Venezia, ottobre 1990: Giulio Andreotti ed Helmut Kohl al vertice bilaterale italo-tedesco (particolare). Foto: ASILS, Archivio Giulio Andreotti
La caduta del muro di Berlino mise in moto una serie di processi e rappresentò una serie di sfide a cui l’Italia cercò di rispondere tra il 1989 e il 1992, venendosi spesso a trovare in una posizione che potrebbe essere definita come “difensiva”. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio le varie questioni che l’Italia dovette affrontare, ma è possibile sostenere che non sempre il bilancio fu positivo; emersero anzi i limiti della posizione del Paese nel contesto internazionale, le sue debolezze interne, nonché il fatto che stessero venendo meno quelle “rendite di posizione” che erano state la conseguenza del coinvolgimento italiano nella guerra fredda.
Di fronte alla prospettiva di una rapida riunificazione tedesca, il tentativo di De Michelis di coinvolgere l’Italia nel negoziato internazionale si scontrò ben presto con l’opposizione tedesca, che trovò espressione nella nota frase del ministro degli Esteri Genscher “You are not part of the game”. Il governo italiano dovette ripiegare sul raggiungimento di tre obiettivi – la salvaguardia della Nato, una maggiore integrazione politica europea, la riforma della Osce – che erano comunque condivisi dagli altri partner europei.
“ You are not part of the game Hans-Dietrich Genscher a Gianni De Michelis
Ben più grave per gli interessi e l’immagine dell’Italia fu la crisi nata con l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein e le successive operazioni “Desert Shield” e “Desert Storm”. Emersero infatti con evidenza le prime crepe del sistema politico, in particolare le divisioni all’interno del mondo cattolico e il venir meno del tradizionale rapporto di collaborazione fra la Dc e la Santa Sede, quest’ultima schierata su posizioni pacifiste. Si manifestarono inoltre i limiti del possibile utilizzo dello strumento militare, sia sul piano quantitativo che qualitativo – basti pensare all’impegno profuso da partner europei quali la Gran Bretagna e la Francia – ma soprattutto le incertezze e le paure del potere politico e della stessa opinione pubblica di fronte a una “vera guerra”, per quanto combattuta a migliaia di chilometri di distanza.
Questa posizione pose anche in discussione il rapporto con gli Stati Uniti, che sembrarono riscoprire la tradizionale “inaffidabilità” dell’alleato italiano; in realtà si poneva una questione ancor più complessa: era ancora così utile l’Italia in questo primo conflitto del post-guerra fredda? Né va dimenticato la scarsa comprensione da parte soprattutto di Andreotti dei nuovi equilibri internazionali che stavano nascendo, come dimostrato dalla convinzione che l’Urss di Gorbaciov potesse ancora svolgere un ruolo diplomatico centrale favorendo una soluzione di pace. Infine, in una prospettiva di lungo periodo, la vittoria americana e l’errore compiuto dall’OLP di sostenere Saddam Hussein avrebbe finito con il dimostrare, almeno per tutti gli anni ’90 che l’unico attore in grado di risolvere la questione medio-orientale fossero gli Stati Uniti, senza bisogno di alcuna mediazione europea, quindi anche dell’Italia.
“ Era ancora così utile l’Italia dopo la fine della guerra fredda?
Appena conclusa la crisi del Golfo, si manifestarono le drammatiche conseguenze della fine del comunismo nei Balcani con il collasso dello stato albanese e il conseguente primo flusso migratorio di massa, nonché con il processo di disgregazione della Federazione jugoslava. Nel primo caso, le autorità italiane parvero farsi cogliere impreparate e le immagini della nave “Vlora” e dei disordini nello stadio di Bari avrebbero condizionato l’opinione pubblica, non solo italiana, circa le scarse capacità organizzative delle strutture dello Stato. Quanto alla vicenda jugoslava, è innegabile che le posizioni italiane, in particolare le iniziative di De Michelis, fossero ispirate alla valida opzione del mantenimento in vita di una qualche legame fra le Repubbliche, una soluzione che forse avrebbe potuto evitare la successiva guerra civile. Ma nel volgere di pochi mesi l’Italia, posta di fronte alle spinte internazionali di una Germania ormai riunificata e dell’Austria, nonché a quelle interne delle Santa Sede, dell’opinione pubblica e dei media, fu costretta ad accettare il rapido riconoscimento dell’indipendenza della Croazia e della Slovenia.
Ma – come d’altronde sostenuto da altri studiosi – insieme alla fine dello scontro fra Est e Ovest fu il trattato di Maastricht l’evento che ebbe maggiore impatto sia sugli equilibri interni, sia sulla posizione internazionale dell’Italia. La leadership politica e il ministero degli Esteri parvero concentrare l’attenzione sulla dimensione politica del negoziato, in altri termini la creazione dell’Unione Europea, tentando di imporre i tradizionali obiettivi italiani di maggiori poteri da attribuire alla Commissione e al Parlamento, mentre finirono con il delegare le trattative sugli aspetti economici, in altri termini, l’Unione Economica e Monetaria (Uem) al ministro del Tesoro Carli e al governatore della Banca d’Italia Ciampi. In realtà queste furono le trattative più importanti perché coinvolgevano la creazione del “grande mercato unico”, che implicava la mobilità di merci, capitali, servizi e persone, nonché la prospettiva della nascita di una moneta unica europea. Questi obiettivi cozzavano con le scelte dei governi italiani che avevano permesso una pericolosa crescita della spesa pubblica in ovvia contraddizione con le linee di politica economica della Germania e di conseguenza i cinque ”parametri” di Maastricht; inoltre l’impianto concettuale dell’Uem, di tendenza neo-liberista, contrastava con un sistema economico quale quello italiano, nel cui ambito lo Stato – in realtà i partiti politici – svolgeva un ruolo centrale controllando quasi metà del sistema economico: dalle grandi imprese alle banche. Infine la possibile creazione di una moneta unica avrebbe significato la rinuncia a parti importanti della sovranità nazionale.
