SOCIETÀ

I 100 anni del Pci, tra giustizia sociale e rivoluzione

21 gennaio 1921, Livorno: in un’atmosfera tumultuosa da qualche giorno si tiene il XVII congresso del Partito socialista. In quel momento, con oltre il 32% dei voti raccolti alle elezioni politiche del 1919, i Socialisti sono la prima forza politica in parlamento, l’unico partito di massa assieme ai Popolari capace di presentarsi con lo stesso simbolo in tutte le circoscrizioni del Paese. Eppure da mesi sono dilaniati da lotte intestine. Il “biennio rosso” si è appena concluso con una delusione cocente: gli scioperi nelle grandi fabbriche del nord hanno portato, grazie alla mediazione del governo, a qualche aumento salariale ma non all’agognata rivoluzione.

Da Mosca, la nuova capitale del comunismo mondiale, l’ordine è chiaro: lo scontro con lo Stato capitalista deve essere totale, dubbi e gradualismi non sono più ammessi. Per aderire alla Terza Internazionale nata per volontà di Lenin bisogna respingere ogni forma di collaborazione con le forze democratiche borghesi e soprattutto espellere i riformisti dal partito, a cominciare da Filippo Turati. Alla fine si contano i voti provenienti dai congressi provinciali e a vincere è la mozione degli unitari di Giacinto Menotti Serrati, favorevoli alla rivoluzione ma contrari a cacciare i moderati. È allora che una parte dei delegati, guidati da Amadeo Bordiga, cantando l’Internazionale lascia il teatro Goldoni e si trasferisce al San Marco. Nasce così il Partito comunista d’Italia (Pcd’I), che dal 1943 si chiamerà Partito Comunista Italiano (PCI).

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello

Un cammino, quello che portò alla fondazione di quello che sarebbe diventato il più grande partito comunista dell'Europa occidentale, che oggi viene ripercorso e analizzato con dovizia di particolari da Marcello Flores e Giovanni Gozzini ne Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano, appena pubblicato da Laterza. La nuova compagine, secondo i due storici, è figlia di un fattore nazionale (la guerra) e di uno internazionale (la rivoluzione russa), a loro volta profondamente intrecciati. “L’idea di ‘fare come in Russia’ – scrivono Flores e Gozzini –. si impone prepotentemente come modello da seguire per la semplice ragione che ha avuto successo: è la prima volta che accade dai tempi della Comune di Parigi (1871) che però durò soltanto pochi mesi. Stavolta è diverso”.

Paradossalmente appena qualche mese dopo saranno Lenin e Trockij a perorare l’idea di un ‘fronte unico’ con i socialisti per conquistare la maggioranza della classe operaia, smentendo di fatto la scelta fatta a Livorno. È solo la prima della serie di giravolte imposte da Mosca che contrassegneranno la storia dei partiti comunisti. “Questo legame con la rivoluzione russa e con l'Unione Sovietica non ne determina solo la nascita, ma accompagna tutta la storia del Pci – spiega Marcello Flores nell'intervista a Il Bo Live –. Esso rappresenta da una parte una grande forza ideale, dall'altro ovviamente anche un aiuto di tipo organizzativo. Nel tempo però si rivelerà anche un limite perché il comunismo italiano, anche se in forme diverse nel corso degli anni, risulterà troppo appiattito nei confronti della politica sovietica”.

Il riferimento è ad esempio al periodo tra le due guerre, quando l'accettazione dello stalinismo è completa: basti pensare, scrive lo stesso Flores su La Lettura dello scorso 10 gennaio, che tra le vittime del terrore ci sono addirittura una cinquantina di fondatori del Pci iscritti in quel fatidico 1921, di cui 23 saranno fucilati e 12 spariranno nei Gulag. Giudicare la storia con il nostro metro è però facile ma non troppo utile: saranno proprio l’organizzazione, la disciplina ferrea e l’attitudine ‘religiosa’ a seguire il Partito alcune delle caratteristiche che permetteranno al movimento di sopravvivere durante il fascismo e di essere uno dei cardini della nuova Repubblica democratica. “Nel dopoguerra la forza del richiamo al mito dell'URSS, che si era costituito con Stalingrado, aiuta a far diventare il Pci un partito di massa ma fino agli anni ‘70 lo esclude dall'area di governo”.

Il legame con l'Urss e la rivoluzione russa non determina solo la nascita del Pci: ne accompagna tutta la storia

La storia del Pci termina trent’anni fa, settanta dopo la sua fondazione. A pesare ancora una volta è il fattore internazionale, a cominciare dal cosiddetto crollo del Muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Urss. Da allora la sinistra italiana tenta di camminare con le sue gambe, anche se continua ad essere non occasionalmente attratta da messia stranieri (il cui nome però non si scrive più in caratteri cirillici). E il comunismo? Si direbbe che non se la passi male, se continua ad essere l’ideologia di riferimento di una Cina ormai avviata ad essere la prima potenza globale. E persino nell’ex ricco occidente il fascino del marxismo-leninismo conosce una fase di risveglio, in particolare tra i più giovani.

“Credo che l'esperienza del comunismo si sia definitivamente conclusa con il crollo del blocco orientale e dell’Unione Sovietica – conclude Marcello Flores –. Oggi da un punto di vista socio-economico la Cina è un miscuglio di capitalismo di Stato e di capitalismo privato: se basta che al potere ci sia il partito allora il comunismo è ancora vivo, manca però una società globalmente alternativa al capitalismo. Per quanto riguarda i giovani, credo siano interessanti soprattutto alla possibilità e la necessità anche di trasformare un capitalismo che ha visto crescere in questi ultimi 30 anni delle forti disuguaglianze. Il problema è capire se ci si può ancora illudere che questo debba avvenire uscendo dal capitalismo, o quanto invece si tratti di modificare il sistema in profondità per costruire una società più democratica, giusta ed eguale. Quella tendenza che caratterizzava i riformisti da cui proprio nel 1921 ci si volle separare e che in quel momento vennero additati come nemici del comunismo”.

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