CULTURA
La scienza nascosta nei luoghi di Padova: la spezieria dell'abbazia di Santa Giustina
Sicura e maestosa, affacciata su Prato della Valle e confusa a volte dai forestieri, con innocenza, con la Basilica di Sant’Antonio: stiamo parlando dell’Abbazia di Santa Giustina, uno dei simboli della città di Padova grazie alla sua antica storia che intreccia arte, politica, economia e anche scienza. Attraverso la ricca documentazione, infatti, soprattutto non religiosa, si è venuti a conoscenza della presenza di una spezieria all’interno del monastero, un luogo legato alla storia della medicina ma anche alla vita quotidiana della città.
Veduta dell'abbazia di Santa Giustina a Padova, di fronte a Prato della Valle.
Il lavoro dello speziale univa le arti della farmacia, della botanica e dell’erboristeria per la produzione di medicamenti: oltre alla preparazione dei rimedi, l’attività comprendeva un più ampio spettro di mansioni come la conoscenza degli ingredienti, dalla raccolta al trattamento, ma anche la loro conservazione, la capacità di mescolare i vari elementi e il loro mantenimento fino all’utilizzo. Inoltre, lo speziale poteva mettere in vendita anche spezie per uso alimentare, profumi, essenze, colori per tintorie e pittori, cera, carta, inchiostro e altro materiale.
Fino al XIII secolo la professione dello speziale e quella del medico erano una cosa sola: solo grazie alle riforme di Federico II i due mestieri vennero divisi. Nei due testi legislativi Constitutiones e Novae Constitutiones utriusque Siciliae, redatti tra il 1231 e il 1240, si diede inizio a una storia autonoma della farmacia. Oltre alla distinzione tra le due professioni, vennero stabilite numerose regole per il suo esercizio: fu vietato vendere sostanze velenose, venne introdotta la possibilità di essere denunciati da parte dei medici per inadempienza o inadeguatezza, fu reso obbligatorio un tariffario dei medicinali.
A. van der Pieter 1659-1733, "Padova", Biblioteca nazionale Marciana - Venezia
Proprio in questo campo, quello degli speziali, il monastero benedettino di Santa Giustina si contraddistinse, diventando una delle spezierie più importanti di Padova.
L'abbazia di Santa Giustina
Il culto di Santa Giustina è uno dei più documentati della storia padovana. La giovane martire, narra la tradizione, fu sepolta il 7 ottobre 304 nel luogo dove si trova l’attuale complesso architettonico, dopo essere stata processata e messa a morte per la sua fede cristiana dall’imperatore Massimiano, trafitta sul fianco da una spada. Nel 520 il prefetto e patrizio Opilione fece erigere una basilica in suo onore, che diventò nel tempo uno dei luoghi di pellegrinaggio più importanti nel nord Italia e del litorale adriatico.
L’inizio dello sviluppo dell’abbazia è datato al 971, quando il vescovo di Padova Gauslino istituì un monastero benedettino dotandolo di terreni, chiese e cappelle sia in città che in campagna: l’Abbazia di Santa Giustina, infatti, fu la più potente e ricca di Padova, grazie al legame con il tessuto urbano e la società cittadina. Dietro alla ricchezza dell’ente non ci fu mai una famiglia potente o un consorzio signorile: le acquisizioni infatti provenivano sia da acquisti programmati dagli abati, sia da donazioni e lasciti testamentari.
Vincenzo Maria Coronelli, "S. Giustina in Padova", Biblioteca nazionale Marciana - Venezia
Nel 1117 un terremoto distrusse la Basilica di Opilione: oltre al sacello, ancora visibile oggi, è rimasta intatta l’epigrafe a ricordo dell’iniziativa del patrizio romano. In seguito l’edificio fu ricostruito tra il 1177 e il 1123; nel Duecento, con l’arrivo della signoria di Ezzelino da Romano, l’abbazia perse alcuni privilegi ma sopravvisse grazie alla lealtà del comune di Padova. Nel secolo seguente, tuttavia, iniziò un periodo di decadenza sia economica che religiosa a causa dei conflitti tra la signoria dei Carraresi e la Repubblica di Venezia, con forti indebitamenti, svendite dei terreni e diminuzione della manodopera contadina. Solamente nel Quattrocento, grazie all’arrivo dell’abate Ludovico Barbo, l’abbazia ritornò al suo antico splendore.
Il 16 febbraio 1409 Barbo entrò a Santa Giustina, dopo l’investitura ufficiale a Rimini da parte di papa Gregorio XII. Il primo impegno del nuovo abate fu di ripristinare l’osservanza della Regola benedettina e delle tradizioni del monastero; ci fu inoltre un afflusso di nuovi monaci, che attirò diversi giovani legati per la maggior parte all’ambiente studentesco dell’Università di Padova, ma anche provenienti dall’estero. Si creò, quindi, all’interno del monastero un ricco scambio culturale, scientifico e umanistico che permise lo sviluppo della biblioteca già esistente e la fondazione di una scuola di copisti e miniaturisti, oltre a un dialogo stabile tra monastero e università.
Si ipotizza, grazie ad alcuni documenti che attestano la presenza di monaci con competenze specifiche, che la spezieria all’interno di Santa Giustina risalga al Cinquecento e fosse costituita da un laboratorio di farmacia e da un orto per le erbe officinali.
Pietro Chevalier, "Tempio di S. Giustina di Padova", Biblioteca nazionale Marciana - Venezia
Con l’arrivo di Napoleone l’abbazia venne sequestrata e trasformata in ospedale militare, poi in caserma. I beni del monastero, tra cui i manoscritti e le edizioni più preziose della biblioteca, furono spediti a Parigi; nel 1806 i beni mobili e immobili furono venduti e nel 1810 i monaci allontanati dal monastero. L’abbazia passò tra le mani del governo francese, poi di quello austriaco e infine di quello italiano, che lo utilizzò come ospizio per i soldati invalidi, ospedale militare e magazzino.
