SOCIETÀ

Violenza di genere: dati e proposte, cose da fare e non da dire

Siamo a 106 donne uccise quest’anno. Troppe, anche una sola sarebbe di troppo. E come accade dopo ognuna di queste morti, c’è un momento in cui si parla, si promette, si cerca di mettere in campo strategie e proposte. Poi le proposte si raffreddano e difficilmente si fanno passi avanti decisi. Qualcuno, timido, in qualche momento più che in altri. Ma sempre e comunque troppo pochi.

Siamo consapevoli che non basta certo mettere in campo nuove leggi, né nuovi dispositivi, né molti altri strumenti. Perché il cambiamento può avvenire, se avverrà, solo in tempi lunghi, che si misurano nelle generazioni, e lavorando in modo indefesso sulla cultura, sull’educazione, sui discorsi pubblici, sul linguaggio, sulle visioni condivise, sui ragionamenti fatti ad alta voce e su quelli che covano sottovoce. Non c’è bisogno di altri commenti da parte nostra. 

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molto, anche se molto è stato anche il rumore fastidioso e pericoloso di discorsi che non avremmo voluto sentire più. Prendiamo a prestito le parole già molto chiare di Giulia Blasi, autrice femminista che ha pubblicato diversi libri sul tema e scrive una newsletter lucida e affilata, Servizio a domicilio, su Substack:

“Siamo stanche. Perché anche se ora l’ondata di indignazione per la morte tragica e orrenda di Giulia Cecchettin è viva, la notizia ancora fresca e l’uomo sospettato (a ragion veduta) di averla uccisa ancora in vita e nelle mani delle autorità, anche di questa fase conosciamo il finale. C’è la nostra rabbia,” scrive Blasi, “c’è la contrizione degli uomini (alcuni: altri stanno ancora lì a dirsi che forse lui aveva "delle ragioni”). C’è l’avvocato della difesa che dice che lui “l’amava tanto, le faceva i biscotti”. Ci sono quelli che sostengono che gli uomini devono imparare a “proteggere” le donne (da chi? Da cosa?) Le poliziotte del patriarcato che dicono che la colpa è delle madri. Ci sono anche, come ogni volta, gli appelli ripetuti perché l’educazione sessuale e relazionale entri nelle scuole a tutti i livelli. Ci sono gli slogan, questa volta un estratto di una poesia di Cristina Torre Cáceres che ci aiuta un po’ a incanalare la furia che sentiamo.

Poi finirà tutto. Non distruggeremo niente. Siamo troppo educate per farlo, temiamo le rappresaglie, crediamo ancora nel rispetto di una società che non ci rispetta. Marceremo insieme il 25, tante e ignorate. Il governo farà qualche affermazione di circostanza, le sta già facendo…”

Quello che dice Blasi è quello che abbiamo pensato anche noi, ragionando sul cosa potevamo scrivere oggi, in questa giornata che come ogni anno ci ricorda che mentre proviamo rabbia per la violenza contro le donne, ogni due o tre giorni, nel nostro paese, questa violenza ne uccide un’altra, di donna. 

“Nella sua potente analisi sul nesso tra relazioni di genere e relazioni di potere, il femminismo ci dà anche concetti. La parola femminicidio non è un’invenzione del momento. È una categoria critica, partorita grazie a lotte, attivismi, studi in varie discipline e tra varie discipline.” scrivono oggi, in un contributo che abbiamo pubblicato anche su questo giornale, le giovani ricercatrici, dottorande e studentesse dell’Università di Padova riunite nel progetto NextGenerationCEC, progetto del Centro Elena Cornaro che si attiva per spingere al cambiamento anche a partire dall’Università. “Femminicidio è un punto d’arrivo e un punto di partenza: ci serve per riconoscere un fenomeno sociale strutturale, per educarci a vederlo, a nominarlo, a combatterlo.” 

