SOCIETÀ

Libia: tre scenari dopo la "figuraccia" dell'Italia e l'asse Erdogan-Putin

Non c’è pace per la Libia, nonostante i proclami e i tentativi (a volte maldestri) di mediazione. Raid aerei sono stati effettuati nella notte sull’aeroporto di Tripoli, con il generale Haftar che sembra in queste ore voler addirittura intensificare l’assedio alla capitale libica. Mentre il primo ministro del governo di unità nazionale, Fayez al Serraj, ha già dichiarato di voler accettare il cessate il fuoco proposto da Russia e Turchia a partire dalla mezzanotte di domenica prossima, 12 gennaio.

Il generale Khalifa Haftar, capo delle milizie denominate “Libyan National Army”, non ha ancora formalmente risposto all’appello. E i bombardamenti ordinati questa notte hanno il sapore dell’ennesima prova di forza, quantomeno dimostrativa. Il portavoce del sedicente esercito nazionale libico aveva annunciato l’estensione del divieto di sorvolo anche sulla base e sull’aeroporto Mitiga a Tripoli. E, per dire della situazione di caos nel quale versa il paese, ieri verso le 23 ora italiana un account Twitter riconducibile al LNA ha diffuso la notizia che il premier al Serraj sarebbe stato rapito da una milizia. Ma non sono stati trovati riscontri. L’ambasciatore libico all’Unione Europea, Hafed Gaddur, ha formalmente smentito la notizia.

Tre scenari per una crisi

Giornata caotica quella di ieri, mercoledì 8 gennaio, con la crisi libica finita contemporaneamente su tre palcoscenici diversi. Il primo, quello più drammatico, è lo scenario di guerra, proprio lì, attorno a Tripoli, dove il primo ministro al Serraj è sempre più asserragliato, pressato com’è dalle truppe dal generale Haftar, che passo dopo passo (già controllano le regioni dell’Est e di gran parte del Sud) stanno tentando di conquistare l’intero paese che fu del colonnello Gheddafi (l’ultima a cadere è stata pochi giorni fa Sirte, ora puntano su Misurata). Infatti al Serraj continua a invocare ad altissima voce l’intervento internazionale (il suo governo, è bene ricordarlo, è l’unico riconosciuto dall’Onu), con il supporto esplicito (non soltanto a parole, ma con armi e soldati), della Turchia. Mentre Haftar può contare sul sostegno di Russia, Egitto, Francia, Emirati Arabi e Arabia Saudita.

La “figuraccia” dell’Italia

Ieri al Serraj è volato a Bruxelles (secondo palcoscenico) per incontrare i vertici dell’Unione Europea (il presidente del Consiglio, Charles Michel, quello dell'Europarlamento, David Sassoli, e l'Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell). E per lanciare di persona la sua richiesta di aiuto internazionale: «Le sofferenze del popolo libico devono terminare all’istante», ha sostanzialmente detto al Serraj. «La Libia non può essere terra di escalation o di guerra per procura. La comunità internazionale deve assumersi la propria responsabilità per far terminare questa sofferenza». La visita europea di al Serraj prevedeva anche una tappa a Roma, nel tardo pomeriggio di mercoledì, dove avrebbe dovuto incontrare il premier Giuseppe Conte. Ma l’incontro è saltato. Perché nel frattempo Conte aveva già ricevuto il generale Haftar, sperando così di far sedere i due contendenti attorno ad un ipotetico tavolo, o comunque di avviare un punto di mediazione tra le parti e di riportare così l’Italia al centro dell’affaire Libia. Tentativo fallito. Appena al Serraj ha saputo che il generale Haftar l’aveva preceduto a Palazzo Chigi ha deciso, contrariato, di tornare immediatamente a Tripoli. «Non ci possono essere dialoghi o incontri con il criminale di guerra Haftar», ha fatto sapere Hafed Gaddur, l’ambasciatore libico all’UE. Tra coloro che parlano di “scivolone diplomatico” e di “figuraccia”, c’è anche la Russia, che attraverso il capo del gruppo di contatto russo per la Libia, Lev Dengov, ha accusato l’Italia di incapacità per non essere riuscita a organizzare in maniera corretta l’incontro tra il premier libico al Serraj e il generale Haftar.

Il patto tra Putin e Erdogan

E la Russia, sulla vicenda libica, ha voce in capitolo. Perché il terzo scenario, quello che si può considerare decisivo sul doppio piano operativo-diplomatico, si gioca proprio sull’asse Istanbul-Mosca. Sempre ieri a Istanbul, Erdogan e Putin si sono incontrati per celebrare assieme l’inaugurazione del Turkstream, la pipeline che porterà il gas russo nell’Europa dell’Est. Un pretesto per parlare d’altro, di Libia appunto, dove i due capi di stato, in realtà grandi alleati, giocano (almeno all’apparenza) su fronti opposti: l’uno con al Serraj (Erdogan), l’altro (Putin) con Haftar. «Ci sono delle divisioni fra noi, ma faremo in modo che non intacchino i rispettivi interessi nazionali», ha dichiarato mercoledì Erdogan prima del “vero” colloquio con il presidente russo, durato circa quattro ore, con i rispettivi ministri degli Esteri e della Difesa. Al termine del quale hanno stilato un comunicato congiunto nel quale chiedono che alla mezzanotte di domenica prossima, 12 gennaio, inizi una tregua, un cessate il fuoco. Nel comunicato, i due capi di Stato affermano di “sostenere la sovranità, l’indipendenza e l’unità nazionale della Libia”. Ma di fatto stanno creando le condizioni per avere ciascuno la propria zona d’influenza: la Turchia in Tripolitania, la Russia in Cirenaica.

Per questo al Serraj parla esplicitamente di “guerra per procura”. Perché Russia e Turchia si stanno spartendo il territorio libico: prima si schierano, poi rivendicano il ruolo di negoziatori e di “portatori di pace”. Il viaggio in Europa di al Serraj puntava proprio a questo: a scuotere l’Unione Europea e ottenere aiuti concreti (vale a dire armi): dell’azione diplomatica ormai non sa più cosa farsene. E non sembra al momento ci siano spazi per arrivare a una mediazione. Nell’enclave di Tripoli resta un premier accerchiato, con una bolla d’aria sempre più esigua. «Siamo determinati a proteggerci e nessuno ci toglierà questo diritto», ha dichiarato il primo ministro ripartendo da Bruxelles. «Vogliamo che l’aggressore (il generale Haftar) fermi i suoi attacchi contro il governo legittimo libico». Una tregua, dopo l’appello lanciato da Putin e Erdogan e nonostante il colpo di coda delle milizie di Haftar, sembra comunque possibile, se non probabile. La riprova si avrà soltanto dopo la mezzanotte del 12 gennaio.

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