CULTURA

Il vocabolario... Ai tempi del climate change

In tutte le lingue ci sono parole usate impropriamente, mode lessicali e termini trascurati. Succede in molti ambiti, specie in quelli al centro di dibattiti: capita spesso a Madre Natura, al clima e al meteo. Mentre in Italia i fenomeni atmosferici sono associati (come tanto altro) al termine e al concetto di “allarme” e l’approssimazione scientifica nella comunicazione è grande, in Inghilterra, dove l’argomento meteo proverbialmente regna sovrano (ed è il rifugio di quelli senza immaginazione, diceva Wilde), c’è il Guardian che per amor di correttezza dell’informazione ha aggiornato perlomeno i termini ambientali della propria style guide; si tratta del vademecum, di stampo e di diffusione tipicamente anglosassone, che un editor -  all'interno in questo caso del giornale – usa per assicurare correttezza e coerenza editoriale e stilistica a tutta la comunicazione.

Negli articoli del quotidiano inglese, dunque, “emergenza climatica” ha preso il posto di “cambiamento”, e il termine inglese heating quello di warming per parlare di riscaldamento globale in modo più intenso e incisivo (heat è più caldo di warm) e  riferito al cambiamento nell’equilibrio energetico del nostro pianeta: l’indicazione è stata ripresa da una dichiarazione di Richard Betts, scienziato alla guida del dipartimento di ricerca sul clima al MET, ovvero il servizio meteorologico nazionale del Regno Unito. L’organizzazione nazionale del meteo è tanto autorevole oltre manica da avere, anni fa, impartito agli annunciatori linee guida sul linguaggio delle previsioni atmosferiche all’insegna del bicchiere mezzo pieno (di pioggia) dove “prevalentemente sereno” prendeva il posto di “isolati temporali” al fine non deprimere più del necessario la già provata popolazione insulare.  

Tornando al Guardian, la sua direttrice, Katharine Viner, ha dichiarato di  non voler andare per il sottile quando si parla e si scrive di un fenomeno che rappresenta una catastrofe attuale per l’umanità e non un impercettibile cambio di rotta verso un opinabile e lontanissimo dramma, allineandosi in ciò alla condotta di scienziati del clima e di organizzazioni nazionali e internazionali quali, tra gli altri, la summenzionata organizzazione britannica di monitoraggio meteo e l’ONU . Nel nuovo lessico ambientale del Guardian non c’è più posto per gli “scettici” di alcunché, tantomeno per quelli dell’emergenza climatica: chi la mette in discussione è un “negazionista delle scienze del clima”. “Fauna selvatica” ha preso il posto del più vago “biodiversità”, “popolazione ittica” quello  di “riserva”: ed ecco i pesci non sono più scorte alimentari ma abitanti a tutti gli effetti di un ecosistema in pericolo.

La lingua inglese, segnatamente quella scientifica, ha prodotto una serie di espressioni e lemmi curiosi legati al clima, uno dei quali è attestato in romanzi italiani o tradotti dall’inglese solo da una manciata di anni. Si tratta di petrichor, in italiano petricore, parola coniata nel 1964 a partire dai termici greci antichi di πέτρᾱ pétrā ‘macigno, pietra’, e ἰχώρ ichṓr, ‘icore, linfa, dai ricercatori Isabel Joy Bear e R. G. Thomas della Commonwealth Scientific and Industrial Reasearch Organization australiana; questa parola  indica l’odore generato dall’incontro della pioggia sulla terra a lungo rimasta asciutta. I suoi inventori a riguardo scrissero sul Nature che tale aroma è di fatto “un odore apparentemente unico che può essere considerata un icore o essenza tenue derivata dalla roccia o dalla pietra. Questo nome, a differenza del termine generale odore argilloso, evita l’ingiustificata implicazione che il fenomeno sia limitato alle argille o ai materiali argilloso; non implica che si tratti di un’entità chimica fissa ma che piuttosto denoti un odore integrale, variabile all’interno di una certa latitudine osmica facilmente riconoscibile”. La parola ha suscitato un certo interesse per la capacità evocativa del petricore che, insieme all’odore, sprigiona l’idea di frescura, elettricità, incontro terra/cielo come in una ideogramma dell’I Ching,  sollievo, ma anche di paura, specie in questi giorni in cui in Italia l’acquazzone ristoratore estivo diviene troppo spesso bomba d’acqua da cui guardarsi come da un cacciabombardiere (per colpa dell’emergenza climatica e non del cambiamento, naturalmente).

E se parole nuove arrivano, ce ne sono altre che scompaiono insieme a ciò cui si riferiscono. Nel 2015 l’Oxford Children Dictionary ha eliminato dal suo bottino di 10.000 parole ben 50 termini legati alla natura come vipera, felce, salice, storno, campanula, ghianda e l’intraducibile conker, parola che indica sia  la castagna dell’ippocastano (che in questo albero è il seme e non il frutto) sia il gioco tradizionale di fissarla in fondo a uno spago e romperla contro quella dell’avversario. Vocaboli di un mondo campestre e antico soppiantati dall’ingresso di “banda larga” e “copia e incolla” che è imprescindibile conoscere ma non del tutto chiaro perché ciò debba avvenire a discapito dei salici (che peraltro sono nel titolo del classico per l’infanzia più famoso in Inghilterra: “Il vento tra i salici”, appunto). Insomma le parole potevano essere 10.050 e sarebbe passata la paura, invece no; la cosa non è andata giù a diversi autori britannici che hanno scritto una lettera aperta all’editore del prestigioso dizionario in cui si protestava contro l’impoverimento del vocabolario e la rassegnazione all’allontanamento dei bambini dal mondo naturale. Per ovviare a ciò Robert MacFarlen ed Jackie Morris hanno dato alle stampe con la Hamish Hamilton il bellissimo libro illustrato Le parole perdute: un libro incantesimi proprio per recuperare e descrivere alcuni dei termini banditi dal vocabolario dei più piccoli. Questo grande albo illustrato è destinato, spiegano agli autori, a lettori dai 3 ai 100 anni per evocare le parole e le specie comuni che stanno scomparendo non solo dal linguaggio quotidiano ma anche dalle storie e dai sogni dei bambini. Tra queste c’è tarassaco, che la lingua inglese, mutuando la parola dal francese, chiama dandelion, il nostro dente-di-leone, il fiore che diventa piuma a cui, come alle stelle cadenti in estate, si affidano desideri; il tarassaco è anche protagonista di Dandelion wine (in italiano “L’estate incantata”) romanzo di formazione  di un Ray Bradbury più vicino alle liriche  Emily Dickinson che a “Cronache Marziane” dove il dente-di-leone viene usato dalle famiglie dell’Illinois per produrre un vino giallo e mielato “capace di imprigionare l’estate e liberarla nei mesi freddi”:  altro superbo esempio di incantesimo a base di piante e di parole.

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