SCIENZA E RICERCA

In Salute in movimento. Aritmie e sport: quando l'esercizio richiede cautela

Il caso più recente tra gli atleti noti al grande pubblico è quello di Sergio Aguero, l'attaccante del Barcellona costretto al ritiro a causa di aritmia cardiaca incompatibile con l'attività agonistica.

Ma negli occhi abbiamo ancora anche le immagini drammatiche dell'arresto cardiaco che ha colpito il centrocampista della nazionale danese Christian Eriksen durante la partita contro la Finlandia degli scorsi campionati europei. Attimi di enorme paura prima del sollievo quando ci si è resi conto che le manovre di rianimazione effettuate con il defibrillatore avevano salvato il giocatore.

Un lieto fine che purtroppo per altri atleti non c'è stato, basti pensare a Piermario Morosini stroncato da un arresto cardiaco sul campo durante un Pescara-Livorno di quasi dieci anni fa, a Davide Astori la cui sfortuna è stata anche quella di sentirsi male di notte all'interno della stanza di albergo in cui trovava senza che nessuno abbia potuto dare l'allarme o, uscendo dai confini del calcio, alla morte del campione del volley Vigor Bovolenta che il 24 marzo 2012 ebbe una fatale crisi cardiaca durante una partita. 

Viene definita morte improvvisa da sport quella morte inaspettata che ha un'origine cardiaca e un rapporto diretto con l'attività sportiva stessa. È un fenomeno raro che non supera l'1-2% del numero globale di tutte le morti improvvise e si ritiene che l'incidenza sia di 1-3 per 100.000 atleti per anno. Colpisce più frequentemente gli sportivi di sesso maschile e le cause sottostanti tendono ad essere differenti a seconda dell'età: tra gli sportivi delle categorie master, quindi al di sopra dei 35 anni, la patologia più comune è l’aterosclerosi coronarica, mentre tra gli atleti giovani prevalgono cardiomiopatie aritmiche che hanno base genetica o alterazioni congenite.

Occorre però precisare subito in cosa consiste il legame tra rischio di morte improvvisa e attività sportiva: la pratica di esercizio fisico è ritenuta una vera e propria medicina, una chiave per restare in salute e tenere sotto controllo problematiche importanti. Quando però il cuore di una persona risulta più vulnerabile a causa di una patologia sottostante non diagnosticata ecco che lo sport, soprattutto quando praticato ad alta intensità, può diventare il fattore di innesco di eventi gravi e aumentare il rischio di morte improvvisa.

Il compito dello screening a cadenza annuale che certifica l'idoneità della pratica sportiva a livello agonistico è proprio quello di individuare possibili soggetti a rischio e indirizzare verso controlli più approfonditi tutte le volte in cui dovesse emergere il sospetto di una patologia rilevante.

La legge che ha stabilito l'obbligo dello screening risale al 1982 e ha reso l'Italia il Paese con la normativa più rigorosa. Le maglie dei controlli sono dunque molto strette ma questo non significa che tutte le patologie a rischio siano individuabili attraverso la prima fase di valutazione (che comprende l'anamnesi, l'esame obiettivo e l'elettrocardiogramma). 

I passi avanti compiuti negli ultimi decenni dalla medicina e dalla cardiologia dello sport sono comunque moltissimi e hanno visto l'università di Padova ricoprire un ruolo di apripista grazie soprattutto alla ricerca, avviata nel 1979 e tuttora in corso, che è stata la prima in Europa ad indagare le cause di morte improvvisa nei giovani e negli atleti del Veneto attraverso uno studio autoptico e clinico dettagliato. "L'aspetto più importante è che abbiamo correlato quello che emergeva dalle autopsie con l’elettrocardiogramma che queste persone avevano fatto in vita. Parallelamente, infatti, in questi anni cominciava a svilupparsi lo screening obbligatorio e questo ci permetteva di identificare meglio quali erano le alterazioni elettrocardiografiche che potevano essere predittive del rischio di morte improvvisa durante la pratica sportiva", ha spiegato a Il Bo Live Domenico Corrado, professore del dipartimento di Scienze cardiologiche, toraciche e vascolari, che in passato è stato anche presidente della Società europea di cardiologia dello sport e attualmente dirige l'unità operativa dipartimentale centro genetico-clinico per le Cardiomiopatie aritmiche e cardiologia dello sport.

