SOCIETÀ

Città per la salute e il benessere: una conversazione

The Lancet Global Health è tornato a occuparsi di futuro e benessere urbano partendo da una serie di riflessioni "sulla progettazione urbana, i trasporti e la salute per sostenere gli sforzi globali per sviluppare sistemi di politiche e indicatori spaziali per città sane e sostenibili". Anche su Il Bo Live torniamo a trattare un tema già sviluppato attraverso due serie pubblicate su Il Bo Live nei mesi scorsi - La città dopo la pandemia e Visioni del futuro urbano -. Lo facciamo, questa volta, accogliendo un contributo in forma di dialogo tra Michelangelo Savino, docente di pianificazione urbanistica all'università di Padova, ed Elena Dorato, architetto, dottore di ricerca in Urbanistica, ricercatrice e docente a contratto di Progettazione urbanistica al dipartimento di Architettura dell'università di Ferrara, autrice del libro Preventive Urbanism. The Role of Health in Designing Active Cities (Quodlibet). 

"L'urbanizzazione in rapido aumento, insieme all'invecchiamento della popolazione, ai cambiamenti climatici, al degrado ambientale e le pandemie presentano sfide sostanziali per le persone che vivono nelle città", si legge su The Lancet. "L'identificazione delle principali sfide e opportunità di intervento è fondamentale per migliorare la salute degli abitanti delle città e ridurre l'esposizione a fattori di stress e pericoli, contribuendo a promuovere il benessere e ridurre le disuguaglianze sanitarie".

Una attenta pianificazione urbana produce benefici per la salute e il benessere individuale e collettivo. Progettazione urbana, trasporti e salute della popolazione dovrebbero essere al centro di politiche urbane integrate per attivare un cambiamento reale e favorire la creazione di città sane e sostenibili, in particolare alla luce della pandemia di Covid-19 e del cambiamento climatico. Ma a che punto siamo? Quali scelte sono state fatte? Quali obiettivi raggiunti? La questione è aperta, il dibattito attuale.


Il Bo Live in serie

La città dopo la pandemia

Visioni del futuro urbano

Michelangelo Savino: "L'argomento è centrale nel dibattito tra urbanisti. Il tema ha iniziato a svilupparsi un po' in sordina, per poi crescere ed essere contaminato: noi urbanisti abbiamo considerato la questione partendo dalla qualità della vita, che dal nostro punto di vista non è stata raggiunta. Si può ideare un piano perfetto e coerente ma poi bisogna anche attuarlo, completando una serie di processi. Il piano non è fatto solo di interventi urbanistici ma è anche una combinazione di politiche, tra cui quelle sociali. Nell'intreccio delle diverse politiche si realizza una sinergia capace di garantire una buona qualità della vita. Gli urbanisti si sono basati sullo standard urbanistico: hanno sfruttato dispositivi normativi, che sono presenti sia a livello nazionale che regionale, per servizi e attrezzature pubbliche che il piano regolatore deve fornire agli abitanti, e che sono previsti nello sviluppo della città. In questo modo si è cercato di offrire gli spazi verdi necessari e soprattutto i servizi e le attrezzature che permettono agli abitanti di soddisfare i propri bisogni. Spesso, però, i ritardi nella realizzazione dei servizi oppure le disparità che si creano tra un'amministrazione e l'altra, tra una regione e l'altra, diventa un discrimine nella qualità che viene garantita. In Veneto, per esempio, abbiamo città che hanno elevati livelli di servizi e attrezzature e Padova, dal punto di vista del verde, può vantare una superficie per abitante superiore alla media delle città italiane. In questo senso in Emilia Romagna si raggiungono livelli di qualità molto elevati. Ma in altre zone, molto spesso per mancanza di finanziamenti per la realizzazione dei progetti, le città presentano una dotazione di servizi e attrezzature più bassa della media nazionale.

