, tuttavia, ruppe gli argini e il corso del fiume deviò ancora, verso la località di Cortellazzo (conosciuta ora come Laguna del Mort), mentre quella del 1935 spostò ulteriormente la foce, collocandola nella posizione attuale.
Second military survey of the Habsburg Empire 1818-1829, via Wikipedia
Dalla sorgente alla foce: gli interventi sul percorso del Piave sono stati numerosi nel corso degli anni. Più l’uomo tenta di “ingabbiarlo”, più il fiume si ribella, cosciente della sua forza. Le piene non sono una novità per le zone adiacenti al fiume: già nell'820, come riportato su alcuni scritti, la città di Feltre, in provincia di Belluno, fu spazzata via da una piena. Nei secoli successivi, furono registrati numerosi eventi di questo tipo dove intere aree vengono devastate, paesi divisi e ponti crollati. Non solo: il Piave fu anche suo malgrado coinvolto nel disastro del Vajont del 1963, investito dall’onda che distrusse i paesi di Erto, Casso e Longarone, a cui si aggiunge la piena del 1966, evocata ancora oggi da molti veneti, dove fango e detriti si abbatterono nei territori adiacenti al fiume, da Nervesa della Battaglia a Zenson di Piave.
Un fiume turbolento e difficile da gestire. Tuttavia, non dobbiamo considerare il Piave come un problema che attraversa tre province del Veneto (Belluno, Treviso e Venezia): il suo contributo è stato fondamentale per la costruzione di un’economia stabile che, fino al secondo dopoguerra, erano pervase da arretratezza sociale, povertà e malattie. La rinascita economica e sociale iniziò lentamente, anche a causa di numerose questioni ancora irrisolte: la gestione del fiume, la presenza della malaria e la questione dell’emigrazione, una caratteristica presente in tutta la regione. Prima di elencare le attività nate sulle sponde del Piave nell’ultimo secolo, è doveroso ricordare quali sono state le principali fonti reddito delle popolazioni nei secoli precedenti ed è naturale partire dagli zattieri. Già nella preistoria l’uso della zattera come mezzo di trasporto era comune, come testimoniano i reperti nelle zone del Piave e del Montello; in epoca romana erano i dendrofori ad occuparsi di questa attività, trasportando legname per la marina o le costruzioni pubbliche. Superate le invasioni longobarde e Carlo Magno, è durante il dominio di Venezia che si inizia a sfruttare a pieno l’attività degli zattieri che trasportavano legname dalle foreste del Cadore fino alla laguna di Venezia. Nel 1492 viene anche regolamentata la navigazione con le zattere e nei successivi anni la Serenissima organizza diversi sistemi per facilitare il trasporto, come la costruzione di numerose segherie per far arrivare in città il legno già lavorato. Alla fine del Settecento, si contavano circa 350mila tronchi trasportati ogni anno, coinvolgendo anche diverse figure professionali, dai boscaioli agli operatori nelle segherie, ai menadas (che indirizzavano tronchi nei punti di raccolta o nelle segherie). Le zattere trasportavano anche altro materiale che veniva prodotto nelle zone adiacenti al percorso fluviale come carbone, pietre, lavorazioni in ferro, arenaria etc. Con l’avvento del trasporto su strada e ferroviario, la fluitazione venne utilizzata molto meno, fino a scomparire definitivamente poco prima della metà del Novecento.
Nonostante questo, l’economia che si è sviluppata sulle sponde del Piave ha contribuito nella creazione del mito del Nordest, nato dall’incessante sfruttamento del corso per alimentare i moltissimi impianti di energia idroelettrica. Secondo gli esperti, a causa degli interventi dell’uomo e non solo, il 90% del Piave non scorre nel suo letto originario.
L’estrazione di ghiaia, conosciuta anche come l’oro bianco, e di materiale inerte è stata per anni una delle attività più redditizie della zona del Piave. in particolare della provincia di Treviso, che ha letteralmente modificato il letto del fiume, aggravando il rischio ambientale sul territorio. Da anni si sta cercando di arginare l’escavazione di questo piccolo “tesoro”: nel 1982 ci fu la prima legge che disciplinava le attività nelle cave a cui si aggiunge quella del 2018 dove predominano i principi del corretto uso delle risorse e della salvaguardia dell’ambiente, a dispetto del fabbisogno regionale dei materiali inerti (mai calcolato dalla Giunta regionale). Ma fortunatamente, nelle aree del Piave sono nate e cresciute numerose altre attività: basti pensare ai laboratori di occhialeria nella provincia di Belluno o all’industria del mobile veneto, fiorita grazie all’abbondanza delle risorse boschive, a cui si aggiunge la filiera della carta e della stampa con partenza da Feltre e arrivo a Venezia, contribuendo allo sviluppo dell’editoria nel capoluogo. E la lista continua, prendendo anche in considerazione il settore enogastronomico: il formaggio Piave DOP, il vitigno del Raboso oppure tutta la filiera del Prosecco DOC sono solo alcuni esempi.