Il professor Corrado è tra i massimi esperti mondiali in materia e ci siamo rivolti a lui per avere una panoramica completa sulle patologie che possono rappresentare un pericolo per gli atleti e capire come vengono diagnosticate, quali sono le possibilità terapeutiche e come gestire un eventuale problema al cuore senza rinunciare completamente all'attività sportiva.

L'intervista completa al professor Domenico Corrado, tra i massimi esperti mondiali di cardiologia dello sport. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"L’evento più drammatico per un atleta e per uno sportivo - introduce il professor Domenico Corrado - è la morte improvvisa sul campo. Questa morte improvvisa è legata a un arresto cardiaco di natura aritmica. Quello che abbiamo scoperto con anni di ricerca grazie a un gruppo di ricerca comporto da patologi cardiovascolari e cardiologi dell'università di Padova è stato che lo sport, specialmente negli atleti giovani, può aumentare il rischio di morte improvvisa rispetto alla controparte sedentaria. Questa è stata una novità, per certi aspetti anche inaspettata e scioccante".

"La nostra ricerca, che si è focalizzata sulle cause di morte improvvisa nei giovani e negli atleti nella regione Veneto a partire dal 1979 e che è tuttora in corso, ha dimostrato che lo sport non è la causa in sè dell’aumento della mortalità improvvisa negli atleti ma agisce come un trigger. In altri termini è un fattore precipitante in quegli atleti che presentano una patologia cardiaca che li pone a rischio di sviluppare un’aritmia che porta a un arresto cardiaco quando sottoposti a un’attività fisica che comporta una stimolazione adrenergica. Quello che è importante capire è che lo sport fa bene ma che bisogna identificare i soggetti a rischio che durante l’attività potrebbero andare incontro a queste complicanze", chiarisce il professore del dipartimento di Scienze cardiologiche, toraciche e vascolari. 

Per questo motivo lo screening sistematico della popolazione che svolge attività sportiva a livello agonistico è fondamentale e l'obiettivo è proprio quello di individuare le patologie che, durante lo svolgimento di attività fisica ad alta intensità, potrebbero esporre l'atleta a un rischio per la propria vita.

Il rischio di un’aritmia dipende dalla patologia a cui è associata

Come accennato in precedenza alla base della morte improvvisa nello sportivo c'è quasi sempre una patologia cardiaca che predispone al rischio di aritmie. Sotto questa definizione rientrano disturbi che portano ad alterazioni del ritmo cardiaco con aumento (tachiaritmie) o rallentamento (bradiaritmie) della frequenza cardiaca. La comparsa di aritmie cardiache nell’atleta deve essere sempre considerata con attenzione perché può essere indicatrice di una sottostante cardiopatia, spesso clinicamente silente, che predispone ad arresto cardiaco e morte improvvisa.

Nei giovani atleti esiste un ampio spettro di patologie cardiache a rischio: si tratta di malattie che possono essere sia congenite, quando sono il risultato di un errore malformativo del cuore già presente alla nascita, o molto più spesso genetiche, legate cioè a un’alterazione del DNA con espressione fenotipica tardiva (spesso dopo la pubertà). Queste malattie aritmogene che colpiscono il muscolo cardiaco possono colpire il ventricolo destro, quello sinistro o entrambi, portando a una dilatazione, a un’ipertrofia, oppure a una cicatrice", spiega l’esperto.

La presenza di aritmie nella popolazione generale non è rara. "Stimiamo che l’incidenza delle extrasistoli ventricolari arrivi fino al 10%. Il ruolo del cardiologo dello sport è stabilire quali aritmie siano isolate e quindi benigne, e quali invece rappresentino un marker di patologia cardiaca che ne condiziona la prognosi. In altri termini il rischio di un’aritmia dipende dalla malattia del muscolo cardiaco  a cui è associata", chiarisce il professore del dipartimento di Scienze cardiologiche, toraciche e vascolari dell'università di Padova.