Bisogna dire che non è soltanto con il verde, i servizi e le attrezzature che si può garantire che la città raggiunga un elevato livello di qualità della vita, un adeguato livello di benessere. Non è solo questo il modo per dare risposte agli abitanti. Inoltre, ragionando sui limiti del piano, sulla validità o meno dello standard urbanistico come strumento di intervento, in particolare, osservando le trasformazioni della struttura della società, per esempio con l'incremento della popolazione anziana, si nota un cambiamento di domanda di servizi e la questione relativa alla salute diventa più delicata e richiede maggiore attenzione rispetto al passato. Poi, bisogna dirlo, resta anche una visione della città, che ci trasciniamo dall'Ottocento, come luogo dove si vive male: un'idea che porta a preferire una vita altrove, perché la città è vista come un condensato di difetti, a partire dall'inquinamento. Questo non è più tanto vero, però è qualcosa che può insistere sul dibattito.

Il Bo Live: Altra questione, altra trasformazione. La pandemia ha rovesciato ulteriormente i punti di vista, ha rimescolato le carte.

Michelangelo Savino: Durante il periodo del lockdown si è parlato tantissimo di spazi dove andare a correre, perché, forse l'abbiamo dimenticato, ma non ci si poteva spingere oltre i duecento metri da casa. Anche solo considerando le prescrizioni legate al tentativo di contenere il contagio, ci si è resi conto di quanto la città attraverso la sua organizzazione possa diventare un elemento utile per la tutela della salute. La pandemia ha accelerato questo dibattito e adesso siamo in una fase nella quale l'obiettivo della salute attraverso gli strumenti urbanistici sta diventando qualcosa di centrale. A tal proposito, il libro di Elena Dorato diventa uno spunto per riflettere sulla città post covid, rilevare i limiti delle città che noi abbiamo costruito e individuare le soluzioni migliori, attraverso gli strumenti che ci vengono messi a disposizione e i finanziamenti del PNRR. 

Ultima battuta: avevo accennato il tema della contaminazione, gli urbanisti hanno una propensione alla collaborazione con altri settori scientifici e disciplinari. Dorato ha collaborato con medici e sociologi, qui a Padova noi abbiamo ragionato e discusso con i colleghi di Psicologia generale, proprio perché diventa necessario costruire insieme le soluzioni. Questa è l'altra chiave interessante di questo tema perché ci spinge ad avere una visione veramente multidisciplinare per poter affrontare la questione.

Si può ideare un piano perfetto e coerente ma poi bisogna anche attuarlo, completando una serie di processi. Il piano non è fatto solo di interventi urbanistici ma è anche una combinazione di politiche, tra cui quelle sociali Michelangelo Savino

