Sembra una questione marginale, ma non è così. La proposta di messa al bando negli Stati Uniti della celeberrima piattaforma social made in China TikTok, che ha già incassato il voto ampiamente favorevole della Camera dei Rappresentanti e che ora attende il via libera definitivo dal Senato, è a tutti gli effetti una controversia politica di rilevanza internazionale. Che avrà ripercussioni sia sui rapporti, già poco distesi, tra Washington e Pechino, sia sulla postura di altre nazioni rispetto al “potere” sempre più invasivo dei social. La questione centrale riguarda la sicurezza, la protezione dei dati “sensibili” degli utenti iscritti: cronologia di navigazione, posizione, identificatori biometrici (come i sistemi di riconoscimento facciale o delle impronte digitali). Nello specifico, secondo l’FBI e la Federal Communications Commission, non c’è garanzia alcuna che quei dati non vengano regolarmente “condivisi” dall’azienda che controlla TikTok, ByteDance (fondata nel 2012, con sede legale alle isole Cayman e con uffici sia in Europa, sia negli Stati Uniti), con il governo cinese. Perché alla fine, nonostante le rassicurazioni di corretta condotta, in assenza di controprove bisognerebbe “fidarsi”: e non è certamente questo il caso. A sostegno dei sospetti, gli americani sbandierano la legge imposta dalla Cina nel 2017 che obbliga le aziende statali a fornire al governo di Pechino “tutti i dati personali rilevanti per la sicurezza nazionale del paese”. E qualora il Partito Comunista Cinese avesse libero accesso ai dati degli utenti di TikTok, si configurerebbe un potenziale rischio per la sicurezza nazionale (in questo caso degli Stati Uniti, ma il discorso riguarda chiunque), con possibili azioni di disinformazione, costruzione di fake news e operazioni di manipolazione dell’opinione pubblica a tutto vantaggio degli interessi economici e politici della Cina. Non è fiction: per ottenere risultati del genere basta poter accedere al codice sorgente dell’algoritmo che stabilisce l’ordine di apparizione dei contenuti. E costruirne di “fasulli” è ancor più semplice. Per non parlare delle innumerevoli potenzialità di manipolazione di video e immagini, attraverso deepfake elaborati grazie ai programmi basati sull’Intelligenza Artificiale. Di contro, non c’è al momento alcuna prova tangibile che TikTok abbia effettivamente violato la privacy dei suoi utenti. Per avere un’idea della mole dei dati in questione: soltanto negli Stati Uniti il social, focalizzato nella condivisione di brevi video, ha più di 170 milioni di utenti attivi. A livello globale gli account attivi mensili sono oltre un miliardo, mentre complessivamente il numero di account registrati sono all’incirca 1,7 miliardi. La app, dal 2016, anno del suo “rilascio” sul mercato, ha ottenuto più di 4 miliardi di download (qui qualche altra curiosità statistica).
La sede del Congresso degli Stati Uniti a Washington
Furto sistematico di dati sensibili
Sulla trasparenza di TikTok, e soprattutto su quel che accade dietro le sue quinte, ci sarebbe molto da opinare e da “illuminare”. La notizia trapelata nel dicembre 2022, del licenziamento di quattro dipendenti di ByteDance che avevano avuto accesso ai dati di navigazione di due giornaliste, una del Financial Times, l’altra di BuzzFeed News, ha di fatto confermato i sospetti della Federal Bureau of Investigation sui potenziali rischi derivanti dall’utilizzo fraudolento di quell’enorme mole d’informazioni che, in cambio dell’utilizzo dell’app, finiscono nelle disponibilità di chissà chi. Successivamente è stato confermato che anche alcuni giornalisti di Forbes erano stati spiati. A quell’epoca il direttore dell’Fbi, Christopher Wray, in occasione di un discorso tenuto all’Università del Michigan, aveva dichiarato: «I dati provenienti da questa app potrebbero finire nelle mani di un governo che non condivide i nostri valori e che ha una missione che è molto in contrasto con ciò che è nel migliore interesse degli Stati Uniti. E questo dovrebbe preoccuparci. Il governo cinese ha mostrato la volontà di rubare i dati degli americani su una scala che fa impallidire qualsiasi altra», ha sottolineato Wray. Era il dicembre del 2022. Pochi mesi prima, a giugno di quell’anno, TikTok aveva annunciato che i dati di tutti i clienti americani erano stati spostati, proprio per evitare “sospetti”, sulla piattaforma cloud di Oracle (società americana). Nel marzo 2023 il Ceo di TikTok, Shou Zi Chew, in un’udienza al Senato americano, aveva negato con fermezza il fondamento delle accuse: «ByteDance non è di proprietà o controllata dal governo cinese. È un’azienda privata». Evidentemente quella rassicurazione non è bastata. E ora gli Stati Uniti hanno deciso che era giunto il momento di fare un deciso passo in avanti, concreto, definitivo, nonostante lo stesso Shou abbia prospettato il rischio della perdita di 300mila posti di lavoro in caso di divieto, con danni miliardari per tanti piccoli imprenditori digitali, che sulla pubblicazione su TikTok dei loro contenuti hanno costruito la loro fonte di guadagno.