Nel nostro contributo alle analisi e alle riflessioni, noi abbiamo deciso di rimettere in fila ancora una volta i dati che riempiono diversi report, descrivendo qual è la situazione in Italia e altrove, e quali sono, quando ci sono e se ci sono, le differenze. E a evidenziare anche qual è la misura perfino quantitativa della violenza sulle donne, che diventa argomento collettivo proprio solo quando raggiunge la dimensione eclatante del femminicidio. Ma che è anche tanto di più, ed è a partire da quel tanto di più che si deve lavorare per rendere la vita delle donne meno costantemente minacciata e messa sotto assedio. Senza questo passaggio, senza questa precisa volontà è impossibile anche ridurre il numero di donne ammazzate. 

I dati disponibili 

Iniziamo quindi a mettere nero su bianco i dati della violenza di genere. Il primo è già allarmante: il 31,5% delle donne in Italia ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. In termini quantitativi l’Istat parla di 6 milioni 788 mila donne tra i 16 ed i 70 anni. L’analisi è del 2014 ma anche andando a scovare dati più recenti vediamo che il fenomeno non è cambiato. 

Un altro dato che deve farci venire voglia di alzare la voce per provare a cambiare la situazione è quello delle vittime. Da inizio anno sono state 106 le donne uccise in Italia, ma andiamo con ordine. Un report del Ministero dell’Interno ha analizzato l’evoluzione della violenza sulle donne nell’ultimo decennio. I reati spia sono in continuo aumento e questa è una tendenza che deve restare bene a mente. Questi sono tutti quei delitti che sono indicatori di violenza di genere: gli atti persecutori, i maltrattamenti contro familiari e conviventi e le violenze sessuali. Quelli che troppo spesso vengono sottovalutati quando non ignorati e che invece potrebbero già dire molto del rischio corso dalle donne coinvolte.

In particolar modo, dai dati del Ministero, emerge un aumento del 105% in dieci anni per i maltrattamenti contro familiari e conviventi, del 48% per gli atti persecutori e del 40% per le violenze sessuali. In termini numerici per queste ultime siamo parlando di più di 6 mila violenze sessuali denunciate solamente nel 2022. Tutti questi dati che abbiamo visto fino ad ora sono generici, cioè non fanno distinzione di genere ma semplicemente prendono in considerazione i reati denunciati alle forze dell’ordine. È necessario però andare a vedere qual è l’incidenza delle vittime donne. Per quanto riguarda le violenze sessuali nell’intero decennio l’incidenza, cioè la percentuale di vittime donne sul totale dei fatti denunciati, è stata di circa il 90%. Anche per quanto riguarda gli altri reati spia abbiamo un’incidenza che oscilla tra il 79% e l'83% per i maltrattamenti e tra il 74% e il 77% per gli atti persecutori.

Dei delitti e delle pene

Alla lettura di questi dati dobbiamo aggiungere un dettaglio. Spesso si sente dire che sono necessari degli inasprimenti delle pene, ma sappiamo che, soprattutto quando si parla di violenza di genere, il discorso deve rivolgersi soprattutto all’aspetto culturale e formativo. Una società patriarcale non muta se si inaspriscono le pene, e lo vediamo anche dati numeri. 

Dal 2019 infatti, in Italia è in vigore la legge numero 69, cioè quella che viene definita “codice rosso”. Questa ha introdotto da un lato il rafforzamento del sistema di tutela preventiva delle vittime, anche accelerando l’avvio dei procedimenti giudiziari e, dall’altro, c’è stata una modifica anche all’azione punitiva. Significa che la legge “codice rosso” ha introdotto nuove fattispecie di reato, nuove circostanze aggravanti e ha anche innalzato i limiti edittali di reati già esistenti, cioè di fatto ha inasprito le pene. Dall’introduzione della legge ad oggi però, non c’è stata una significativa riduzione dei reati. 

Quando consideriamo i dati rilasciati dal Ministero dobbiamo sempre ponderare anche il fatto che si riferiscono solamente ai delitti segnalati o denunciati. Il “codice rosso” permette dunque almeno di mappare in modo più preciso proprio queste segnalazioni, restituendo una fotografia più ricca dei vari modi in cui gli uomini minacciano, mettono in pericolo, violano i diritti e la sicurezza delle donne. Dal 9 agosto 2019 al 30 settembre 2022 infatti, ci sono state 6.499 violazioni dei provvedimenti di allontanamento e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, 48 costrizioni al matrimonio e 3.496 casi di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. La percentuale di donne vittima di questi reati è sempre stata superiore al 77%.

