CULTURA

Verso il ’22. Chi educa chi?

Uno dei grandi interrogativi, dal termine della guerra, è sempre stato: ma chi ha contribuito a integrare e far riconoscere nello Stato la guerra? Il ‘popolo’ o la piccola borghesia, la massa dei soldati semplici o la piccola borghesia, dei tenenti e sottotenenti di complemento? Un osservatorio speciale sono in proposito i cosiddetti ‘giornali di trincea’. Non ne dovremmo trattare, se puntualmente si accontentassero di stare cronologicamente dentro la guerra, ma - dal pesante anti-bolscevismo della “Tradotta” all’elitismo proto-azionista di “Volontà” - debordano di mesi nel dopoguerra. Sono tribune protette troppo comode per rinunciarci; e poi, la smobilitazione è lenta, molti lungo il ’19 vestono ancora la divisa; il tenente - redattore ci ha preso gusto a esercitare questa forma di comando ideologico, a fare il catechista politico, e può essere e sentirsi socialmente utile. Comunque ne scegliamo per molte ragioni uno immediatamente successivo: “Il Nuovo Contadino. Giornale del popolo agricoltore”: quindicinale, uscito con 11 numeri, da luglio a dicembre 1919; pubblicato a Roma nelle Edizioni della Voce, ma fatto a Firenze dallo scrittore vociano Piero Jahier, factotum di questo secondo giornale come già   in tempo di guerra di quello di cui è una filiazione e prosecuzione in tempo di pace, “L’Astico, Giornale delle trincee”. Vi si immedesima, va in aspettativa dal suo impiego alle Ferrovie, chiama i mezzadri toscani a sostituire gli alpini – su cui esce nello stesso anno il suo libro più famoso, Con me e con gli alpini; sono contadini-soldati, ex-combattenti, il nuovo soggetto politico di massa, interclassista e transpartitico; e riformista. Batte la Toscana, scrive, parla, discute, persuade. O non persuade. Dà infatti la parola, sul giornale, a qualche lettore contadino che finirà per convincere lui. Giuseppe Prezzolini gli ha assicurato in partenza 15.000 abbonamenti che dovrebbero dare ossigeno al giornale; ma l’esperienza dura solo   sei mesi, ed è la storia di un candore messo a nudo   e disilluso. “La proprietà non è un privilegio ma un dovere sociale “- si affanna a ribadire Jahier, volgendosi dagli uni agli altri contraenti del patto mezzadrile. No alla lotta di classe, no agli scioperi, no alla rivoluzione! Gli pare impossibile che, tornati a casa nelle campagne, i contadini soldati scoprano di non avere dei   servizi che paradossalmente avevano “al fronte sotto le cannonate”. Teme che facciano dei brutti confronti, che gli venga voglia di andare in città, e magari - non sia mai - di diventare operai. Fra i rossi, altrettanto negativi dei neri. Mentre

Chi può guidar bene la patria italiana è questo popolo che ha patito per lei. Imboscati e disfattisti insistendo su Caporetto vogliono seppellire la nostra vittoria e riprendere la direzione del paese. Ma i combattenti gridano: basta di quella Italiuccia vigliacca, ignorante corrotta che ci pugnalava alle spalle mentre combattevamo. Vogliamo la patria sana e giusta dei nostri compagni morti! Abbasso la patria dei disfattisti! Vogliamo la patria     del fante vittorioso!                                                                                                                                                                                             E ce la sapremo fare. (La Quindicina politica. Caporetto, n.3, 1.9.1919)

Di combattentismo e trincerocrazia “sembrano essercene abbastanza perché Mussolini gli proponga di passare al “Popolo d’Italia”, forse come caporedattore. Jahier dice di no. Sta cambiando, ma non nella direzione che servirebbe a buttarsi dalla parte del fascismo, esso stesso del resto in piena e mutevole fase fondativa.

Va a finire che Jahier scopre che i finanziamenti venivano dall’Associazione Agraria; la sua direzione traballa; il padronato toscano gli mette contro un altro giornaletto, affidato a un redattore proveniente pure dai ‘giornali di trincea’, Giovanni Marchi, un maestro elementare, in seguito deputato fascista. E Giuseppe Gallinella, il contadino che lui stesso si è eletto   interlocutore, lo mette alle corde costringendolo a chiudere con un outingpolitico a due voci, il Saluto al compagno combattente: l’opzione riformista non ha convinto il contadino, il classico personaggio da catechismo politico si rivolta alla parte e rovescia il rapporto pedagogico:

Se vi fosse un sistema di vita sociale migliore e più giusto del presente ordinamento e del comunismo, io lo approvo e m’inchino, ma siccome le classi privilegiate non lo sanno e non lo vogliono trovare meglio che un sistema di   predominio e di sfruttamento è il comunismo.

La risposta di Jahier è  degna  del predicatore che è in lui:

Hai ragione, Gallinella.                                                                                                                                                                                                   

Nessun ordine giusto può venire dalle classi privilegiate, infrollite dal benessere del privilegio.                                                                           

Il popolo dei lavoratori deve guadagnarsi il suo destino da solo.                                                                                                                                

È per questo che chiudo oggi con serena amarezza questo giornale di collaborazione.                                                                                  

Addio in fede, caro compagno. Ti ringrazio di avermi iluminato. 

(n.11, 31.12.1919)

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