Lo screening obbligatorio per l'attività agonistica e gli eventuali successivi approfondimenti

Per ridurre il rischio che la pratica di uno sport a livello agonistico, che implica ovviamente una costanza e intensità maggiore rispetto a un moderato e sporadico esercizio fisico, possa favorire la comparsa di gravi problematiche cardiache la parola chiave è prevenzione. Il punto di partenza è sempre lo screening obbligatorio, a cadenza annuale, necessario per l'ottenimento dell'idoneità all'attività agonistica. E' in questa fase che, qualora dovessero emergere dubbi o sospetti, il medico ed il cardiologo dello sport prescrivono controlli più approfonditi ricorrendo a test diagnostici anche sofisticati. 

"In Italia tutti gli atleti che intendono praticare attività sportiva a livello agonistico, cosa che implica un allenamento regolare e delle gare specifiche nell’ambito di un’attività riconosciuta dalla Federazione di riferimento, devono sottoporsi annualmente a questa valutazione cardiovascolare. Il protocollo prevede una prima linea di esami (first line examination) che include l’anamnesi dell’atleta per approfondire sia la storia familiare sia quella personale, l’esame obiettivo e l’elettrocardiogramma. In caso di sospetto di cardiopatia l’atleta può essere sottoposto a ulteriori accertamenti mirati. Se, ad esempio, l’elettrocardiogramma abbia mostrato delle alterazioni della ripolarizzazione ventricolare che possono essere indicative di una patologia del muscolo cardiaco, come una cardiomiopatia ipertrofica o aritmogena, l’atleta potrà essere sottoposto a un ecocardiogramma, a una registrazione ECG Holter delle 24 ore, ad un test a sforzo massimale. Si può anche arrivare a test di imaging più avanzati  come la risonanza magnetica cardiaca che rappresenta un test importantissimo che ci permette di smascherare  eventuali cicatrici o alterazioni del muscolo cardiaco, altrimenti non evidenziabili. Può essere anche indicata l’esecuzione di una la TC coronarica (soprattutto nel caso di atleti master), di uno studio elettrofisiologico intracardiaco o di una biopsia endomiocardica: si tratta però di test sofisticati che vengono riservati a un sottogruppo selezionato di atleti", approfondisce il professor Corrado.

I 35 anni come linea di demarcazione: serve particolare attenzione alla salute delle arterie coronarie

Nell'individuazione di possibili fattori di rischio anche l'età ha una sua importanza. Se tra gli atleti più giovani le patologie cardiache sono spesso congenite o genetiche, al di sopra dei 35 anni bisogna prestare particolare attenzione alla salute delle arterie coronarie. Il fattore anagrafico implica una distinzione importante perché l’aterosclerosi coronarica si sviluppa con il trascorrere del tempo e i casi di morte improvvisa nello sportivo dopo i 35 anni sono prevalentemente legati proprio a questa malattia. "L’atleta master ha quindi una problematica a sè stante - conferma il professor Corrado - e anche il protocollo dello screening annuale deve comprendere la accurata valutazione dei fattori di rischio coronarici come livello di colesterolo, pressione arteriosa, età, abitudine tabagica. Successivamente gli atleti che hanno un rischio coronarico elevato (ad esempio in base alla “risk score chart ” della società Europea di Cardiologia) vi è l’indicazione ad eseguire ulteriori accertamenti. La prova da sforzo massimale, in particolare, è in grado di dimostrare un’eventuale ischemia miocardica legata a una patologia coronarica altrimenti silente. Ulteriori test anatomici, più accurati, comprendono la TC coronarica o la coronarografia che permettono di evidenziare e quantificare la patologia aterosclerotica delle arterie coronarie”.

