SOCIETÀ

Vocabolavirus: il nuovo linguaggio della pandemia

Questo Covid-19 ci ha messo di fronte a una serie di novità, in ogni ambito della vita. E siccome la lingua che parliamo riflette la realtà, molte parole sono entrate nel nostro vocabolario senza colpo ferire: probabilmente il lessico dei singoli individui si è arricchito, e anche se di certo non è una grossa consolazione va comunque catalogato sotto la voce "conseguenze positive".
Abbiamo scoperto il pangolino, un animale dal muso tutto sommato simpatico che vorremmo scagionare dall'accusa di untore e che non se la passava molto bene nemmeno prima visto che, come spiegava il nostro direttore Telmo Pievani, viene cacciato per i suoi presunti poteri medicamentosi.
Abbiamo cominciato a familiarizzare anche con il termine spillover, il cosiddetto salto di specie, tanto che l'omonimo libro di David Quammen è tornato in classifica con tutti gli onori del caso.

Si sono anche scoperte parole come epidemiologo e infettivologo (o, per i più acculturati, si è scoperta la differenza tra i due), e forse, con la scusa di dare una mano ai nostri figli mentre facevano i compiti, abbiamo anche ripassato la regola dei plurali: la scelta tra -gi e -ghi dipende dall'accento. Le parole piane (cioè quelle con accento sulla penultima sillaba, per esempio "lago") hanno il plurale in -ghi mentre quelle sdrucciole (con accento sulla terz'ultima sillaba, per esempio il nostro "epidemiologo") hanno il plurale in -gi.

Un fenomeno curioso è che i primi a parlare di lingua non sono stati i più titolati a farlo, cioè i linguisti, che forse erano troppo impegnati a organizzare la didattica a distanza. Dopo qualche giorno di iniziale timidezza, però, si sono fatti vivi, facendosi abbondantemente perdonare il ritardo. Daniela Pietrini, professoressa di linguistica italiana e francese all'Università Martin-Luther di Halle-Wittenberg in un articolo scritto per Treccani scrive della parola "coronavirus" e analizza le neoformazioni che da essa sono partite: per chi si fosse chiesto come mai diciamo "virus HIV" e  "virus Ebola" ma "Coronavirus", le prime sono formazioni tipiche delle lingue romanze che creano composti con la testa a sinistra ("capostazione" e non "stazionecapo") mentre Coronavirus è un anglismo (sì, di mezzo c'è anche il latino, ma la formazione è tipica delle lingue germaniche). Lo stesso schema hanno seguito le altre neoformazioni, come Corona-bond o covidiota, anche piuttosto icastica.

Coronavirus è un anglismo colto su base latina da interpretare come composto binominale (corona + virus) subordinato con testa semantica a destra (“virus a forma di corona”), secondo un ordine dei costituenti tipico delle lingue germaniche (e del latino) Daniela Pietrini

E, a proposito di inglese, ci sono tutte quelle parole che sono entrate nell'uso senza il tempo (o le energie) per trovare una traduzione: lockdown, il già citato spillover (che però se la gioca con "salto di specie") e il cluster. Non ce l'ha fatta invece homeschooling, presto soppiantato da DAD o didattica a distanza.
A chi trova fastidioso l'uso indiscriminato della lingua inglese farà piacere sapere che a volte, a quella lingua, rubiamo qualcosa e lo mascheriamo facendolo nostro: per esempio "immunità di gregge" viene proprio dall'inglese (
herd immunity), ed è un calco semantico. Ne parla diffusamente su Treccani Federico Faloppa, professore di storia della lingua italiana e di sociolinguistica all’università di Reading.

Dalla lingua dei media, si passa alla lingua delle persone: la sociolinguista Vera Gheno ha approcciato l'argomento della lingua della pandemia da un lato inedito, almeno su questo fronte: ha chiesto ai suoi amici su Facebook di citare tre parole che associano a questo periodo, le ha catalogate e le ha riunite in una pubblicazione (per ora solo digitale): è nato così "Parole contro la paura" edito da Longanesi. Un "saggio umano" perché, pur fornendo molte nozioni di linguistica, prende in esame anche una sorta di "psicologia della parola". Ed ecco che le ricorrenze maggiori non sono "coronavirus" o "spillover", ma "casa", "divano" "riflessione" e "webinar" (una manna per i detrattori degli anglicismi!).

Dai lemmi, passiamo alle metafore: più volte è stato detto che questa pandemia è una guerra. Probabilmente la stampa che ha sposato l'uso di questa metafora lo ha fatto, più o meno inconsapevolmente, per trarne titoli allettanti e cliccabili. Se però trattiamo questa e le altre pandemie come una guerra (la stessa retorica è stata usata negli anni Novanta per l'HIV) stiamo dando per scontato che si stia operando in un settore in cui molte regole morali possono essere sospese. In guerra uccidere diventa in qualche modo lecito, e lo sono anche tutte le limitazioni alla libertà fatte in nome della sicurezza, per esempio il coprifuoco. In una guerra esiste un nemico. Il virus, certo, ma nel momento in cui prendiamo per buona la metafora anche il malato diventa un nemico, come rileva Susan Sontag in Malattia come metafora, non una vittima da proteggere e curare. Siamo davvero sicuri di volere questo?

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