In Italia viene uccisa una donna ogni tre giorni. Qualsiasi discorso sulla violenza di genere deve partire da questo dato. Sono numeri drammatici, che parlano di una situazione grave e al tempo stesso sottovalutata. Delitti che sono quasi quotidiani ai quali si aggiunge tutto ciò che abbiamo visto fino ad ora: violenze, maltrattamenti, atti intimidatori. I freddi numeri ci dicono che negli ultimi dieci anni sono sempre state almeno più di 100 le donne uccise, ma ci dicono anche che è arrivato il momento di ascoltare le calde e arrabbiate voci che si sono sentite nelle piazze dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin.

 

Uccise nella propria abitazione e dal partner o ex partner: potremmo riassumere così gli ultimi istanti di vita delle vittime donne. Il report Eures sui femminicidi in Italia conferma che è il contesto familiare ad essere il più pericoloso. Un fatto confermato anche dai dati del Ministero dell’Interno, riferiti al 2021. Nella totalità degli omicidi avvenuti in Italia, nell’84% dei casi ad uccidere è stato il partner, l’ex partner o un altro parente. Le vittime, anche in questo caso, sono per un’altissima percentuale donne.

I femminicidi non sono un problema esclusivamente italiano, anche se questo non è certo fonte di alcun sollievo. Analizzare i dati europei serve a favorire una panoramica dei delitti anche se poco dicono, questi dati, delle ragioni, delle motivazioni, delle situazioni, delle spiegazioni che riguardano intrinsecamente la cultura e la società. Il Paese con più omicidi in numeri assoluti di donne è da molti anni la Germania, seguita da Francia e Italia. La Germania però, con i suoi 83 milioni di abitanti, è di gran lunga lo stato più popoloso dell’Unione Europea. Se analizziamo i dati rapportati alla popolazione infatti, vediamo come al primo posto di questa triste classifica ci sia la Lettonia, seguita dalla Lituania e dall’Austria.

Lavorare sull’educazione, una delle strade da prendere

La richiesta di introdurre nelle scuole italiane percorsi di educazione all’affettività e alla sessualità non è nata in questi giorni. Ha preso forma già numerose volte, in passato, ed è stata rilanciata a gran voce dopo le violenze sessuali di gruppo di Palermo e di Caivano ma ancora, nei fatti, rimane solo una promessa. 

Nel corso dell’estate abbiamo potuto leggere sul quotidiano Il Messaggero (riportato ampiamente da diverse testate, come qui e qui e qui, per esempio) anticipazioni del piano del ministro dell’istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, che prevedeva di avviare, alla riapertura delle scuole, una serie di lezioni di educazione alla sessualità, con corsi di formazione sulla parità di genere di contrasto al maschilismo e machismo. Si parlava di peer education e del coinvolgimento di diversi esperti del settore, tra cui psicologi, rappresentanti delle associazioni che difendono le vittime della violenza, avvocati e altre figure professionali necessarie. Il percorso avrebbe dovuto svolgersi tra inizio anno scolastico e il 25 novembre, data scelta simbolicamente in quanto giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Ad anno scolastico iniziato, però, come spiegava Chiara Caivano su Valigia Blu, a metà settembre, del piano non c’era traccia. 

Nei giorni scorsi, dopo una serie di nuovi annunci sulla redazione di un piano educativo per le scuole, c’è stata anche una serissima polemica per la nomina da parte del ministro di un coordinatore del progetto, Alessandro Amadori, che secondo quanto pubblicato dal quotidiano Domani, ha pubblicato in passato diversi testi e ha fatto esternazioni che fanno quanto meno dubitare della sua postura antiviolenza. 