Pubblicità elettorali della Democrazia Cristiana dopo la caduta del Muro
Furono pochi i leader italiani che compresero le implicazioni di Maastricht, probabilmente Cossiga e Andreotti, ma soprattutto quest’ultimo ritenne di avere tempo a disposizione per affrontare le sfide poste dal trattato sull’Uem. Diversa era la posizione di Carli, di Ciampi e dell’emergente tecnocrazia europeista, che aveva il suo perno nella Banca d’Italia, perché, seppure con qualche attenuazione e il conseguimento di qualche concessione, questi attori vedevano nel trattato di Maastricht e nei suoi parametri l’occasione per applicare il noto “vincolo esterno”.
Tale posizione non era certo una novità nell’ambito della scelta europea dell’Italia, tanto è vero che essa era forse nata nel 1964 con l’intervento del vice-presidente della Commissione Marjolin a sostegno di Colombo nell’applicazione di una politica deflattiva al fine di risolvere la cosiddetta congiuntura, e si era manifestata nel 1978 con l’adesione allo Sme, ma ora si trattava di promuovere la radicale trasformazione del sistema economico del paese, una prospettiva che avrebbe posto in aperto contrasto il mondo dei partiti e quello dell’imprenditoria.
Venezia, ottobre 1990: Giulio Andreotti ed Helmut Kohl al vertice bilaterale italo-tedesco. Foto: ASILS, Archivio Giulio Andreotti
“ Fu il trattato di Maastricht l’evento con il maggior impatto sia sugli equilibri interni, sia sulla posizione internazionale dell’Italia
Nel 1992/1993, da un lato la fine della guerra fredda significò la fine delle lealtà di ampi settori dell’elettorato ai partiti tradizionali: non aveva più senso votare per la Dc per il timore di un comunismo che era ormai scomparso, ma dal punto di vista internazionale non vi era neppure più l’interesse dei garanti esterni degli equilibri del periodo della “guerra fredda” a sostenere i partiti moderati, tanto che nei decenni precedenti le amministrazioni democratiche di Clinton e Obama si sarebbero trovate più a loro agio nel dialogo con gli ex-comunisti del Pds, Ds e Pd di quanto non lo sarebbero state con il centro-destra di Berlusconi. Valutazioni analoghe potrebbero essere compiute, dagli anni ’90 in poi, per tutte le leadership europee, senza distinzione fra progressisti e conservatori. Quanto al trattato di Maastricht, la crisi economica dell’estate del 1992 avrebbe contribuito all’aggravarsi della crisi politica apertasi con “Tangentopoli”, ma essa trovava origine nella convinzione di alcun partner europei, in particolare della Germania, che difficilmente l’Italia sarebbe stata in grado di rispettare i parametri di Maastricht. A tutto ciò si aggiunse la sensazione di ambienti economico-finanziari che il trattato sull’Unione Europea fosse l’occasione per espellere i partiti dal sistema economico, da un lato potendo finalmente far fronte al problema del debito pubblico, dall’altro trarre profitto dalla prospettiva delle privatizzazioni imposte dall’UEM.
(…) Questa riduzione ai minimi termini del ruolo internazionale dell’Italia, fortemente influenzato dalla confusa situazione interna e dalle perduranti difficoltà economiche e sociali, non è comunque che il riflesso della più generale crisi europea. Se all’indomani della fine della “prima repubblica”, si poteva forse sostenere che tale vicenda confermasse l’eccezionalità italiana di fronte alle altre nazioni dell’Europa occidentale, è forse possibile affermare che l’Italia non ha fatto altro che anticipare fenomeni che in una sorta di onda lunga si stanno estendendo ad altre nazioni europee e più in generale all’UE: dalla crisi dei tradizionali partiti politici che si sta manifestando in Francia come in Germania, come in Gran Bretagna; a una tendenza a guardare ai problemi interni perdendo di vista le grandi trasformazioni presenti sullo scenario internazionale; al crescente divario fra le parti “globalizzate” delle società a quelle divenute “periferiche”, ma consistenti in termini numerici e sempre più insofferenti delle narrazioni proposte dalle élite dominanti. Tutto ciò non è altro che la conseguenza di lungo periodo della fine della “guerra fredda” o, se si preferisce del “secolo breve”. La fine di un mondo, quello del Novecento, sta creando con grandi difficoltà e attraverso un lungo “dopoguerra” avviatosi negli anni ’90 del Novecento e tuttora non pienamente con concluso, un nuovo equilibrio internazionale in cui ci si può domandare se esista ancora lo spazio per un ruolo internazionale dell’Italia.
>> SPECIALE 1989