SOCIETÀ

Volete sapere dov’è il vostro nuovo telefonino? Da qualche parte nel canale di Suez

Se avete guardato la televisione nelle ultime 48 ore avrete certamente visto un bulldozer che appare grande come una Smart a fianco di una nave alta come un palazzo di venti piani, incastrata nel mezzo del canale di Suez. E, in effetti, la portacontainer Ever Given è lunga 400 metri e alta come un palazzo di venti piani. Il primo problema è che si è messa di traverso in un punto dove il canale è largo meno di 400 metri e non dà segno di volersi muovere di lì, mentre oltre trecento navi aspettano di poter passare.

Il secondo problema è che l’incidente del canale di Suez ci ricorda bruscamente quanto importanti siano i container e le merci che trasportano (dagli orsacchiotti di pelouche alle magliette, fino ai componenti per le motociclette Ducati o le auto Mercedes). La sola Ever Given ne trasporta 20.000, diretti a Rotterdam. Da qualche anno si parla senza troppo riflettere di “società post-industriale” e, negli ultimi 12 mesi, ci siamo abituati a fare tutto on line: non solo le lezioni universitarie e le riunioni d’ufficio ma persino gli aperitivi, vietati all’aperto.

La realtà è che, Zoom o non Zoom, tutto ciò che ci circonda viene da una fabbrica: la tazza che teniamo in mano, la moka in cui abbiamo fatto il caffè, il pacchetto della nostra miscela preferita. Siamo seduti su una sedia di fabbrica, a un tavolo di fabbrica, mangiamo lo yogurt proveniente da una fabbrica di Vipiteno, con un cucchiaino prodotto in una fabbrica polacca, mentre guardiamo il nostro iPhone, ovviamente prodotto da una fabbrica della Foxconn, in Cina e trasportato in uno dei container a bordo della Ever Given. È quindi lievemente paradossale il fatto che si continui a parlare di economia “digitale”, o “virtuale” o della “conoscenza” quando il problema più urgente è procurarsi delle mascherine che qualcuno, da qualche parte deve fabbricare e qualcun altro deve trasportare attraverso il canale di Suez, dove passa circa il 13% del commercio mondiale.

Oggi, solo l'8% dei lavoratori americani lavora nell’industria, un terzo rispetto al 24% nel 1960, ma a livello mondiale siamo nel momento di massima espansione della produzione industriale, come ci ricorda Joshua Freeman nel suo massiccio Behemoth: A History of the Factory and the Making of the Modern World (W.W. Norton, 2018, $ 27,95).Secondo i dati compilati dalla International Labor Organization, nel mondo un miliardo di operai lavorano nell’industria, in Cina il 43% della forza lavoro. Nel 2016, Trump vinse le elezioni perché i lavoratori americani avevano visto scomparire i loro posti di lavoro in Ohio, Pennsylvania e Michigan ma, naturalmente, non era nei suoi poteri farli ritornare con le sue raffiche di tweet contro Pechino. 

Purtroppo, finché non succedono incidenti come quello del canale di Suez, né gli americani che vanno da Wal-Mart a comprare t-shirt prodotte in Cina o Vietnam, né noi quando andiamo all’Ikea a procurarci una libreria Billy ci ricordiamo di come funzionino le fabbriche, di cosa significhi lavorarci. Anzi, potremmo chiederci: dove sono le fabbriche? Chi le ha mai viste, al di fuori degli operai e dei tecnici che ci vanno ogni giorno? C’è un’ottima risposta a questa domanda: sono state trasportate via via sempre più lontano.

Un tempo la Fiat stava alle porte di Torino: chiunque prendesse un tram negli orari di cambio turno incontrava gli operai che ci stavano andando con la loro gamella per il pasto. Adesso la FIAT non esiste più: per qualche anno si è chiamata FCA (sede in parte in Olanda, in parte a Detroit), ora ha preso il nome di Stellantis, sede ad Amsterdam e stabilimento italiano principale a Melfi, a 532 metri d’altezza nelle montagne della Basilicata, 941 chilometri da Torino.

In prospettiva storica il trionfo della fabbrica-monstre, come River Rouge della Ford, con le sue centinaia di migliaia di operai alle porte di Detroit o Magnitogorsk, in Unione Sovietica, potrebbe essere stato effimero. La grande fabbrica, spiega Joshua Freeman, nasce già nella sua forma definitiva, “come Minerva dalla testa di Giove”: edifici di quattro o cinque piani, lunghi e stretti, con molte finestre e un migliaio di operai. Così era il primo stabilimento tessile inglese, a Derby, nel 1721, molto prima che la macchina a vapore e poi l’elettricità arrivassero ad aprire l’epoca eroica della manifattura.

Freeman mette a fuoco alcune questioni interessanti nella storia dell’industrializzazione: in primo luogo, sia nei paesi capitalisti che in quelli del socialismo reale, la gigantesca fabbrica è stata a suo tempo vista come strumento per ottenere un nuovo e migliore livello di vita per tutta la società, raggiungendo una maggiore efficienza grazie a tecnologie avanzate ed economie di scala. I grandi stabilimenti attirarono l’ammirazione di politici, artisti e scrittori: la celebre fotografa Margaret Bourke-White disse: “Adoro le fabbriche”.

Nello stesso tempo, “i grandi gruppi di operai che lavorano insieme, vivono insieme, pregano insieme, bevono insieme e muoiono insieme possono trasformare le più grandi e importanti fabbriche da modelli di efficienza in strumenti di potere dei lavoratori”. Questo è avvenuto prima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo: ora forse sta avvenendo in Cina. In attesa che lo scioglimento dei ghiacci polari permetta alle navi portacontainer di imboccare la rotta artica, a Nord della Russia, dodici mesi l’anno, dovremo però aspettare che i nostri indispensabili gadget elettronici arrivino in negozio passando per il canale di Suez. Se è aperto.

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