L’ultima fatica dello storico Mario Isnenghi Se Venezia vive (Marsilio, 2021) sembra contrapporsi nel titolo al saggio di Salvatore Settis Se Venezia muore (Einaudi, 2014). In effetti lo scritto di Isnenghi si pone in aperta polemica con la vulgata post 1797 di una Venezia declinante, fatiscente con i suoi superbi palazzi abbandonati dai patrizi e lasciati al degrado e allo sfacelo. Scrive Isnenghi che si tratta di un genere letterario che percorre tutto l’Ottocento, dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo alla fin troppo celebre Morte a Venezia di Thomas Mann. Si tratta di un'altra delle leggende fiorite sulle spoglie della Repubblica, alimentate dalle idiosincrasie di Ruskin, autoelettosi difensore della “vera Venezia”, per finire nella “leggenda nera” del tenebroso Consiglio dei X, del “povero fornaretto”, del Ponte dei Sospiri dei condannati alla pena capitale (diremo oggi, a uso turistico, “dei sospiri degli innamorati”).
Fu davvero l'Ottocento solo decadenza? Isnenghi lo nega: Venezia è la città dell’avveniristico ponte ferroviario translagunare (1846), del turismo balneare sulla spiaggia del Lido (il primo stabilimento fu voluto dall’imprenditore Giovanni Fisola), è la città della rivoluzione borghese del 1848-49, che può contrapporre le Cinque giornate di Milano a 17 mesi di resistenza armata alla maggiore potenza europea: quanto fuori dalla verità storica è il poeta padovano Arnaldo Fusinato col suo “il morbo infuria il pan ci manca sul ponte sventola bandiera bianca”…
Per fortuna arrivò il Novecento. Mentre von Aschenbach insegue il suo Tadzio sulla spiaggia dell'Hotel Des Bains (La morte a Venezia) si forma in città un sodalizio politico economico formidabile: Giuseppe Volpi, Vittorio Cini, Achille Gaggia danno vita a quella che sarà la Società Adriatica di elettricità (la ben nota SADE del Vajont), alla Compagnia Grandi Alberghi (CIGA) del Lido, al polo industriale di Porto Marghera, a una delle più importanti iniziative in campo culturale: la Mostra del Cinema (1932), la prima al mondo ad aprirsi alla cinematografia mondiale, fino a quando non si chiuderà la morsa del patto italo-tedesco. A monte c’è l’iniziativa politica di Piero Frascone (di famiglia dogale) che usa il mito di Venezia in chiave di imperialismo adriatico e non poteva mancare, in questo amalgama, un poeta: il poeta Gabriele D'Annunzio. Il Vate elegge Venezia a seconda patria, invoca, annuncia, proclama la guerra all'Austria e fa della sua dimora sul Canal Grande (la “casetta rossa”) la base per le sue spericolate azioni di guerra. A pace conclusa la sua guerra personale continua, è l’epopea di Fiume riscatto della “Vittoria mutilata”. Su tutto questo il fascismo trionfante metterà il suo nero marchio. E poi la nuova guerra e la resistenza a Venezia che Isnenghi rievoca con grande affetto pur nei suoi chiaroscuri. C’è una nota curiosa nel libro: è la dedica dell'opera al “Campiello del Remer”. Detto campiello si trova nel sestiere di Cannaregio dove un palazzo sul Canal Grande aveva ospitato dagli anni Cinquanta ai Settanta-Ottanta le federazione provinciali del Partito Socialista pianterreno, del Partito Comunista al secondo piano e della Camera del Lavoro al terzo e al quarto piano. Anche questa è stata Venezia.