CULTURA

Venezia 78: Martone e il film di cui avevamo bisogno

Se proprio dovessimo muovere una critica ai film in concorso a Venezia, potremmo dire che, fino a ora, non ci hanno dato proprio una botta di ottimismo: si spazia dal machismo tossico di The power of the dog, a una ragazza in fuga da un ospedale psichiatrico in un sottobosco urbano popolato da spacciatori e prostitute (Mona Lisa and the blood moon), alla principessa triste intrappolata in un mondo di convenzioni che la stanno spezzando (Spencer), passando per un uomo alla deriva depresso e fuori controllo (Sundown) fino ad arrivare ad altri intrecci che probabilmente sono il riflesso dei tempi incerti che stiamo vivendo: nulla da dire a livello artistico, ma forse mancano le atmosfere ironiche de La favorita, i sorrisi strappati da The laundromat e la leggerezza di The perfect candidate.

In quest’ottica, Qui rido io di Mario Martone era il film di cui avevamo bisogno. Non che faccia ridere: la pellicola racconta parte della vita di Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), un uomo di umili origini che riesce ad affrancarsi grazie al teatro e al personaggio di Felice Sciosciammocca, da lui creato e interpretato, che ha rubato il posto di Pulcinella nel cuore dei napoletani. Non fa ridere perché la comicità di inizio Novecento diverte ora una nicchia ristretta di appassionati della commedia napoletana, e anche perché, dietro l’opulenza delle scenografie, cogliamo qualcosa di vagamente tragico: Scarpetta ha costruito attorno a sé una corte familiare formata da moglie e nipoti con cui si trastulla, e che ogni tanto mettono al mondo figli illegittimi (come Peppino, Titina, e Eduardo De Filippo, che anni dopo lavoreranno insieme nella compagnia del Teatro Umoristico "I De Filippo", raccogliendo quello che hanno respirato durante l’infanzia lavorando fianco a fianco con quel padre-zio che si è sempre rifiutato di riconoscerli). Martone non finge di ignorare che questa situazione può generare anche sofferenza, ma si limita a suggerirlo abbastanza chiaramente perché tutti se ne accorgano, ma anche abbastanza sommessamente per non darci l’effetto di roccia sullo stomaco come hanno fatto gli altri film in concorso.

Non fa ridere, dicevamo, ma la pellicola ci ricorda che la vita può essere sofferta, ma anche goduta pienamente, almeno quel tanto che le circostanze permettono. Il film comincia quando Scarpetta è all’apice del suo successo: frotte di spettatori adoranti si contendono i biglietti dei suoi spettacoli, Miseria e nobiltà non manca mai di fare il tutto esaurito nei teatri, gli applausi fanno tremare cielo e terra e il suo entusiasmo per la vita è ben esemplificato dalla voracità con cui ingolla pizze e spaghetti: la bocca di Servillo non è mai stata così grande, e il suo sorriso mai così soddisfatto come in questa interpretazione, perché Scarpetta è un uomo realizzato che ha ottenuto tutto ciò che poteva desiderare, partendo dal successo per arrivare ai soldi e alle donne, che mantiene con tutti gli agi insieme ai loro figli. L’equilibrio si rompe quando decide di mettere in scena la parodia de La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio (qui interpretato da Paolo Pierobon). Anche se aveva chiesto il permesso al Vate, questi nel 1904 lo denuncia per plagio, dopo una rappresentazione in cui Scarpetta viene per la prima volta contestato dal suo pubblico o, per meglio dire, da una piccola parte di esso, cioè dai poeti dello stesso giro di D’Annunzio.

Il meccanismo narrativo è tra i più classici: un iniziale equilibrio viene turbato da un nemico; la vita serena dell’eroe subisce una battuta di arresto, ma lui combatte per arrivare a un nuovo equilibrio. La grandezza del film, però, non sta nell’intreccio, ma nella caratterizzazione dei personaggi: Scarpetta non è un eroe classico, ma un uomo che ha costruito un sistema nel quale lui è il re, e non è quindi soggetto alle regole morali e al giudizio dei suoi pari (anche perché non ne ha) e dei suoi avversari. Per lui conta solo il pubblico che lo venera, che sia quello dei teatri o quello che trova in una gremitissima aula di tribunale. Non è un eroe in senso stretto, perché i suoi difetti vengono schierati in fila scena per scena, ma anche il peggior detrattore non può fingere di non notare la sua grandiosità.
Scarpetta è così, prendere o lasciare: una persona con una morale "elastica", un artista egocentrico ma assolutamente unico, un padre egoista che comunque riesce a crescere figli, illegittimi o meno, che vorranno seguire le sue orme, un marito leale, anche se non decisamente fedele.

Martone mette l’accento sulle differenze tra Scarpetta e D’Annunzio: da una parte c’è la vitalità, dall’altra la freddezza del sublime. I due potevano essere accostati, perché anche il Vate si è sempre sentito al di sopra delle regole imposte al resto della società, ma Martone ha preferito non mettere in rilievo questa parte: nel breve incontro tra Scarpetta e D’Annunzio, quest’ultimo è freddo e controllato, mentre l’altro, palesemente emozionato, gli dichiara la sua ammirazione. Sentimento che gli costerà caro, ma meno di quanto potrebbe.

Qui rido io è il trionfo della leggerezza come vertice della singolare scala dei valori di Scarpetta, in opposizione alla rigidità della nuova poesia che potrebbe anche riuscire ad affossare il genio, ma nulla può sulla voglia di vivere, di recitare, di non scendere a compromessi. Perché in un mondo dove tutti si affannano per avere successo, di solito chi ce la fa è proprio chi riesce a rimanere fedele a se stesso e alla propria passione.

 

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