Polemiche a parte, il piano è comunque ancora cosa assai effimera. Tre giorni fa, mentre il Senato approvava il disegno di legge n. 923 con disposizione per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza sistemica, il governo presentava il progetto “Educare alle relazioni” con una direttiva ministeriale, la n.83, che a leggerla fa quasi sorridere, se non fosse che il tema è invece maledettamente serio. Si tratta di un documento di due pagine e due righe, che indica che il Ministero promuove la realizzazione nelle scuole di progetti, percorsi educativi e varie attività rivolte agli studenti delle scuole superiori. Le modalità attuative prevedono che le scuole possano, in piena autonomia, attivare iniziative progettuali extra-curriculari che prevedono la formazione di gruppi di discussione in classe individuando docenti che possano fungere da animatori/moderatori che dovrebbero essere formati secondo un non meglio specificato programma predisposto dal ministero con il supporto di organismi scientifici e professionali e attraverso l’INDIRE. I progetti devono comunque essere raccordati e in qualche modo approvati dal Forum nazionale delle associazioni dei genitore della scuola. Per queste iniziative, il ministero stanzia 15 milioni di euro.

Un piano inconsistente, non obbligatorio, affidato alla buona volontà (ancora una volta) di docenti sensibili e addirittura sottoposto alla validazione delle famiglie. E rivolto solo ai ragazzi più grandi, che quindi esclude tutto il percorso formativo alle relazioni e alla gestione delle proprie emozioni e visioni del mondo che parte dalla prima infanzia. Una lunga disamina del piano, e del protocollo di intesa che il ministero dell’istruzione ha firmato con quelli della famiglia e delle pari opportunità per l’attuazione di questo piano, si può leggere ancora su Valigia Blu a firma di Chiara Sità, che sottolinea anche che “Se, come hanno sottolineato alcuni commenti, l’educazione rischia di assomigliare a una soluzione troppo lenta e intempestiva di fronte alle morti e al pericolo reale che ogni donna affronta già adesso, è pur vero che la violenza contro le donne ha solide radici in una cultura patriarcale e maschilista”. E dunque, uno dei percorsi importanti per cambiare le strutture materiali del patriarcato, quelle che continuano a mantenere le donne in una posizione subalterna e che non mettono in discussione le relazioni di potere e il maschilismo nella nostra società, passa proprio per l’educazione. E qualche contributo, l’educazione, può darlo. Lo possiamo vedere dalle esperienze che sono in atto e dalle ricerche svolte in altri paesi del mondo. 

Un punto di partenza per capire l’utilità dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole è una guida tecnica coprodotta da UNESCO, UNFPA, UNICEF, UN Women, UNAIDS e l’Oms nel 2009 (poi ripubblicata, in versione aggiornata nel 2018), dal titolo “International technical guidance on sexuality education: an evidence-informed approach for schools, teachers and health educators”. Ispirata soprattutto dal bisogno di contrastare la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili, come l’Aids, e dunque dalla necessità di promuovere pratiche sessuali consapevoli e consensuali, la guida specifica che “Al momento, sono troppo poche le persone giovani che ricevono una formazione adeguata e che sono dunque vulnerabili alla coercizione, abuso, sfruttamento, gravidanze indesiderate e all’infezione da malattie sessualmente trasmissibili, incluso l’Aids”. L’idea che deve diffondersi, sostiene il rapporto, è che i percorsi formativi devono entrare sistematicamente in tutto il percorso scolastico, dall’inizio, e devono essere svolti da personale altamente qualificato. Un punto chiave, viene sottolineato nel rapporto, è che l’educazione alla sessualità dovrebbe essere non solo materia a sé ma dovrebbe essere integrata in tutte le regole della scuola, nei materiali e nelle risorse educative utilizzati in tutte le materie, e dovrebbe dunque caratterizzare l’intera esperienza scolastica. 

Già questo punto, nel nostro paese, è ad esempio assai problematico. Irene Biemmi, docente di pedagogia di genere all’Università di Firenze, ha pubblicato nel 2017 i risultati delle sue ricerche sui libri di testo delle scuole elementari, sottolineando quanto attraverso questi libri si protragga una educazione sessista che tramanda modelli di mascolinità e femminilità ispirati da una visione maschilista e patriarcale. 

