SOCIETÀ

A 40 anni dalla rivoluzione iraniana: storia di un paese di forti contraddizioni

Quarant’anni fa l’ayatollah Khomeini rientrava a Teheran, dopo anni di esilio all’estero, acclamato da folle festanti. Era il 31 gennaio del 1979: l’epilogo della Rivoluzione iraniana, l’alba della Repubblica Islamica dell’Iran.

Il paese era al culmine di enormi tensioni sociali, politiche, economiche. Pochi giorni prima, il 16 gennaio, lo Scià Reza Pahlavi era stato costretto a fuggire in Marocco, oramai inviso a tutte le forze politiche (nazionalisti, comunisti, ma soprattutto al potentissimo clero) per le sue politiche oppressive, per la corruzione dilagante, per l’egocentrismo, per lo sfarzo che ostentava a fronte di una popolazione in sempre maggiore difficoltà, per la violenza con cui aveva risposto alla crescente insofferenza delle classi più povere del paese, per la brutalità con cui (attraverso i Savak, i servizi segreti imperiali) aveva stroncato qualsiasi forma di dissenso nei confronti della millenaria monarchia persiana. Proprio lui, l’artefice della Rivoluzione Bianca del ‘63, incoraggiata dagli Stati Uniti (che nel ’53, con la collaborazione della Cia e dei servizi britannici, gli avevano permesso di tornare al potere organizzando un colpo di stato contro il governo eletto del nazionalista Mohammed Mossadeq).

31 gennaio del 1979: l’epilogo della Rivoluzione iraniana, l’alba della Repubblica Islamica dell’Iran

L’obiettivo era anticipare le istanze progressiste che il partito comunista avrebbe potuto avanzare e cavalcare: perciò lo Scià aveva avviato una poderosa campagna di riforme, che i religiosi definirono con disprezzo una “occidentalizzazione di facciata”. Come la modernizzazione e lo sviluppo delle infrastrutture. O come il riconoscimento dei diritti alle donne, perfino con l’esplicito divieto d’indossare il chador (misura peraltro osteggiata dalle famiglie iraniane più tradizionaliste, che arrivarono a segregare in casa le proprie figlie pur di non farle uscire a capo scoperto).

Ma non fu l’unica critica. Molti ritennero che la modernizzazione imposta dallo Scià non contemplasse in realtà alcuna forma di partecipazione dei cittadini allo sviluppo del loro Paese. Come se Reza Pahlavi sognasse sì un Iran moderno, tecnologicamente avanzato e aperto alle influenze occidentali, ma pretendendo al tempo stesso di continuare a essere un sovrano assoluto.

La storia racconta che non ci riuscì. Perché la reale distanza che separava monarchia e popolo non fu mai colmata. Era il 1975 quando lo Scià, incalzato dalle contestazioni, dichiarò fuorilegge tutti i partiti politici, che ovviamente continuarono la loro attività clandestinamente. Nel ‘76 la crisi diventò palese, tangibile: aumento drammatico della disoccupazione, inflazione fuori controllo. Nel maggio del ‘77 cominciarono le proteste di piazza: prima gli intellettuali, poi i religiosi, seguiti dagli studenti, infine dai movimenti politici, i nazionalisti, i comunisti. Una rivoluzione di massa, che minò le fondamenta del castello monarchico. Fino alla fuga dello scià, e al ritorno in patria di Khomeini.

Crollata la monarchia, furono i religiosi sciiti a conquistare il controllo del paese. Khomeini a prendere il testimone. Nel referendum che si svolse nel marzo del 1979, fu chiesto agli iraniani se volessero mantenere il sistema esistente o diventare una Repubblica Islamica: vinse quest’ultima con il 98,2 per cento dei voti.

In un altro referendum, a dicembre, venne approvato il nuovo assetto costituzionale, basato sul velayat-e-faqih (il governo del giureconsulto). Il sistema, elaborato proprio da Khomeini negli anni del suo esilio (prima in Iraq, poi in Francia), prevedeva l’instaurazione di un governo islamico basato sull’idea della città-stato del Profeta, con il potere nelle mani dei cultori dell’Islam e con a capo la Guida Suprema (Khomeini).

