
Maria Grazia Ciani, grecista, fondatrice della collana “Variazioni sul mito” di Marsilio, torna in libreria nel suo modo. Con un libro sottile eppure densissimo, in cui le parole sgorgano centellinate, adeguate, riflettute, pacate eppure taglienti. E muovendo dalla sua stessa vita, cosa che non s’immaginerebbe perché Ciani emerge dai suoi stessi scritti (il primo, Storia di Argo) come una donna dura, riservata, che non fa sconti a se stessa e alla Storia.
Qui, ne L’ultima nota (Marsilio, 2025), ripercorre la sua educazione musicale, al pianoforte, al Conservatorio veneziano Benedetto Marcello prima e come privatista da Luisa Baccara, pianista e musa di D’Annunzio, poi, in una sorta di dimostrazione che il greco e il latino – le materie della sua vita – sono arrivate come conseguenza ulteriore di quell’applicazione che Ciani ragazzina aveva dovuto profondere sulla tastiera.
A noi lettori questo racconto autobiografico asciutto e misurato nella forma (ma non nelle emozioni che suscita) muove corde profonde, non per quello che dice ma soprattutto per ciò che tace – abilità propria della letteratura. Si sentono il respiro e lo sguardo di chi la vita l’ha vissuta e la osserva con il disincanto di chi conosce stilemi, dolori, gioie, suoni, intenzioni di un tempo che nulla ha che fare con questo presente e forse ne sente nostalgia.
Venezia è pennellata come un luogo vivo, dove crescere e combattere: “ha un volto luminoso e un retroscena oscuro”; il Conservatorio appare come un crocevia di sforzi che premia solo chi nasce con il talento e può quindi avvicinarsi a Benedetti Michelangeli dal “passo nervoso, il trench svolazzante, la testa china come per evitare gli sguardi”; Bach l’autore di un’opera mondo che può disegnare i confini dell’esistere ("la semplicità di certi preludi, la complessità delle fughe, quella particolare costruzione architettonica in cui le voci si alternano e poi si intrecciano formando una rete precisa come un'equazione matematica e solenne come una cattedrale") ; Luisa Baccara una sorta di mano tesa.
Quella stessa che l’autrice, con il suo rigore e la sua sincerità precisa, offre al lettore (senza averne l'intenzione) nel metterlo a parte di un processo intero di vita, cui, con modestia, dedica un racconto conciso che però lascia una traccia profonda.
La abbiamo intervistata.
Ricordare il passato a distanza di molti anni cosa restituisce? Lo sguardo, quando si volta indietro, cosa trova? E la trasformazione in racconto cosa conserva?
Ricordare il passato può costituire una divagazione astratta, oppure può provocare un salto d'epoca che fa riaffiorare la concretezza di fenomeni che continuano a ripetersi nel tempo. Traformare gli eventi in racconto arricchisce il patrimonio mitico, la realtà diventa un sogno.
Il pericolo è quello di perdere il contatto sia con il passato sia col presente nella loro concretezza. Con ciò voglio dire che spesso trasformare gli eventi del passato può essere sviante e impedisce di cogliere le sottili sfumature che l'antichità ci tramanda, trasformandole in leggende prive del loro significato profondo.
Qual è la “parola” della musica secondo te? Cosa lascia a chi la suona e a chi la ascolta?
La musica è lingua morta finché rimane ancorata al pentagramma. Trasformarla in "parola", vale a dire in suono è un'impresa ardua, molto più ardua della traduzione da una lingua morta (greco e latino appunto). Tralasciamo pure il duro lavoro della tecnica che deve approdare a una esecuzione perfetta. Ma l'esecuzione è nulla senza l'interpretazione, che ha un doppio valore: stabilire il contatto dell'esecutore con l'autore e trasferire questo contatto al pubblico che ascolta. Il suono, l'approccio della mano sulla tastiera, dipende dalla sensibilità del pianista e dal rapporto di ogni singolo dito con il tasto. È una questione personale, non vi sono regole e questo distingue gli artisti l'uno dall'altro. Quel suono è il "mio" suono e nello stesso tempo è il suono dell'autore , del quale sono riuscita a penetrare il messaggio (o almeno così spero). Ed è questo messaggio che cerco di trasmettere al pubblico, al di là della mia persona e della mia esecuzione. Anche in questo caso non esiste una regola: non esiste nemmeno un risultato definitivo. Ogni esecuzione dovrebbe cogliere quell'"attimo fuggente" in cui la "parola" dell'autore raggiunge chi ascolta e lo incanta, senza un particolare motivo, senza una spiegazione razionale.
Siamo figli di ciò che ha costellato la nostra vita da giovani: i libri, la musica, gli incontri, i luoghi ci danno l’imprinting. Senza pianoforte, come credi sarebbe stata la tua vita? E quando secondo te smettiamo di farci condizionare da ciò che ci entra nel cuore, negli occhi, sotto la pelle? Forse mai?
La mia vita senza la musica? Non credo che sarebbe cambiata di molto. Solo tardi ho capito il valore di un metodo, la severità di un approfondimento totale. Ma forse sarebbe stato lo stesso se avessi praticato un'arte diversa o forse sarebbero bastati i duri anni del greco e del latino. Io credo che la musica condizioni le persone che nutrono per le note, per gli strumenti musicali, una autentica passione, un'infatuazione che dura tutta la vita. È la passione che condiziona: per la musica, l'arte, lo sport, per tutto quello che ci circonda e, a volte all'improvviso, ci colpisce per sempre. Io invidio chi si lascia condizionare, perché vive una realtà diversa da quella comune, potrei dire che "vive di più". E ne sono convinta proprio in quanto, nonostante tutto, io non ho conosciuto nessuna passione. Solo dovere e impegno.
Luisa Baccara aveva qualcosa di speciale? Come tocca il genio dell’artista chi gli sta accanto?
Luisa Baccara era una persona speciale e non solo per le sue qualità artistiche (che peraltro non ha avuto modo di sviluppare). Nello stesso tempo era anche una persona misteriosa, molto chiusa e riservata. Forse è per questo che, dopo l'era dannunziana, è stata dimenticata. Tra la sua arte e quella di D'Annunzio non c'era condivisione, D'Annunzio non era un musico: della parola, sì, ma non del suono puro, privo in sé disignificato. Ci sono stati momenti di esaltazione, come quando Luisa suonò per i Legionari a Fiume, ma poi l'incanto svaniva e con l'incanto del suono anche l'infatuazione del Vate. Nonostante la sensibilità innegabile del poeta, io non credo che egli abbia compreso e quindi amato l'arte di Luisa: era un mondo che non gli apparteneva, secondo me, lo lasciò cadere. Non era capace di amare senza risparmio, di ammirare senza invidia o partecipazione. Luisa si è salvata a Venezia e Venezia ha salvato Luisa: la sua città fu il suo vero Vittoriale.
In definitiva: possiamo salvarci? Dai ricordi? Dalle emozioni? Dalla paura? Dalle aspettative? Dal tempo che passa?
Mia cara Valentina, io ti rispondo secondo quello che ritengo valido per me, non per gli altri. Penso e spero che ricordi, emozioni ecc. ci possano accompagnare e aiutare senza provocare sofferenza: rimpianti forse, ma non necessariamente dolore. Ma salvezza no, non la vedo. Per me, almeno. No.