SCIENZA E RICERCA

La produzione di vino nell’Italia romana, tra ideologia e realtà

La produzione del vino aveva un ruolo fondamentale per la società romana, sia dal punto di vista ideologico, caricandosi di significati sociali e religiosi, sia dal punto di vista economico. Tanto fondamentale che a un sacerdote spettava il compito di aprire la vendemmia tagliando un grappolo d’uva simbolico e celebrando un sacrificio, compito che venne poi ereditato dall’Imperatore: il giovane Marco Aurelio ricorda di aver partecipato nel 141 d.C. a questo rituale insieme al padre, seguito dal sacrificio di un agnello a Giove, per poi andare a banchetto. In un articolo uscito sulla rivista Antiquity, rilanciato da Science, alcuni studiosi (Emlyn Dodd, Riccardo Frontoni, Giuliana Galli) ritengono che proprio a questa cerimonia di inaugurazione della vendemmia da parte dell’Imperatore potrebbe essere connesso l’eccezionale impianto per la produzione di vino realizzato attorno al 240 d.C. all’interno della famosa Villa dei Quintili, situata a circa 7,5 km da Roma lungo la via Appia e divenuta proprietà imperiale sotto l’imperatore Commodo (177-192 d.C.). 

Tra il 2017 e il 2018 gli scavi condotti dal Parco della Via Appia hanno messo in luce una grande vasca per la pigiatura dell’uva (e l’eventuale torchiatura delle vinacce), che si presentava rivestita in marmo rosso e dotata di una monumentale facciata a nicchie rettilinee e curvilinee alternate. Da qui zampillavano, come un ninfeo, tre 'cascate' di mosto, che andavano a riempire grandi dolii per la fermentazione, inseriti fino all’orlo all’interno di un pavimento in marmo. Attorno alla cantina si distribuivano sale riccamente decorate, dove l’imperatore e i suoi ospiti potevano banchettare assistendo allo 'spettacolo' della produzione del vino in un impianto tanto monumentale quanto poco pratico, data la scivolosità del marmo dei pavimenti e la disposizione degli spazi produttivi. Emlyn Dodd, archeologo dell’Istituto di studi classici all’Università di Londra, e coautore dello studio, afferma a ragione che l’esibizione del lusso raggiunge in questo caso l’apice, in quanto l’imperatore “gioca a fare l’agricoltore e il contadino”. Probabilmente il suo 'duro lavoro' era stato, come per Marco Aurelio e il padre, inaugurare la vendemmia e fare un sacrificio, per poi godersi lo spettacolo davanti al bizzarro palcoscenico teatrale: “Un affare da Maria Antonietta”, ha ironicamente commentato l’archeologa britannica Elisabeth Fentress.

Per quanto il ritrovamento sia straordinario, tuttavia, è importante inquadrare il sito all’interno dei più ampi dati strutturali e cronologici per quanto riguarda la produzione del vino nell’Italia romana. Infatti, a parte questa eccezionale esibizione di lusso, la produzione del vino in età romana era una cosa seria e una voce essenziale dell’economia*. La vinificazione avveniva soprattutto nelle grandi e piccole fattorie, spesso del tipo che i Romani chiamerebbero villae, utilizzando impianti efficienti, più o meno articolati a seconda delle possibilità economiche, e con caratteristiche diverse a seconda delle tradizioni e sviluppi di ‘gusto’ locali e internazionali, e quindi delle vinificazioni desiderate. In alcuni casi, lontano dallo splendore ben conservato e visibile della produzione privilegiata e danarosa della corte imperiale, questa tipica configurazione degli impianti produttivi vinari (cioè uno strettissimo legame con territorio e ambiente) significa anche una debole rintracciabilità archeologica. In Italia nord-orientale, ad esempio, pur essendo citati dalle fonti numerosi vini, alcuni dei quali famosi come il vinum Raeticum, prodotto nelle colline veronesi, e il vinum Pucinum, prodotto nella zona del Timavo, nel territorio di Aquileia, non si rivengono resti di impianti per la vinificazione del tipo documentato in area centro-italica (vasche di pigiatura, torchi, dolii interrati); analogamente non sono finora emerse tracce di fornaci da anfore, i contenitori comunemente utilizzati per il commercio del vino. I motivi vanno ricercati nella persistenza di tradizioni di origine preromana, che facevano ampio impiego di legno, tanto nei processi produttivi, quanto nel trasporto, come documentano indizi archeologici e fonti iconografiche.