Va detto che, rimanendo nell’ambito dell’Unione Europea, ad esempio, sono davvero molto diverse le esperienze di educazione sessuale nelle scuole, come vediamo nei grafici sottostanti. Non in tutti i paesi esiste un curriculum inserito nel percorso scolastico. E anche quando c’è, vi è un’ampia differenza dei temi trattati, con una netta prevalenza di un’educazione sessuale limitata agli aspetti biologico-sanitari e assai meno estesa alle questioni relazionali, di rispetto e di diritto. Però, in ogni caso, l’Italia è in enorme ritardo rispetto ad altri paesi dell’Unioone. In Svezia, ad esempio, l'educazione sessuale è materia obbligatoria e integrata nei corsi curriculari delle scuole fin dal 1955. In Germania dal 1968. In Francia nel 2001. In Italia, le prime proposte risalgono agli anni ‘70, ma da allora non si è mai concretizzato nulla, anche se molte sono le iniziative volontarie che le scuole mettono in campo quando hanno risorse e docenti interessati al tema.

La versione aggiornata della guida ha un fondamentale capitolo che raccoglie le evidenze sull’impatto dell’educazione alla sessualità sia sul comportamento sessuale, e dunque anche sulla salute, che sulla conoscenza, l’attitudine, il rispetto dei diritti e delle persone. Vengono presentati i risultati di oltre 87 studi condotti in diversi paesi del mondo già nel 2009, e poi di 22 lavori di revisione sistematica e di 77 studi e monitoraggi in paesi e contesti diversi, di cui più della metà in paesi a basso reddito medio, nel periodo tra la prima e la seconda pubblicazione. I risultati indicano che l’effetto dell’educazione c’è ed è significativo. A livello di comportamenti sessuali, per esempio, i ragazzi che hanno ricevuto un'educazione sessuale e affettiva sistematica nel corso del loro percorso scolastico, tendono a ritardare il primo rapporto sessuale, a ridurne la frequenza e a correre meno rischi, aumentando l’utilizzo di contraccettivi e dunque abbassando il numero di gravidanze indesiderate e la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili. Ma i risultati sono molto importanti anche sul piano della gestione della propria emotività ed affettività, con dati che evidenziano la prevenzione efficace e la riduzione della violenza e della discriminazione nelle relazioni, un aumentato rispetto della parità di genere e dei diritti delle persone, maggiore sicurezza di sé e dunque migliore capacità di costruire relazioni più forti e sane

Insomma, gli studi considerati indicano che, al contrario della percezione dilagante negli ambienti conservatori italiani, fortemente ispirati da una cultura tradizionale maschilista, non è vero che parlare di sesso, sessualità, affetti e relazioni induca a comportamenti più spavaldi e a rischio. Tutto il contrario

E ora ci fermiamo qui, perché le cose da fare sono tante e richiederebbero molto più impegno sistematico e molta più volontà politica. Una volontà che chiaramente manca, perché metterebbe in discussione un intero sistema che sul patriarcato e sul mantenimento degli attuali equilibri di potere e di gestione delle relazioni si regge. 

Chiudiamo tornando al post di Giulia Blasi, perché le cose da fare sono molto chiare a chi, di violenza di genere, si occupa da anni. Non c’è davvero bisogno di propostine che lasciano assolutamente tutto inalterato. Da qualche parte è necessario costruire dei pezzi di cambiamento concreto. Vogliamo risolvere il problema della violenza maschile?, si chiede Blasi. E allora che gli uomini - a partire da quelli che in questi giorni continuano a fare dei distinguo - inizino, come hanno fatto le donne ormai decenni fa, ad autoorganizzarsi con percorsi di autocoscienza autonomi e guidati dalla teoria femminista. E poi “educazione nelle scuole di ogni ordine e grado. Interventi fermi e senza appello quando il sessismo arriva da rappresentanti delle istituzioni. Norme che lavorino in senso preventivo, e che definiscano con precisione i reati. Finanziamento ai centri antiviolenza. Sono cose pratiche, cose da fare, non cose da dire.”

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