Nel 1917 il monastero, grazie all’intervento di papa Benedetto XV, fu affidato alla gestione del vicina Abbazia di Praglia. Solamente nel 1942, dopo 123 anni di interruzione, si ricostituì la comunità monastica, e una parte degli edifici fu restituita alla sua originale funzione. All’interno del complesso oggi sono presenti diverse attività tra cui il restauro di libri e codici antichi e un laboratorio iconografico; inoltre dal 1972 la Biblioteca statale del Monumento nazionale di Santa Giustina è un istituto periferico del ministero dei Beni e delle attività culturali, specializzato in scienze religiose, oltre che in ambiti umanistici e scientifici.
Francesco Bertin, "Pianta della chiesa di Santa Giustina", 1694, Raccolta iconografica padovana, Padova
La spezieria del monastero
Oggi, a causa dei cambiamenti avvenuti tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la spezieria non è più presente nel monastero di Santa Giustina: tuttavia, grazie agli archivi e ai documenti storici, è possibile dare uno sguardo al lavoro degli antichi speziali. Attraverso gli elenchi in cui sono descritte le attività dei vari monaci, si accerta che il 30 maggio 1584 erano presenti dei religiosi impegnati “alla Spezieria”, successivamente la direzione fu affidata a speziali laici.
Inoltre, grazie alla cura con cui i benedettini amministravano le proprietà terriere e le varie mansioni, è ancora presente un documento del 1689 con “l’inventario de’ utensili et medicinali che si trovano nella Spetieria di Santa Giustina consegnati da Bortolo Gardellin speziale a Domenico Foresti che entra in luogo del primo, adì quattro febraro”.
Con la lettera Omega è indicata l'ubicazione della spezieria nella pianta dell'abbazia
Nella prima parte sono raccolti tutti gli strumenti e i beni mobili presenti, mentre nella seconda ci sono gli ingredienti e i libri utilizzati: “Due tomi intitolati il Mattioli; Un libro intitolato il Melichio; Un libro intitolato Romano Antidotario; Altri libri di Medicina tra manoscritti e stampati”. Molto probabilmente il primo titolo appartiene al medico e botanico senese del Cinquecento Pier Andrea Mattioli, che studiò medicina a Padova. Il secondo, invece, può essere accreditato allo speziale veneziano Giorgio Melichio, proprietario nel Seicento della spezieria “Allo Struzzo d’oro” di Venezia, che si specializzò nella preparazione di antidoti e della Teriaca, uno dei più famosi medicamenti contro i veleni.
C’è poi l’Antidotario Romano, la cui prima edizione è del 1583: tradotto dal latino al volgare nel 1612 da Ippolito Ceccarelli, l’Antidotario rappresenta uno dei testi più importanti per la preparazione dei farmaci, sia a livello tecnico che normativo, limitando la libertà dello speziale per contrastare gli abusi e le contraffazioni.
Il lungo elenco degli elementi utilizzati per le preparazioni è, inoltre, accompagnato dalla loro quantità: sali, polveri, spezie, minerali, olii e semi compongono il quadro di una spezieria notevolmente fornita, grazie anche all’orto per la coltivazione di erbe medicinali irrigato dalla derivazione d’acqua del Bacchiglione, concessa dal comune di Padova e costruita tra il 1228 e il 1230.
Vincenzo Maria Coronelli, "Tavola dei viaggi P. Coronelli", 1697, Biblioteca nazionale Marciana - Venezia
L'olio di Santa Giustina
La spezieria padovana è passata alla storia ed è ancora oggi conosciuta per un suo prodotto specifico: l’olio di Santa Giustina, la cui antichissima ricetta è stata custodita gelosamente dai monaci nel corso dei secoli da “che non se ne ha memoria”. Esistono due versioni dell’olio: la più antica contiene 62 elementi, per la maggior parte di origine vegetale, mentre la seconda, con ben 79 componenti, si caratterizza per la presenza di vino bianco e spezie esotiche. In entrambe le versioni gli ingredienti vengono lasciati a macerare nell’olio d’oliva per un lungo periodo (nella seconda ricetta venivano lasciati immersi per tutta l’estate, da maggio a settembre).
Nel corso degli anni, tuttavia, ci sono state diverse varianti della formula: per mettere fine al problema delle contraffazioni, i monaci di Santa Giustina si affidarono alle vie legali. Risale al 1 settembre 1740, infatti, la prima “terminazione” (decisione definitiva di un magistrato) della Repubblica di Venezia: in questo documento è testimoniata la richiesta dei religiosi di richiamare all’ordine gli speziali padovani e non solo, colpevoli di vendere senza autorizzazione l’olio di Santa Giustina.
Le proprietà del medicamento sono molteplici; nel Lessico farmaceutico-chimico del 1792, scritto da Giovanni Battista Capello, vengono descritte, oltre al procedimento, anche le virtù: “Giova alle coliche intestinali fattene unzione all’ombelico con tre goccie e altrettanto prese per bocca nel brodo caldo. Ammazza i vermi de’ fanciulli, ungendone le narici e l’ombelico, conforta lo stomaco, promuove la digestione viziata da frigidezza. Giova alle membra contratte, all’apoplessia; allo spasimo e alla vertigine odorandolo e portandolo addosso. Alle soffocazioni isteriche è rimedio singolare, usato internamente nel vino bianco al peso di quattro goccie”.
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