Vi sono parole che ricorrono nell’uso collettivo senza che sempre se ne abbia chiaro il significato. Nel caso del non si sa quanto lungo momento che si sta vivendo in seguito all’incalzare del coronavirus (Covid-19) si tratta di epidemia e pandemia. Provo a verificare le mie conoscenze tramite un’enciclopedia di uso ricorrente quale Wikipedia e leggo: “Una pandemia (dal greco pan-demos, "tutto il popolo") è una malattia epidemica che, diffondendosi rapidamente tra le persone, si espande in vaste aree geografiche su scala planetaria, coinvolgendo di conseguenza gran parte della popolazione mondiale, nella malattia stessa o nel semplice rischio di contrarla. Tale situazione presuppone la mancanza di immunizzazionedell'uomo verso un patogeno altamente virulento. Nella storia umana si sono verificate numerose pandemie.”
Ma, mi chiedo, deve essere per forza una malattia?
Allora vado avanti e dalla stessa fonte ricavo che “Si definisce epidemia (dal greco epì-demos“sopra il popolo, sopra le persone”) il diffondersi di una malattia, in genere una malattia infettiva, che colpisce quasi simultaneamente una collettività di individui, ovvero una data popolazione umana, con una ben delimitata diffusione nello spazio e nel tempo, avente la stessa origine”.
Sembra, dunque, che entrambe le parole siano legate a malattie e al loro diffondersi. Sembra, ma non è detto che si possa parlare di epidemia e poi di pandemia solo in presenza di una malattia nel senso medico del termine.
Tuttavia le pandemie della storia sono tutte legate a situazioni del genere. Peste, influenza spagnola, SARS, “influenza” suina e ora coronavirus, sono i casi che vengono continuamente ricordati da febbraio 2020. Sono richiami importanti che servono a sottolineare la gravità del momento che il Pianeta Terra sta affrontando da quando l’epidemia che sembra nata in Cina nel focolaio della città di Wuhan nella provincia dell’Hubei, si è andata diffondendo sino a coinvolgere la popolazione dei cinque continenti: dove più, dove meno, ma tutti.
E serve anche a sottolineare le personali responsabilità di ciascuno di noi e come i personali comportamenti moltiplicati per il numero dei coinvolti possano intervenire, nel bene e nel male.
Così è e così deve essere. Ma se, come mi sembra necessario e direi scientificamente corretto, usciamo dal contesto strettamente e rigorosamente medico, e diamo ai termini epidemia e pandemia il loro significato applicandolo ad altre situazioni comunque coinvolgenti il genere umano, diamo il peso che meritano ad eventi di eccezionale importanza che il momento rischia di far cadere in secondo piano se non nel momentaneo (?) dimenticatoio: fame, mutamenti climatici, sete.
Ecco: la sete. In un pianeta, la Terra, che è costituita di acqua per il 70per cento della superficie e abitato da 7,8 miliardi di persone il cui corpo è per altrettanti tre quarti costituito di acqua, la sete corre il rischio di diventare una pandemia.
Ce lo ricorda in qualche modo il 22 marzo. Domenica 22 marzo quando, come ogni anno, si celebrerà la giornata mondiale dell’acqua. Una ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 1992 nell’ambito dell’agenda 21 della conferenza di Rio de Janeiro: cioè delle cose da fare (agenda) per il XXI secolo. Al momento, e sono passati 28 anni, più che di cose da fare è possibile registrare, puntuale ogni 22 marzo, l’elenco dei problemi irrisolti.
Generalmente si parte dalla considerazione che il nostro pianeta si chiama Terra, ma si dovrebbe chiamare acqua considerando che è questa la sua massima componente. Poi si passa a precisare che questa componente è costituita nella quasi totalità dalle acque (salate) di mari e di oceani e che “solo” un 5 per cento (4,5 milioni di miliardi di metri cubi) è l’acqua potabile. Si aggiunge che vi sono Paesi dove l’acqua si spreca e altri, nei quali vivono almeno un miliardo di persone, dove ce n’è pochissima. Sino ad arrivare a ripetere ormai dal 1995 (lo ha fatto per primo Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca mondiale) che «se le guerre del ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del ventunesimo avranno come oggetto del contendere l’acqua». Poi, non mancano le osservazioni sugli sprechi nei consumi domestici e, ancor più, nel trasporto dell’acqua tramite una rete acquedottistica che ne perde molta per strada. Né si manca di ricordare che l’Italia è il paese europeo i cui abitanti bevono più acque minerali (generalmente in bottiglie di plastica) di tutti gli altri. Naturalmente ognuno di questi problemi viene ricordato con le possibili soluzioni e l’invito a intervenire. Con la tacita intesa che se ne riparlerà il 22 marzo dell’anno successivo. Perché, tanto, nei Paesi dove si celebra la ricorrenza di acqua ce n’è in abbondanza e ogni anno si rigenera attraverso quello che si chiama ciclo dell’acqua.
Poi, però, è intervenuta a scombinare tutto un’altra pandemia che è quella dell’incalzante mutamento climatico che interferisce pesantemente sul ciclo dell’acqua. Cioè sulla provata capacità dell’acqua di rigenerarsi ogni anno quasi sempre nelle stesse quantità.
