SOCIETÀ

Il 2022 come l'anno di svolta per i negoziati sulla biodiversità?

Il 2020 avrebbe dovuto essere l’anno della svolta in tema di tutela dell’ambiente. E invece è stato l’anno (il primo) della pandemia. Un’amara ironia: la diffusione di quel virus è stata, come sappiamo, una diretta conseguenza della pluridecennale negligenza istituzionale nel prendere decisioni coraggiose per preservare la natura, evitando la distruzione degli ambienti e il declino della biodiversità.

Tra i tanti eventi di rilevanza internazionale che, a causa dello scoppio della pandemia, sono stati rimandati vi è anche la quindicesima Conference of the Parties sulla biodiversità, patrocinata dall’ONU. Avrebbe dovuto tenersi nel 2020 per rinnovare e aggiornare gli obiettivi di salvaguardia della diversità naturale, in scadenza proprio in quell’anno. Dopo due anni di attesa, sembra che finalmente si possa tornare a negoziare in presenza: l’incontro è previsto a Kunming, in Cina, dal 25 aprile all’8 maggio 2022.

L’obiettivo è la stesura di un Post-2020 Global Biodiversity Framework che guidi la comunità internazionale ad intraprendere azioni per fermare la crisi ambientale in atto e invertire la tendenza negativa. Finora, questo genere di negoziati è invariabilmente fallito; questa volta, la differenza è che non c’è più tempo per tergiversare. L’ultimatum temporale, individuato al 2030 e al 2050, lanciato da IPCC e IPBES nei loro numerosi rapporti si avvicina. Gli effetti della destabilizzazione del clima e degli ecosistemi sono sotto i nostri occhi, e molti ne stanno già pagando lo scotto.

Come sottolinea Lorenzo Ciccarese – Responsabile dell’Area per la Conservazione delle specie e degli habitat e per la gestione sostenibile delle aree agricole e forestali presso l’ISPRA, autore principale di diversi rapporti IPCC, National Focal Point italiano dell’IPBES –, che partecipa attivamente ai negoziati della COP15 sulla biodiversità, l’obiettivo di questa COP è modificare la rotta, tracciare un nuovo percorso.

Guarda l’intervista completa a Lorenzo Ciccarese. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar

«L’accordo precedente, il Global Strategic Plan approvato nel 2010 dalla COP della Convention of Biological Diversity (CBD), che aveva stabilito per il periodo 2011-2020 i cosiddetti Aichi Targets, è stato un fallimento su quasi tutti i fronti. L’unico effettivamente realizzato è stato il Target 11, parte dello Strategic Goal C, che prevedeva l’estensione della protezione ad almeno il 17% degli ecosistemi terrestri e d’acqua dolce e al 10% delle aree marine entro il 2020. Tra le cause del fallimento vi è stata da una parte la complessità e la difficoltà di formulazione dei target stessi, e dall’altra la mancanza di una chiara assegnazione di compiti e responsabilità per la loro attuazione. Impostare soltanto degli static targets (obiettivi numerici, che spesso non tengono conto della fattibilità e oggettività delle richieste) si è dimostrato largamente insufficiente: è invece essenziale affrontare i problemi che, direttamente o indirettamente, sono all’origine della perdita di biodiversità».

«In questi giorni – prosegue Ciccarese – stiamo negoziando un testo molto complesso che in gergo è definito mainstreaming, e che, in breve, prevede l’integrazione del valore della natura e della biodiversità in tutti i settori economici e sociali, a livello locale e internazionale. La crisi ambientale (declino della biodiversità, riduzione delle funzioni ecologiche, impoverimento degli ecosistemi) e la crisi climatica vanno affrontate in sinergia, e non come problemi separati, e le azioni di contrasto a questi problemi devono essere integrate con le strategie economiche e sociali. Nel definire un piano di azione efficace bisogna considerare questa ineliminabile complessità».

Ed è proprio per riconoscere ed affrontare la complessità della situazione e delle possibili soluzioni che si è adottato, nella prima bozza del Global Biodiversity Framework, l’approccio whole-of-government e whole-of-society. Si tratta di una prospettiva che richiama la necessità di intervenire in maniera coordinata ai vari livelli decisionali, sia sui diversi piani di governance (dalla dimensione locale a quella sovranazionale), sia “dal basso”, coinvolgendo tutti i settori della società, le imprese e i numerosi portatori d’interesse della società civile.

«L’obiettivo – spiega il ricercatore dell’ISPRA – è innescare un vero e proprio cambiamento trasformativo [nella bozza del trattato si parla esattamente di transformational change]. Ciò di cui abbiamo bisogno è una trasformazione radicale del nostro sistema produttivo e di consumo. Per di più, questa trasformazione va attuata in breve tempo: gli obiettivi temporali del 2030 e del 2050 sono ormai dietro l’angolo. Tale cambiamento trasformativo richiede il contributo di tutti i decisori politici, a tutti i livelli, e il coinvolgimento dell’intera società.

Come evidenziato da un Rapporto pubblicato dal World Economic Forum all’inizio del 2020, più del 50% (quarantaquattromila miliardi di dollari) del PIL globale dipende direttamente o indirettamente dalla natura e dai servizi ecosistemici. Preservare la natura è dunque un imperativo perché ha un inestimabile valore in termini economici e di sopravvivenza umana». Questa, inoltre, non è certo l’unica motivazione per agire, poiché al mondo naturale va riconosciuto anche un valore edonistico, culturale, ricreativo, e, a ben guardare, un valore in sé.

Cambiamento trasformativo significa ripensare in modo radicale il modo di vivere affermatosi negli ultimi settant’anni, almeno nel mondo occidentale. Per molto tempo, riconoscere questa necessità è stato quasi un tabù: per questo è ancora più importante che, ora, una simile esigenza venga riconosciuta anche nell’ambito di negoziati internazionali che coinvolgono pressoché tutte le nazioni della Terra. «È essenziale – commenta a tal proposito Ciccarese – che abbandoniamo la nostra attitudine predatoria nei confronti della natura: dobbiamo essere consapevoli che il suo declino avrà un profondo impatto sulla qualità di vita dell’umanità. Fino a pochi anni fa, si riteneva che le più colpite sarebbero state le generazioni future, ma ormai quelle generazioni sono qui. Saranno loro, le giovani generazioni, a subire – oggi e in futuro – i più gravi effetti della crisi climatica e ambientale».

Siamo nel pieno della Decade of Action, iniziativa lanciata dalle Nazioni Unite per sottolineare che il 2030 si avvicina, e che le azioni di questi anni saranno cruciali per delineare il futuro. Siamo, forse, l’ultima generazione adulta che può capovolgere l’esito della crisi in atto. È il momento di agire.

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