Per inquadrare e interpretare correttamente il significato del complesso della Villa dei Quintili occorre anche tenere conto degli sviluppi contemporanei del settore vitivinicolo nell’Italia romana e tardoantica**. In primo luogo, bisogna rendersi conto che la costruzione di questo impianto nella prima metà del III secolo d.C. avviene in un periodo in cui gli investimenti nel settore vinario sembrano (almeno sulla base dell’archeologia) ben oltre il loro picco generale del I-II secolo d.C. Se molti impianti più antichi continuarono a funzionare, spesso su scala ridotta, fino al III-IV secolo d.C., le installazioni di nuova costruzione sono poche e comunemente installate in spazi già esistenti. Inoltre, questi nuovi impianti tendono a essere di notevole capacità produttiva, e collegati a grandi e ricchi complessi rurali, come per esempio la villa di San Giusto in Apulia, la cosiddetta Villa di Augusto a Somma Vesuviana (Napoli) o la villa di Passolombardo a Tor Vergata nel suburbio di Roma, ma anche, per rimanere più vicini a noi, la villa attualmente in corso di scavo a Negrar (Verona). In tempi di cambiamenti economici e geopolitici fondamentali, queste residenze sembrano assumere una funzione centrale e 'direzionale' della vita quotidiana, più delle piccole città ormai spesso in declino e spopolate. Da questo punto di vista, l’impianto della Villa dei Quintili, nonostante il suo insolito 'esibizionismo', diventa anche in linea con gli sviluppi architettonici e organizzativi della produzione vinaria nell’Italia tardo romana.

Un ultimo aspetto che richiede un chiarimento è la presenza nella cantina (cella vinaria) della Villa dei Quintili dei dolii del I secolo d.C., quindi risalenti a 150-200 anni prima. Gli autori collegano questo riutilizzo (in una ricostruzione stimolante ma non dimostrabile con la quasi contemporanea rimozione dei dolii in un’altra cantina imperiale a Villa Magna) con il desiderio della corte imperiale di mantenere beni costosi come i dolii all’interno della propria cerchia. Anche se ciò è possibile, il riutilizzo e il riciclo dei materiali erano pratiche comuni nel mondo romano, soprattutto nel periodo di insicurezza economica e di produzioni artigianali e reti di approvvigionamento interrotte del III-IV secolo d.C. Insieme all’uso crescente di botti di legno per la vinificazione, lo stoccaggio e il trasporto del vino, in questo periodo – come suggerito dai testi, dall’iconografia e dall’archeologia – queste circostanze potrebbero aver causato la cessazione delle attività di molte botteghe di opus doliare, e quindi la minore disponibilità di dolii nuovi e ben fatti. In effetti, come notato dagli stessi autori, esistono molti altri esempi di riutilizzo di dolii nell’Italia romana, tra cui l’uso dei vasi di 200 anni prima nella cantina della metà del IV secolo d.C. nella già citata villa di Somma Vesuviana, ma anche la presenza dei dolii con iscrizioni osche nella cantina di Villa Regina a Boscoreale (Pompei) nel I secolo d.C. La pratica è evidente anche attraverso la frequente rimozione successiva dei dolii, come nei casi della Villa dei Quintili e Villa Magna, ma anche nella tenuta imperiale di Vagnari e nella villa di San Giusto, entrambe in Puglia.

Insomma, i proprietari imperiali della Villa dei Quintili fecero certamente di tutto per mostrare sia la loro ricchezza sia il loro legame con il mondo agricolo classico; un atto di costruzione di identità “romana” che era forse ancora più importante in tempi di insicurezza e di cambiamento. Tuttavia, nonostante la pretenziosa ostentazione di lusso e decadenza, l’impianto vinario della villa rimane ben inquadrato e interpretabile solo dentro il contesto e lo sviluppo più ampio della produzione vitivinicola dell’Italia romana e tardo romana.


Riflessioni degli autori

* Maria Stella Busana, docente di “Produzioni e commerci nel mondo classico” al Dipartimento dei Beni culturali dell’Università di Padova

** Dimitri Van Limbergen, specialista nello studio della produzione vinaria antica dell’Università di Gent, attualmente Visiting Scholar al Dipartimento dei Beni culturali dell’Università di Padova

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