Personalmente ho sempre ritenuto che il problema della disponibilità di acqua potabile sulla Terra sia stato affrontato in modo volutamente o involontariamente “gonfiato” rispetto alla realtà. Perché di acqua ce n’è tanta sul nostro pianeta e, sebbene esistente in quantità non incrementabili ma rinnovabili secondo un ciclo annuale, è comunque tanta. Tanta da poter soddisfare le esigenze degli attuali e futuri abitanti. Ho, però, anche sempre aggiunto che sprechi e inquinamento di questa preziosa risorsa, cioè comportamenti umani scorretti, possono compromettere questo vitale dono della natura.
Da un po’ di tempo, però, è necessario riflettere sul fatto che il problema debba essere affrontato in modo più preoccupante e meno ottimista di quanto i numeri consentirebbero di fare. Non solo perché sempre più spesso si parla e si scrive di rischio siccità, ma ancor più perché l’allarme è supportato da prove particolarmente valide e preoccupanti.
Le più recenti sono quelle che hanno interessato il progressivo assottigliamento delle riserve idriche della California dopo quattro anni di siccità; del Brasile sconvolto dalla più grave siccità degli ultimi 80 anni.
Perché tutto questo? La risposta è apparentemente banale: perché piove e nevica sempre meno. Già ma perché? Che cosa ha provocato la drastica riduzione delle riserve? Per fornire acqua potabile alle popolazioni? Non sembra questo il caso della California dove buona parte delle riserve è servita a manutenere i campi da golf, i numerosi grandi giardini e le piscine dei divi hollywoodiani e per altri sprechi enumerabili sprechi.
Peggio ancora per il Brasile dove ancora maggiori sono le responsabilità umane.
Qui, infatti, la continua deforestazione ha progressivamente limitato l’evaporazione e, di conseguenza, le piogge che fanno registrare precipitazioni inferiori per numero e quantità. Secondo Antonio Nobre climatologo dell’Istituto nazionale della ricerca spaziale del Brasile «il riscaldamento terrestre e la deforestazione dell'Amazzonia stanno alterando il clima della regione, riducendo in modo drastico il rilascio di miliardi di litri d'acqua da parte delle foreste pluviali. L'umidità che arriva dall'Amazzonia sotto forma di nuvole di vapore è tragicamente diminuita, e ha contribuito così alla devastante situazione che abbiamo oggi sotto gli occhi…distruggere la foresta per aumentare i terreni agricoli equivale a sparare a noi stessi.” Perchè certamente l’umanità ha bisogno dell'agricoltura, ma senza alberi non ci sarà acqua, e senz'acqua non ci sarà cibo.
Forse ancora più emblematico è il caso dell’Iraq di cui ha scritto Peter Harling (Quando la natura si ribella, “Internazionale” n.1346, 22 febbraio 2020). Perché l’Iraq nasce “da un’abbondanza d’acqua” come attesta il suo antico nome -Mesopotamia- che significa terra tra i fiumi. Questi fiumi –il Tigri e l’Eufrate- “scorrono impetuosi nelle vene dell’Iraq come una fonte inesauribile di vita, orgoglio e tradizioni”. Non più oggi quando la fornitura idrica è diventata sempre più precaria, “ma l’Iraq continua a consumare e inquinare come se non ci fosse un domani”. Per di più “l’ambiente sta contrattaccando. Temporali e alluvioni sempre più violenti sommergono le città e devastano le aree rurali del paese. Le tempeste di sabbia si moltiplicano e sollevano nuvole di polvere ocra che ricoprono gli edifici. Le siccità stagionali si prolungano. A volte anche per due o tre anni consecutivi”.
Questo è oggi il problema di cui i governanti del pianeta, ma anche i suoi governati, dovrebbero e dovranno farsi carico una volta usciti dalla attuale pandemia: il contrattacco dell’ambiente.
Perché se il mutamento climatico in atto si manifesta nelle sue potenzialità arriva sino a sconvolgere il naturale ciclo dell’acqua.
Lo diceva già il 22 marzo del 2006, in occasione –manco a dirlo- della giornata mondiale dell’acqua, un allarmato e allarmante rapporto delle Nazioni Unite sul progressivo assottigliamento della portata dei maggiori fiumi della Terra.
Proprio con riguardo a quanto prima dicevo circa la grande quantità di acqua esistente dovunque con l’invito a osservare un planisfero per rendersene conto, un passaggio mi sembra estremamente significativo, dove si dice che: «le cartine dell’atlante non corrispondono più alla realtà. Le vecchie lezioni di geografia, secondo cui i fiumi sgorgavano dalle montagne, ricevevano acqua dagli affluenti e finalmente sfociavano gonfi negli oceani sono ora una finzione».
Dunque quello che mi sembrava un realistico ottimismo circa la disponibilità di acqua dovunque va ridimensionato: acqua ce n’è dovunque, ma dovunque ce n’è sempre meno. E ce n’è sempre meno perché su tutta la Terra è stato enormemente modificato “l’ordine naturale dei fiumi”. L’umanità, si legge ancora in quel rapporto dell’ONU che ha immutata validità e ne avrà per tempo malgrado gli accordi di Parigi del dicembre 2015, «ha intrapreso un immenso progetto di ingegneria ecologica senza pensare alle conseguenze e al momento senza conoscerle».