Elena Dorato: Abbiamo due possibilità: vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Io tenderei a vederlo mezzo pieno, pensando che soprattutto dopo due anni pesanti di pandemia in qualche modo si sia ritrovata una certa consapevolezza, che forse era andata perduta o si era sopita, una consapevolezza che è anche disciplinare. Però, forse, a ben guardare, il bicchiere dovrei considerarlo mezzo vuoto, perché le questioni che sono riemerse in questi anni pandemici, e metto dentro quelle discusse all'interno del dibattito disciplinare urbanistico-architettonico, sono le stesse di settant'anni fa. Da un lato, quindi, possiamo affermare che, in parte, ci sia stato un fallimento del pensiero attorno al fare città, faccio un esempio banalissimo: continuiamo oggi a fare, pensare, pianificare città che, a parte minime modifiche, ricalcano la città modernista degli anni Cinquanta, cioè se pensiamo alla mobilità urbana e territoriale siamo ancora legati all'uso dell'automobile privata, al trasporto su gomma, a un sistema che ormai non rispecchia più né la società, né la volontà, né le possibilità di sviluppo, pensiamo al quadro globale in cui siamo immersi, pensiamo all'antropocene, alla crisi ambientale. Abbiamo evidenze scientifiche ormai consolidate da qualsiasi disciplina eppure continuiamo a pensare a fare città come se fossimo ancora indietro di settant'anni. Questo io l'ho osservato molto in questi due anni di covid, in cui sono state ritirate fuori dai cassetti questioni che sembravano la scoperta del momento ma che, in realtà, altro non erano che una revisione, anche poco critica, di riflessioni precedenti. Quando parliamo di città vivibili, abilitanti, sostenibili, dovremmo interrogarci sui modelli di sviluppo: se ci basiamo sui modelli del passato, la città post covid non sarà diversa da quella pre covid. Un esempio sulla mobilità: pensiamo al tema della prossimità e alla retorica della città dei 15 minuti, uno dei grandi slogan emersi durante la pandemia. In campagna elettorale la sindaca di Parigi ha lanciato il tema della città policentrica, sostenendo l'importanza per i cittadini di potersi muovere a piedi o in bicicletta, in quindici minuti da casa, per accedere a servizi come scuole e posti di lavoro. Bellissima idea, ma se prendiamo il documento di Parigi e prendiamo quello pubblicato nel 1929 a New York ci accorgiamo che sono identici, è la stessa cosa riproposta quasi cent'anni dopo. Allora, da un lato ci chiediamo cosa sia andato storto, se ancora pensiamo che la soluzione ultima possa essere questa, dall'altro proviamo a considerare il bicchiere mezzo pieno riflettendo sul fatto che questa pandemia ci abbia obbligato a riconsiderare la rilevanza della promozione della salute, perché di questo stiamo parlando, del valore della prossimità e di un certo tipo di mobilità urbana che deve incentivare il trasporto pubblico. La mobilità ci torna utile perché considera la questione ambientale: l'inquinamento, anche acustico, l'impatto della sedentarietà, lo stress. Sono tanti fattori complessi e legati tra di loro. Quindi, torniamo a chiederci quali siano i modelli di sviluppo per la città post covid, perché se quelli non cambiano non cambia nulla e non possiamo neanche pensare di migliorare e integrare i sistemi di pianificazione.

Per me un limite è dato dall'idea di multidisciplinarietà, invece che di transdisciplinarietà: non sono la stessa. Oggi nel sistema da pianificazione, nazionale e regionale, per semplificare, continuiamo a dividere in compartimenti i contributi e le discipline. Il passaggio alla transdisciplinarietà, dal mio punto di vista, oggi diventa irrinunciabile: l'ibridazione disciplinare può mettere a sistema realmente le competenze per produrre qualcosa di innovativo che non può essere prodotto attraverso l'accostamento delle competenze. 

Il Bo Live: Questo dunque prevede un investimento sulle competenze. Parliamo di formazione per nuove figure professionali.

Elena Dorato: Certo. La promozione della salute è chiaramente un fattore culturale, cioè da un lato deve esserci la capacità di ibridare le competenze per creare qualcosa di realmente innovativo e cercare nuovi impatti, che evidentemente finora non sono stati raggiunti, e dall'altro ci deve essere anche la capacità non solo di sensibilizzare ma di fare un passo in più per lavorare sul piano culturale, generazione dopo generazione, perché chiaramente non può essere qualcosa che avviene istantaneamente.

Da una parte abbiamo una struttura urbana con le sue politiche, dall'altra abbiamo chi la città la vive, quindi l'esperienza urbana e territoriale: questi due componenti vanno indirizzate. E sul tema dell'indirizzo c'è un'altra questione: secondo me i limiti del piano oggi risiedono nella scarsa capacità di innovare in un'ottica transdisciplinare, ma a questo si aggiunge un altro tema che diventa centrale, ovvero la costruzione di visioni strategiche a lungo termine in grado di andare oltre le pressioni e la politica del momento. Ma il tema della salute e della qualità della vita viene messo nell'agenda politica e amministrativa? E se sì, che importanza ha? Se non ha sufficiente peso per riuscire a creare qualcosa di positivo, allora bisogna rivedere la piramide delle priorità. Io pensavo, anzi speravo, che l'emergenza pandemica avrebbe portato a ridiscutere queste priorità, perché la salute non può più essere una questione negoziabile. Il tema della promozione alla salute non può essere messo in secondo piano rispetto ad altre istanze, ad altri diritti. In questi anni ci siamo trovati spesso a dover scegliere tra un diritto e l'altro: vince il diritto alla salute o quello all'educazione? Questo è successo perché ci siamo ritrovati colti di sorpresa, per noi la salute era qualcosa di scontato e poco presente nei nostri sistemi di pianificazione. Trovarci a dover riflettere in maniera improvvisa e pressante su questo tema ha scombussolato il quadro. 

