SOCIETÀ
L’"inalienabile parte". La strana guerra in Ucraina, tra indifferenza e mistificazioni
È difficile dire cosa colpisca di più della crisi in Ucraina, se il disinteresse di una buona parte dell’opinione pubblica italiana o l’acquiescenza a una ventata di disinformazione (dezinformtsiya, il lemma originale è, guarda un po’, russo) che sa tanto da filoputinismo di riporto. L’indifferenza non è facile a spiegarsi. Leopoli, la vecchia Lemberg austro-ungarica, non è esattamente una landa esotica. È a dieci ore di auto da qui, due di meno della tanto amata Praga, dove il medio turista italofono era solito spendere le settimane pasquali all’epoca dei viaggi pre-pandemia. E, dettaglio non irrilevante, a un tiro di schioppo dai confini dell’Unione Europea. La fascinazione per il Piccolo Padre attualmente al Cremlino, in compenso, è smaccata, stridula e ideologicamente trasversale. Testate specializzate in analisi strategiche e siti pacifisti hanno indefessamente intonato il peana dell’appeasement partendo da due presupposti convergenti, anche se non esattamente convincenti. Uno: la guerra non si farà, perché non conviene (l’ha ripetuto Analisi Difesa nell’editoriale del 18 febbraio) e in ogni caso, il “reiterato allarmismo americano” è solo “propaganda tesa a spezzare i legami tra Russia ed Europa”. Due: i russi hanno comunque già vinto la contesa strategica con la declinante potenza statunitense, a che pro scatenare una guerra? (“Atlante delle guerre”, editoriale del 16 febbraio). Evidentemente, non occorre lavorare a Russia Today per trovare seducente l’uomo forte.
Poi Putin parla alla Madre Russia a reti unificate e ricorda che l’Ucraina non esiste, è tutto un equivoco causato dai pasticci alle frontiere combinati dalla creazione dell’Unione Sovietica (“modern Ukraine was entirely created by Russia or, to be more precise, by Bolshevik, Communist Russia…”, la trascrizione ufficiale in inglese del discorso del 21 febbraio è qui). Macché stato sovrano o nazione a sé, l’Ucraina è “una parte inalienabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale”. Non è la prima volta che lo sostiene, naturalmente. Bisogna essere molto cocciuti o molto disonesti per non ricordare che è almeno dall’estate scorsa che il presidente della Federazione russa va declamando la (sua) verità storica, rammentando che Russi e Ucraini sono un popolo, una cultura, una nazione. Forse non basterà nemmeno questo, forse ci vorranno veramente i cingoli dei carri armati che arrivano al Dnepr, per ammettere che i parametri costo/benefici degli europei post 1945, demilitarizzati culturalmente e inorriditi alla visione della morte, non valgono esattamente per tutti. In ogni caso, pare utile cercare di uscire dal mare della disinformazione, negligente o partigiana che sia, e provare a riassumere in pillole (approssimative) radici e dinamiche della crisi ucraina. Giovanni Cadioli, un PhD in storia sovietica a Oxford, docente all’Institut d’études politiques de Paris (SciencesPo) e assegnista di ricerca al dipartimento SPGI dell’Università di Padova, ha risposto ad alcune questioni che possono fornire una prima mappa per orientarsi.
Perché il controllo dell’Ucraina è così vitale per Putin?
La crisi Ucraina è scoppiata non nel 2014 o nel 2021, ma nel 2004, l’anno della cosiddetta “Rivoluzione Arancione” che ha visto la salita al potere del “filo-occidentale” Viktor Yushchenko. Putin non ha mai voluto “rifare l’Urss”. Nel 2005 ha definito la caduta dell’Unione sovietica la “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, non perché con essa venne ammainata la bandiera rossa, ma perché “decine di milioni dei nostri concittadini e compatrioti [i.e. russi] si sono trovati a vivere al di fuori dei margini del territorio russo”. Putin vuole mantenere un forte potere indiretto sulle ex Repubbliche sovietiche. Allo stesso tempo il Cremlino ha posto crescente enfasi sulle minoranze russe in queste nazioni e le ha utilizzate per ottenere detto potere. L’Ucraina è la chiave di volta di entrambi questi processi, ma fin dagli anni ’90 si è rifiutata di accettare un forte legame con la Russia (non ha mai ratificato la sua partecipazione alla Comunità degli Stati Indipendenti, non ha mai aderito all’organizzazione di mutua sicurezza capeggiata da Mosca, l’Organizzazione del Trattato Collettivo di Sicurezza, e non ha nemmeno aderito all’Unione Economica Eurasiatica voluta dal Cremlino).