Il Piave conserva dentro di sé mille aspetti diversi che corrono lungo il suo corso da nord a sud: Alessandro Marzo Magno, giornalista e scrittore, ha raccolto tutte queste sfaccettature dentro al suo lavoro Piave. Cronache di un fiume sacro (2018, Il Saggiatore). Ci siamo fatti raccontare quali sono gli aspetti che rendono il Piave un fiume davvero singolare.
Ciò che ha trasformato, tuttavia, il Piave da essere un corso d’acqua sconosciuto a Fiume sacro alla patria sono stati purtroppo gli avvenimenti accaduti in questa parte d’Italia durante la Prima guerra mondiale. A tutti suonano familiari le parole:
Il Piave mormorava
Calmo e placido, al passaggio
Dei primi fanti, il ventiquattro maggio.
La canzone del Piave, Ermete Giovanni Gaeta, 1918
È una reminiscenza, legata al periodo tra i banchi di scuola oppure ai racconti di qualche anziano parente, emblema dell’importanza di questo fiume durante gli anni del primo conflitto. La canzone del Piave è la testimonianza di come l’esercito italiano abbia resistito all’assalto delle truppe austriache e tedesche dopo la sconfitta di Caporetto, scegliendo il Piave e il Monte Grappa come ultime linee di difesa.
Nell’autunno del 1917, l’esercito italiano si stava ritirando sulla sponda destra del Piave: il 9 novembre si concluse l’operazione e vennero fatti saltare tutti i ponti, sperando in un arresto del nemico. Nello stesso giorno, il generale Armando Diaz prese il posto di Cadorna nella gestione delle operazioni. A livello storico, la battaglia del Piave viene divisa in tre azioni. La prima si svolse poco dopo il passaggio dell’esercito italiano, tra l’11 e il 12 novembre gli austriaci passarono il Piave all’altezza di Zenson ma furono contenuti, grazie anche alla scarsità dei materiali da ponte e la presenza delle divisioni anglo-francesi sul Mincio. La seconda battaglia, meglio conosciuta come quella del Solstizio, rappresenta uno degli scontri più intensi della Prima guerra mondiale, avvenuta tra il 15 e il 23 giugno 1918. Per quanto riguarda il fronte del Piave, il comando austriaco e tedesco aveva deciso di sferrare due attacchi: uno tra Valdobbiadene e Nervesa della Battaglia e l’altro tra le Grave di Papadopoli e Musile. Pur avendo in suo possesso buona parte del Montello, l’azione avversaria non riuscì a concludersi, lasciando l’esercito austro-germanico chiuso tra il fuoco italiano e il Piave in piena. Nella notte del 24 giugno la destra del fiume era libera. La terza battaglia, nota come la battaglia di Vittorio Veneto, si svolse a cavallo tra l’ottobre e il novembre del 1918 e concluse le azioni belliche sul fronte italiano. Pur avendo resistito in un primo momento all’offensiva italiana, sia sul Piave che sul Monte Grappa, l’esercito nemico crollò a causa anche della disgregazione e delle tensioni politico-sociali del proprio impero. Il 3 novembre le truppe italiane raggiunsero Trento e Trieste e venne firmato l’armistizio di Villa Giusti, entrato in vigore alle ore 15 del giorno successivo. La guerra, tuttavia, creò enormi disagi ai paesi limitrofi al Piave: circa 600mila profughi, per non parlare della violenza e della distruzione che le popolazioni della sinistra Piave hanno dovuto affrontare durante l’assedio austriaco.
Più che una realtà a sé stante, il Piave viene considerato da sempre in relazione all’uomo, dai successi agli insuccessi. Ma non basta. Oggi il fiume vive una situazione delicata, dovuta ai numerosi interventi sia per arginare il suo corso che per trarne profitto: è necessario proteggere il fiume e la biodiversità che lo attraversa da nord a sud. È necessario ripensare allo sfruttamento idroelettrico della corrente, per evitare la carenza idrica, soprattutto in estate, o l’eccessiva portata che mette a rischio la sicurezza delle popolazioni rivierasche. È necessario rivedere la situazione delle opere civili presenti lungo il percorso, con criteri di sostenibilità ambientale. È necessario ricordare le sfortune umane che il Piave ha visto nel corso degli anni ma anche tutto ciò che ha contribuito a costruire la cultura di quelle zone, dagli antichi mestieri alle tradizioni spesso dimenticate. Bisogna prendersi cura del Piave e di tutte le sue anime, per continuare a guardare al futuro con fiducia.
TimeLapse Piave from Christian Manno on Vimeo.