Quando parliamo di città vivibili, abilitanti, sostenibili, dovremmo interrogarci sui modelli di sviluppo: se ci basiamo sui modelli del passato, la città post covid non sarà diversa da quella pre covid Elena Dorato

Michelangelo Savino: In molti casi c'è anche una distorsione che viene fatta da parte delle politiche e di chi porta avanti il dibattito attorno al tema della salute. Pensiamo alla questione legata all'inquinamento dell'aria: esiste un dibattito alto sulla mobilità sostenibile, uno intermedio e riduttivo, che in molti casi si risolve semplicemente con la chiusura della città al traffico la domenica, infine quello che prevede gli incentivi al settore dell'automotive. Questo solo per dire che questo dibattito, capace di raggiungere anche livelli molto alti di riflessione, giunto alla proposta di azione e intervento, spesso finisce col perdere il suo alto valore. In molti casi, il dibattito viene costretto in soluzioni che si rivelano di breve periodo - ed Elena Dorato sottolineava, giustamente, l'importanza della visione di lungo periodo -, rispondono a richieste specifiche di mercato, capaci di garantire un ritorno di consenso, e distraggono la consapevolezza collettiva dai temi importanti, dalle priorità.

Il Bo Live: Dunque, proviamo a tirare le somme. Cosa si deve fare concretamente? Dove e come inizia il lavoro di ripensamento e riprogettazione della città?

Elena Dorato: Io proverei a ritornare alla sostanza. Tornando agli elementi strutturali del fare città, partirei dai sistemi principali: della mobilità, dell'edificato, degli spazi aperti che non possono più essere intesi come frammenti ma devono essere considerati nell'ottica del potenziamento delle reti ecologiche, dei corridoi ambientali, cioè come strutture ambientali fisiche capaci di avere un reale impatto, che non vuol dire piantare mille alberi, non stiamo parlando di retorica della vegetalizzazione. Bisogna fare il passo successivo, in alcune città francesi lo stanno facendo, perché la Francia ha imposto dei piani nazionali e le città devono starci. In Italia non abbiamo una visione chiara e solida, per esempio, sulla mobilità urbana. Il PNRR lo dimostra: con 4 miliardi non fai niente. Non abbiamo il terreno preparato per piantare i semi.

Proverei ad asciugare il dibattito, per esempio eliminando tutta la spinta tecnologica, che forse dovremmo definire tecnocratica. Non è la cura, non salverà la città. Potrà aiutare nella promozione della salute o ad avere città più connesse, quindi più smart, certo, ma non è questa la chiave perché, di fatto, noi abbiamo ancora città senza marciapiedi, dunque di cosa stiamo parlando? Abbiamo dei deficit strutturali importanti e se non iniziamo a colmare in maniera sistematica questi deficit, tra cui mobilità e spazio pubblico, cioè se non partiamo dalla base, tutto quello che riguarda la produzione, lo stoccaggio energetico, la gestione tecnologica della città, su cosa si aggrappa? In questo senso il bicchiere è mezzo vuoto. Dobbiamo correre e non per fare cose pazzesche, ma per per metterci al passo, per garantire al Paese gli standard di vivibilità minima necessaria. 