Nel 2004 al secondo turno delle presidenziali ha prevalso il candidato “filo-russo” Viktor Yanukovych, ma accuse di brogli e un ampio movimento di protesta hanno portato ad una nuovo ballottaggio, nel quale ha prevalso ampiamente Yushenko. Da allora il Cremlino ha temuto che la geopoliticamente strategica Ucraina – la seconda più popolosa ex Repubblica Sovietica – potesse definitivamente puntare all’integrazione euro-atlantica. Questo per Mosca comporta minacce militari e soprattutto politiche che Putin considera inaccettabili. La “Rivoluzione Arancione” è stata percepita da Mosca come il risultato di una intromissione negli affari ucraini delle potenze occidentali e quindi come un atto ostile.
Negli anni successivi, Mosca ha tentato la strada del consenso per attrarre a sé l’ex “Repubblica sorella”, vedendo vittorioso il proprio candidato Viktor Yanukovych alle presidenziali ucraine del 2010. Il tentativo di barcamenarsi tra integrazione europea e pressioni russe di Yanukovych è naufragato però quando nel 2014 ha imposto una brusca inversione di rotta alla politica estera, sospendendo la firma dell’Accordo di Associazione tra l'Ucraina e l'Unione Europea e dichiarando l’intenzione di avvicinarsi all'Unione Economica Eurasiatica. Le proteste sorte immediatamente dopo l’annuncio di tale decisione sono state represse violentemente, ma alla fine hanno portato al rovesciamento e alla fuga di Yanukovich, innescando la crisi del 2014, con l’annessione della Crimea e lo scoppio delle rivolte (istigate e protette da Mosca) nei territori separatisti del Donbass.
Queste azioni russe, ovviamente offensive, vanno lette nel più ampio panorama strategico nel quale la leadership putiniana crede di agire. Uno scacchiere sul quale la Russia è messa sulla difensiva dagli anni ’90, relegata dall’Occidente al ruolo di potenza minore.
Al Cremlino vivono dunque la sindrome dell’Einkreisung, dell’ “accerchiamento”, per usare il termine che descrive la paranoia tedesca di essere stritolati tra Francia e Russia nel 1914.
Il conflitto russo-georgiano del 2008 e le azioni di Mosca del 2014-2015 in Ucraina sono state oggettivamente aggressive, ma non nella mentalità del Cremlino. Per Mosca era legittima difesa: non si stava conquistando ma riprendendo un ruolo dominante nel cosiddetto “vicino estero”, i territori dell’ex Unione sovietica, che Mosca non ha mai cessato di considerare sua zona di influenza.
Anche adesso la leadership russa si considera accerchiata e minacciata dalla NATO e quindi vede le sue azioni come reattive, non offensive. Allo stesso tempo, imponendo di nuovo il proprio ruolo egemone in Bielorussia, in Armenia, in Kazakhstan, la Russia ha anche messo in atto processi più ampi. Mosca sta diventando a tutti gli effetti una potenza “revisionista”, nel senso che punta ad un’alterazione fondamentale dell’ordine internazionale (e concreta prova ne sono le azioni politiche e militari russe in America Latina, in Siria, Iran e Iraq e in Africa). In questo la Russia ha trovato un alleato di comodo, ossia la Cina. Queste due nazioni stanno cementando un’alleanza interamente tattica, volta a sfidare il dominio globale statunitense.
Quanto conta nella strategia di Putin l’uso della guerra come strumento di consenso interno?
La retorica nazionalista putiniana è stata un grande elemento di consenso per il regime del Cremlino. In un certo senso Putin è salito al potere a inizio millennio con l’idea di “make Russia great again”. Il tema delle minoranze russe o russofone nell’ex Urss evoca forti sentimenti in ampi strati dell’opinione pubblica russa, la cui maggioranza rimpiange da sempre la caduta dell’Urss. Ecco perché il Cremlino ha fatto sapiente uso della retorica nazionalista e primitivista rispetto alla “Russia immortale” che da sempre esiste e sempre esisterà, unita da forti continuità nelle sue diverse fasi storiche (Impero russo, Unione sovietica, Federazione russa). Questa retorica è ovviamente una grossolana semplificazione e il costante mantra della leadership putiniana (“evoluzione, non rivoluzione”), è volto a rafforzare il proprio potere. Per questo, Putin ha condannato tanto la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, quanto lo scioglimento dell’Urss del dicembre 1991: non c’é niente di ideologico in questa affermazione (nel senso che Putin non guarda “da sinistra” o “da destra” a questi eventi), ma allo stesso tempo tali affermazioni sono anche invece intrinsecamente politiche, nel senso che Putin usa questa retorica della continuazione — così come il sincretismo simbolico che mette insieme aquile bicefale e stelle rosse, icone ortodosse e la falce e martello — per supportare il suo programma politico: statalismo, centralizzazione del potere e dominio autoritario.