Il “Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act”, così si chiama il disegno di legge in questione, è stato approvato la scorsa settimana dalla Camera dei Rappresentanti con un sostegno bipartisan, ricevendo 352 voti a favore e appena 65 contrari. Nel testo si chiede espressamente allo sviluppatore cinese, ByteDance, di disinvestire, di vendere le sue quote del social network “entro 6 mesi”. In caso contrario l’app sarà “espulsa” dagli store e vietata in tutto il territorio degli Stati Uniti. L’ultima parola spetta ora al Senato: se anche dalla Camera “Alta” dovesse arrivare un sì, la norma diventerà legge. Ma attenzione: l’approvazione, a oggi, appare tutt’altro che scontata. Ci sono resistenze, dubbi e perplessità in entrambi gli schieramenti. «Il nostro problema non si chiama soltanto TikTok: abbiamo un problema di privacy con le Big Tech», ha scritto su X il senatore democratico Ed Markey, prendendo l’occasione per sostenere la sua proposta di legge (il “Children’s Online Privacy Protection Act”) per tutelare la privacy online per i bambini. «Da Meta ad Amazon, le aziende di proprietà degli Stati Uniti stanno depredando bambini e adolescenti a scopo di lucro. Vietare TikTok non correggerà le loro pratiche invasive». Il leader della maggioranza in Senato, il democratico Chuck Schumer, non ha lasciato trapelare orientamenti di voto: «Il Senato - ha dichiarato senza alcuna enfasi - esaminerà la legislazione quando arriverà dalla Camera». Partita ancora aperta, dunque.
La rabbia di Pechino e l’opportunismo di Trump
Il governo di Pechino, alla notizia dell’approvazione del disegno di legge alla Camera dei Rappresentanti, ha reagito male. «Gli Stati Uniti si stanno mettendo sul lato opposto del principio della concorrenza leale e delle regole economiche e commerciali internazionali», ha dichiarato, piccato, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin. Forse dimenticando che ancora oggi la maggior parte delle app americane (Google, YouTube, X, Instagram e Facebook) sono bloccate in Cina perché si rifiutano di seguire le regole di censura imposte dal governo cinese sul tipo di contenuti condivisi. Il ministero del commercio cinese ha invece annunciato che «la Cina si opporrà fermamente a qualsiasi ipotesi di vendita forzata di TikTok», poiché «danneggerebbe seriamente la fiducia degli investitori globali negli Stati Uniti». Oltretutto, anche qualora passasse la legge e ByteDance decidesse di vendere le sue quote, avrebbe comunque bisogno di un “via libera” dal governo di Pechino, pressoché impossibile da ottenere. E poi vendere: ma a chi? A una società americana? L’ipotesi appare inverosimile. Mentre resta il sospetto che dietro la demonizzazione del social cinese si nascondano interessi concreti da parte dei “colossi” concorrenti, come Google e Facebook, che in caso di “messa al bando” di TikTok avrebbero solo da guadagnare.
L’argomento, peraltro, sta diventando anche materia di scontro nella campagna elettorale americana (a novembre ci saranno le presidenziali). Il presidente Joe Biden è favorevolissimo all’approvazione del testo («Portatemi la legge e la firmerò»). Mentre Donald Trump, che pure in passato, proprio quando era presidente, aveva firmato un ordine esecutivo per vietare TikTok a meno che non fosse stato acquisito da una società americana, sostenendo che “il governo cinese stava utilizzando il servizio di condivisione video per sorvegliare milioni di americani”, ha improvvisamente cambiato idea, fiutando evidentemente un rapido e “gratuito” tornaconto elettorale: «Ci sono molte persone su TikTok che lo adorano, molti ragazzini che impazziranno senza», ha dichiarato alla Cnbc. Un eventuale divieto di TikTok negli Stati Uniti potrebbe inoltre avere ripercussioni non soltanto sull’utilizzo della specifica app nelle altre nazioni, ma sull’intera regolamentazione dei social media. Come ha recentemente spiegato alla Cnn Georgios Samaras, docente di politiche pubbliche presso il King’s College di Londra: «Un divieto sarebbe una mossa politica audace che potrebbe interessare non solamente TikTok, ma anche le altre piattaforme di social media in ogni angolo del mondo». Va anche segnalato che i timori, e i sospetti, nei confronti del social cinese non sono un’esclusiva degli Stati Uniti. TikTok è già stato bandito dai dispositivi governativi in diverse nazioni occidentali, a partire da quelle che compongono la cosiddetta alleanza “Five Eyes” (i “cinque occhi”: Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e gli stessi Stati Uniti). La app è inoltre stata “bannata” in India, in Nepal e a Taiwan. E, per “diffusione di contenuti immorali”, anche in Pakistan e in Afghanistan. L’Unione ha vietato l’uso dell’app sui telefoni di lavoro del suo personale, sempre per questioni di sicurezza. TikTok ha promesso che entro la fine del 2024 i dati dei circa 150 milioni di utenti europei resteranno in Europa, conservati in Europa, in tre datacenter: due in Irlanda e uno a nord di Oslo, in Norvegia.