Pratica sportiva e fibrillazione atriale

Tra le forme più comuni di aritmia cardiaca c'è la fibrillazione atriale, una patologia che rende il battito cardiaco irregolare ed accelerato. L'incidenza di questa aritmia aumenta con l’avanzare dell'età.

Il rapporto tra sport e fibrillazione atriale è ancora dibattuto ma ci sono studi che hanno evidenziato come l'esercizio fisico ad alta intensità e svolto in modo continuativo può favorire l'insorgenza di questa aritmia. "Questo accade specialmente per il rimodellamento neuroautonomico del cuore dell’atleta: il cuore degli sportivi infatti viaggia sotto l’effetto prevalente del sistema nervoso autonomo parasimpatico che predispone alla insorgenza di fibrillazione atriale come risultato delle alterazioni elettriche che si vengono a creare a livello atriale", spiega il professor Corrado aggiungendo che "gli atleti hanno un rischio di sviluppare fibrillazione atriale che è cinque volte superiore rispetto a chi non pratica attività sportiva". Precisa Corrado, "dal punto di vista emodinamico la fibrillazione atriale riduce la performance cardiaca, quindi uno sportivo che presenti questa aritmia, oltre al rischio cardioembolico, presenta importanti limitazioni di  prestazione atletica”.

Il docente si sofferma poi sia sul meccanismo che caratterizza questo tipo di aritmia e sui rischi collegati alla sua presenza. "L'attivazione elettrica atriale è completamente desincronizzata. La muscolatura atriale non si contrae più in maniera efficace e viene in parte compromesso il riempimento ventricolare durante la fase diastolica. Il sangue tende a ristagnare all’interno dell’atrio, proprio perché manca l’effetto propulsivo della contrazione, e questo può portare alla formazione di trombi. Il rischio della fibrillazione atriale è quindi di tipo tromboembolico in quanto i trombi possono staccarsi dalla parete atriale ed entrare in circolo provocando un ictus cerebrale cardioembolico, oppure portando a danni ischemici a carico di altri organi”.

Per quanto riguarda l'approccio terapeutico più indicato per la fibrillazione atriale, il professor Corrado spiega che "i farmaci antiaritmici sono difficilmente gestibili nell’atleta e la terapia da privilegiare è sicuramente l’ablazione transcatetere che rappresenta la soluzione definitivamente curativa dell’aritmia”. I farmaci anticoagulanti, impiegati per la prevenzione delle complicanze tromboemboliche della fibrillazione atriale, sono incompatibili con la pratica degli sport di contatto come il calcio, il rugby o il basket che espongono al rischio di emorragia traumatica da collisione ”.

"L’intervento di ablazione transcatetere consiste nella introduzione  di sonde (elettrocateteri) all’interno degli atri per eseguire delle bruciature “ad arte” intorno allo sbocco delle vene polmonari nell’atrio sinistro, che è la regione da cui origina la fibrillazione atriale. Questo permette di prevenire in maniera definitiva l’insorgenza di questa aritmia consentendo all’atleta di riprendere alla sua normale attività sportiva”.

Le possibilità terapeutiche per la gestione delle aritmie

Abbiamo appena fatto riferimento alle terapie per la fibrillazione atriale. Ma in termini più generali la gestione delle aritmie e delle patologie sottostanti nello sportivo deve sempre partire dalla considerazione che "un atleta a rischio è prima di tutto un paziente" e le possibilità terapeutiche variano anche a seconda della gravità della condizione clinica. Per alcune aritmie può essere sufficiente ricorrere ai farmaci oppure si può intervenire attraverso la già menzionata ablazione cardiaca. In alcuni casi però, precisa il professor Corrado, " un atleta può presentare una tachiaritmia ventricolare così grave da provocare un arresto cardiaco con morte mprovvisa abortita da una efficace rianimazione cardiopolmonare con defibrillazione elettrica. In questo caso,  l’ elevato rischio di una recidiva di arresto cardiaco porta all’indicazione di un defibrillatore impiantabile, un dispositivo che entra automaticamente in funzione con uno shock elettrico salvavita in risposta ad un’aritmia potenzialmente mortale".  