La retorica della continuazione è un ulteriore elemento che permette a Putin di denunciare lo smembramento della “Russia storica”, che recentemente è arrivato addirittura a identificare con l’Unione sovietica tutta (e quindi con l’ex Impero zarista). Lo slogan “una nazione, un popolo, una storia” riassume la sua prospettiva revisionista e allo stesso tempo ipernazionalista. La sovranità delle ex repubbliche sovietiche può essere accettata solo e soltanto se fortemente asservita all’interesse nazionale russo (come in Bielorussia). Una retorica revanscista, correlata a un sistematico «mostrare i muscoli” con azioni militari, che garantisce poderose impennate nel consenso personale di Putin.
C’è, nella politica putiniana, un’ossessione del contagio da democrazia?
In effetti, il problema per Mosca è molto più politico che militare. È naturale che un’eventuale associazione di Kiev all’Alleanza Atlantica e il dispiegamento di forze americane sul suo territorio costituirebbero in via teorica una minaccia. Allo stesso tempo, la Russia possiede una tra le tecnologie missilistiche più avanzate al mondo ed è chiaramente (sebbene temporaneamente) più avanti degli Usa nello sviluppo di armi ipersoniche. Le sue forze convenzionali sono tornate tra le più potenti al mondo e sul continente europeo non hanno nemmeno lontanamente rivali. La Russia è ben difesa e ben armata.
Ecco quindi perché, pur non sminuendo la razionalità militare dell’attuale crisi creata ad arte dal Cremlino in Ucraina, bisogna considerare l’elemento politico. La Russia ha vissuto una breve stagione democratica (nel senso di liberal-democrazia occidentale) a inizio anni ’90. Con l’ascesa di Putin, i barlumi di democrazia esistenti si sono spenti. Un’Ucraina euroatlantica, liberal-democratica, attiva partecipante dei processi politici e di integrazioni europei è una minaccia ben più seria di una batteria di missili cruise Tomahawk americani a Kiev. Non a caso, le recenti proteste in Bielorussia, seguite agli sfacciati brogli elettorali che hanno favorito l’eterno presidente Lukashenko, hanno enormemente preoccupato Mosca. La risposta del Cremlino è stata la proposta/minaccia di inviare truppe in “aiuto” per pacificare la situazione e il definitivo di Lukashenko. In un possibile “contagio democratico” proveniente dall’Ucraina, che potrebbe riaccendere le proteste anti-governative russe, Putin intravede con orrore due fenomeni fortemente interrelati: la possibilità della sua cacciata e della riapertura di processi disgregativi in diverse periferie dell’enorme Federazione russa, che potrebbero portare alla sua parziale disintegrazione.
Si possono interpretare le scelte di Putin secondo un’analisi costo / benefici razionale?
A più riprese, nel 2008 e poi nel 2014-2015, molti analisti occidentali hanno minimizzato i rischi di una guerra aperta perché i costi di tale azione per la Russia sarebbero stati troppo elevati, a fronte di conquiste parziali ed esse stesse foriere di nuove spese, più che guadagni (quali la gestione e modernizzazione della Crimea dal 2015 ad oggi). Eppure i Russi hanno attaccato, sia nel 2008 in Georgia che nel 2014-2015 in Ucraina. L’intervento militare Russo in Siria del 2015 enormemente dispendioso e causa di un ulteriore aumento della conflittualità est-ovest, ha “risolto” la questione per Putin: Assad è saldo al comando e ci resterà finché la Russia lo vorrà.
Immaginare che i soli costi economici di un’invasione del’Ucraina possano far propendere la Russia per una de-escalation è semplicistico. L’economia russa è in crisi, e non da oggi, il malcontento popolare per le continue condizioni di vita in peggioramento è un dato effettivo (e preoccupante per il Cremlino) e le sanzioni economiche che seguirebbero una aperta invasione dell’Ucraina sarebbero pesantissime. Allo stesso tempo, questi calcoli non sono prioritari nel più ampio schema militare e politico della leadership russa.