Michelangelo Savino parlava giustamente degli standard e del tema della misurazione del piano e degli impatti relativi a quanto si è realizzato. Io credo che, nel momento dell'attuazione di nuovi piani urbani della mobilità sostenibile, un comune debba fare un monitoraggio nel tempo degli impatti positivi o negativi, sui comportamenti dei cittadini, se sono più attivi fisicamente, sa vanno a piedi, in bicicletta o se usano o meno la macchina. Questi monitoraggi non ci sono, però il tema del monitoraggio è molto rilevante. Quando si parla di salute gli epidemiologi sono forti perché portano il dato duro per poter parlare di benefici e ricadute. Noi possiamo farlo ma in realtà non lo facciamo e questo è un problema, perché se non conosciamo l'incidenza delle azioni programmatiche pianificatorie e progettuali come facciamo a valutare l'intervento e a capire se funziona, e quindi a spingere in quella direzione, oppure se ha fallito? La sto facendo semplice, e chiedo scusa, però molti degli errori reiterati vengono fatti perché non c'è abbastanza consapevolezza, perché stiamo continuando a presentare soluzioni che hanno fallito. Il bicchiere mezzo vuoto di questo tema del monitoraggio del dato quantitativo è proprio questo: la città è misurabile quantitativamente? O meglio, è sufficiente misurarne quantitativamente alcuni aspetti, tipo il traffico, per pensare di avere un quadro chiaro di come funziona una città? La risposta è no, soprattutto se intendiamo le reti della mobilità, la piattaforma gli spazi pubblici urbani, le trame ambientali come spazi aperti abilitanti, che non devono iper-funzionalizzare, altro problema che abbiamo avuto in passato e che sicuramente ha avuto una forte incidenza sulla salute. Dunque, il monitoraggio è un tema molto importante, l'approccio quantitativo è potenzialmente problematico e io questo lo rilevo tanto quando mi trovo a sostenere una discussione multidisciplinare, cioè quando mi ritrovo a parlare con i medici, con gli epidemiologi perché loro mi fanno notare questa cosa: tu non puoi quantificare, mi dicono, quindi quello che dici è irrilevante. Non lo è, perché il modo in cui le persone vivono lo spazio pubblico in termini di qualità della vita è la cosa più rilevante. Diventa uno scontro disciplinare impari, da questo punto di vista.

Michelangelo Savino: Mi inserisco per dire che è il metodo a essere diverso, perché nel nostro ambito siamo arrivati a scoprire i limiti del piano del progetto urbanistico e attraverso una serie di pratiche siamo riusciti a esplorare il tema. Molte volte però si lavora alla microscala, alla scala del quartiere, più ridotta e contenuta, che ti permette di avere un rapporto diretto con gli abitanti e conoscerne le esigenze. Sono rilevazioni che spesso faticano a diventare sintesi o a essere portate su grande scala: è come se tu avessi la conoscenza di tanti microcontesti che però ti restituiscono situazioni specifiche, peculiari, che non ti aiutano a capire come il fenomeno funzioni alla scala generale. Quindi in alcuni casi il confronto non è simmetrico: alcuni esperti e tecnici arrivano col dato duro e noi arriviamo spesso con valutazioni che sembrano estemporanee, oppure parziali, o circoscritte a un determinato contesto. Diventa dunque difficile la generalizzazione. Quando poi, però, noi vogliamo avere una visione più ampia, ecco che entra in campo la nostra formazione storica: siamo stati abituati a definire la domanda e, utilizzando i nostri dati e le nostre conoscenze, a dare la risposta. Quindi è facile che la soluzione non sia la più adatta a quello che richiede la popolazione. 

Un esempio: abbiamo preso atto che la popolazione anziana è cambiata ed è eterogenea, con esigenze molto diverse. Che risposte si possono dare a questi utenti, che stanno diventando i più significativi nella nostra società? La città della salute ci porta ad ammettere i limiti di alcune nostre soluzioni e ad aprirci a nuovi approcci. Questo è il mio bicchiere mezzo pieno, perché abbiamo capito che alcune delle nostre modalità non sono più adeguate ai tempi e alla società. Resta il bicchiere mezzo vuoto, se consideriamo che ancora molti dei nostri strumenti non si sono adeguati e continuano a esserci resistenze ai nuovi metodi. Ma ce la faremo.


Call for paperPreventive Urbanism. Researches and Practices for Healthier Cities. Ricerche e pratiche per una città più sana, stimolare il dibattito su città, territori e salute.

Ripensare il concetto di ciò che consideriamo “sano”, reinterpretando quel rapporto ciclico tra persona, città e ambiente – anche grazie alle nuove evidenze scientifiche e alla loro applicazione alla pianificazione e progettazione urbana e territoriale – per superare le diverse idee di salute, a seconda del contesto e delle sfide locali.

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