"In Italia chi ha il defibrillatore impiantabile non è idoneo allo sport agonistica perché l’attività sportiva ad elevato impegno cardiovascolare può scatenare l’insorgenza di tachiaritmie mortali che potrebbero non essere trattate con successo dal device sotto l’effetto delle catecolamine e delle modificazioni metaboliche da sforzo.  Inoltre, l’atleta potrebbe comunque subire un episodio sincopale aritmico con complicanze  traumatiche anche gravi", osserva il docente.

Come può essere spiegato l'episodio accaduto ad Eriksen?

Abbiamo appena ricordato che in Italia l’impianto di un defibrillatore non è compatibile con l'idoneità alla pratica sportiva agonistica. Per questo motivo Christian Eriksen è stato costretto a risolvere il suo contratto con l’Inter, dove era arrivato a inizio 2020, per poter continuare a giocare nel club inglese del Brentford. Il calciatore danese sarebbe così il primo giocatore con un defibrillatore impiantabile a giocare in Premier League. 

Ma come è possibile che un atleta di livello così alto e dunque sottoposto a controlli medici più accurati e rigorosi sia andato incontro ad un arresto cardiaco? Il caso Eriksen ha stimolato la pubblicazione di un recente articolo sull' European Heart Journal firmato dal professor Corrado insieme ai colleghi Antonio Pelliccia, Cristina Basso e Alessandro Zorzi. "La migliore strategia per combattere la morte improvvisa durante lo sport - concludono gli autori - consiste nel combinare sinergicamente la prevenzione primaria mediante l'identificazione degli atleti con malattie cardiovascolari a rischio e la prevenzione secondaria attraverso la disponibilità di defibrillatore automatico esterno sul campo che permette  l’erogazione di uno shock elettrico immediato e salvavita in caso di arresto cardiaco aritmico inaspettato, come quello sofferto da Christian Eriksen”

Torniamo allora su quanto accaduto ad Eriksen per ragionare sulle considerazioni che si possono trarre. "La prima è che fino a pochi anni fa arresto cardiaco aritmico e morte improvvisa erano sinonimi nel senso che un atleta che presentava un arresto cardiaco sul campo andava inevitabilmente incontro alla morte. L’evento di Eriksen ha cambiato questo paradigma in quanto grazie agli interventi di rianimazione cardiopolmonare e soprattutto alla disponibilità di un defibrillatore sul campo il giocatore è stato rianimato e defibrillato con successo ed è sopravvissuto. L’evento è importantissimo perché  in controtendenza  alla situazione a cui eravamo purtroppo abituati in passato. Pensiamo ad esempio a quanto accaduto a Morosini o altri giocatori italiani che purtroppo non sono stati così fortunati come Eriksen. Il primo commento è dunque positivo: il caso Eriksen dimostra che la presenza di un defibrillatore automatico in campo può essere salvavita", riflette il professor Corrado.

"Il secondo commento è che Eriksen giocava in Italia dove era stato sottoposto allo screening cardiovascolare previsto per gli atleti agonisti. Viene quindi spontaneo domandarsi perché nonostante i controlli l’atleta abbia sofferto di un aritmia così grave da provocare un arresto cardiaco. La risposta è che la patologia cardiaca potenzialmente mortale è sfuggita alla valutazione cardiovascolare a cui era stato sottoposto l’atleta. Purtroppo lo screening non è “perfetto”: esistono delle patologie cardiache  clinicamente silenti e difficili da identificare mediante anamnesi, esame obiettivo, l’elettrocardiogramma ed anche ecocardiogramma a cui tutti gli atleti professionisti vengono sottoposti periodicamente. Ulteriori esami più sofisticati e costosi, come abbiamo detto, vengono riservati a quegli atleti con sospetto di cardiopatia emerso durante la prima fase di valutazione. Dobbiamo quindi ammettere che Eriksen presentasse una patologia cardiaca “occulta” e non identificabile allo screening cardiovascolare di routine", spiega Corrado.

Quali consigli per non rinunciare allo sport nel caso di una patologia a rischio?

I protocolli e le linee guida Italiane per la concessione della idoneità all’attività agonistica sono rigorosi e la diagnosi di una patologia cardiaca o di un’aritmia potenzialmente a rischio comporta l’esclusione dell’atleta dalla pratica sportiva. La non-idoneità allo sport agonistico tuttavia, come enfatizzato anche dalle recenti linee guida europee, non significa dover rinunciare all’attività fisico-sportiva.

"Questi ex-atleti non sono condannati all’inattività: è compito del medico e del cardiologo dello sport disegnare un programma di attività fisico-sportiva individualizzato, perché l’esercizio fisico fa comunque bene alla salute. In medicina la prescrizione di attività sportiva è fondamentale in termini di prevenzione. Lo sport infatti riduce non solo il rischio di malattia aterosclerotica  coronarica, ma anche quello di altre malattie, incluse quelle oncologiche. All’atleta non idoneo all’agonismo deve comunque essere prescritto un programma “tailored” di attività sportiva cioè compatibile con la sua condizione cardiaca, tale da ridurre i rischi in virtù di un impegno cardiovascolare non elevato ma sufficiente per mantenere la fitness e garantire i benefici sulla salute ", conferma il direttore dell'unità operativa dipartimentale centro genetico-clinico per le Cardiomiopatie aritmiche e cardiologia dello sport.

Il ruolo di Padova nello sviluppo della medicina e della cardiologia dello sport

Oggi davanti ai casi di morte improvvisa nello sportivo è quasi sempre possibile arrivare a individuarne le cause. Ci sono patologie come la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro particolarmente insidiose perché possono manifestarsi senza essere precedute da sintomi predittivi e dunque la sfida per il futuro è riuscire a diagnosticarle prima che si traducano in un evento fatale o comunque molto grave. 

La ricerca che da anni indaga il fenomeno delle morti improvvise negli atleti ha nell'università di Padova un punto di riferimento a livello internazionale. Da qui è infatti partito il primo studio che ha gradualmente fatto luce sulle cause di questi eventi drammatici. "Proprio in questi giorni insieme al professor Thiene e alla professoressa Basso abbiamo scritto un articolo su invito per l’European Heart Journal dal titolo “800 years of research at the University of Padua (1222-2022): contemporary insights in Sports cardiology”. L’articolo ripercorre le tappe ed i risultati della ricerca ormai pluridecennale in tema di Cardiologia dello Sport dell’Università di Padova. Nel 1979, all’inizio del programma di ricerca, poco si sapeva sulle cause di morte improvvisa nell’atleta e l’unico  studio disponibile Statunitense riportava un’esperienza molto limitata. Il team di ricerca padovano ha studiato prospetticamente i casi di morte improvvisa nel giovane e nell’atleta della regione Veneto usando un protocollo autoptico accurato e, l’aspetto più importante, correlando i reperti autoptici cardiaci con l’elettrocardiogramma e gli altri esami clinici.

Contemporaneamente alla ricerca, partiva il programma nazionale di screening sistematico ed obbligatorio degli atleti e questo rendeva disponibili le registrazioni elettrocardiografiche eseguite in vita dalle vittime di morte improvvisa durante sport".

"La cardiologia dello sport, il cui compito è quello di studiare gli effetti dello sport sul cuore e di identificare gli atleti a rischio si è arricchita di importantissime informazioni scientifiche ottenute  dalla ricerca padovana: la identificazione delle patologie cardiache a rischio e delle alterazioni elettrocardiografiche associate, tali da  permettere una diagnosi precoce necessaria per la prevenzione della morte improvvisa. Recentemente, il gruppo di ricerca padovano ha autorevolmente coordinato un documento internazionale con le raccomandazioni per l’interpretazione appropriata delle alterazioni dell’elettrocardiogramma nell’atleta al fine di ottimizzare il rapporto costo-efficacia dello screening cardiovascolare per la prevenzione della morte improvvisa durante sport ", conclude il professor Corrado.

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