Venne costituito un corpo speciale di “guardiani della rivoluzione”, quei pasdaran che acquisirono gran prestigio negli anni della guerra Iran-Iraq (1980-1988) e che ancora oggi controllano larghi settori dell’economia iraniana, a partire da quelli strategici. A partire dal petrolio. Ma il nuovo potere religioso mostrò immediatamente il segno del cambiamento rispetto al passato: vietate le bevande alcoliche, il gioco d'azzardo, la prostituzione. Ordinò persecuzioni e condanne contro gli omosessuali e contro qualsiasi comportamento non conforme alla sharia. Cancellò d’un tratto i diritti delle donne (età minima del matrimonio ridotta a 9 anni, divieto d’istruzione alle donne sposate, hijab obbligatorio sui luoghi di lavoro, spiagge e attività sportive riservate alle sole donne, l’adulterio un crimine da punire con la lapidazione, reintroduzione della poligamia).

Torna alla mente la famosa intervista di Oriana Fallaci all’ayatollah Khomeini, uscita il 26 settembre del ’79 sul Corriere della Sera, con quel memorabile incipit:

«Il suo ritratto è ovunque, come una volta il ritratto dello Scià. Ti insegue nelle strade, nei negozi, negli alberghi, negli uffici, nei cortei, alla televisione, al bazaar: da qualsiasi parte tu cerchi riparo non sfuggi all’incubo di quel volto severo ed iroso, quei terribili occhi che vegliano ghiacci sull’osservanza di leggi copiate o ispirate da un libro di millequattrocento anni fa».

Straordinario affresco di un paese che stava bruscamente, radicalmente mutando pelle, ossessionato dal rispetto delle leggi islamiche, pronto a tutto pur di difendersi dal demone occidentale. Domandava, tra l’altro, la Fallaci: «Imam Khomeini, lei si esprime sempre in termini molto duri verso l’Occidente. Da ogni suo giudizio su noi si conclude che lei ci vede come campioni di ogni bruttezza, di ogni perversità. Eppure l’Occidente l’ha accolta in esilio e molti dei suoi collaboratori hanno studiato in Occidente. Non le pare che ci sia anche qualcosa di buono in noi»?

E Khomeini così rispose:

«Qualcosa c’è. Ma quando siamo stati morsi dal serpente temiamo anche uno spago che assomigli da lontano a un serpente. E voi ci avete morso troppo. E troppo a lungo. In noi avete sempre visto un mercato e basta, a noi avete sempre esportato le cose cattive e basta. Le cose buone, come il progresso materiale, ve le siete tenute per voi. Sì, abbiamo ricevuto tanto male dall’Occidente, tante sofferenze, e ora abbiamo tutti i motivi per temere l’Occidente, impedire ai nostri giovani di avvicinarsi all’Occidente e farsi ulteriormente influenzare dall’Occidente. No, non mi piace che i nostri giovani vadano a studiare in Occidente dove vengono corrotti dall’alcool, dalla musica che impedisce di pensare, dalla droga, e dalle donne scoperte».

Pochi giorni dopo ci fu la crisi degli ostaggi all’Ambasciata americana. E i rapporti Usa-Iran furono definitivamente incrinati.

Oggi la guida spirituale è l’ayatollah Alì Khamenei, mentre il presidente è Hassan Rouhan

Oggi, quarant’anni dopo quel cambio di rotta così radicale che segnò la storia dell’Iran e dell’intero Medio Oriente, è doveroso tentare di tracciare un bilancio, capire come la Rivoluzione abbia trasformato il Paese, da un punto di vista sociale, culturale, politico, strategico. Capire in quale direzione stiano andando le speranze degli iraniani, valutare il peso dell’Iran sullo scacchiere internazionale.

Ovviamente sono cambiati gli attori principali: di quell’epoca, di quella generazione, quasi più nessuno è rimasto. Oggi la guida spirituale è l’ayatollah Alì Khamenei, mentre il presidente, più moderato, è Hassan Rouhani. I social, teoricamente, sarebbero vietati: per accedere a Facebook e Twitter basta disporre di una Vpn (rete internet privata). E tutti li usano, alla luce del sole: dai giovani ai politici, compreso il presidente o il ministro degli esteri Javad Zarif (sul suo profilo Twitter è riportata la data d’iscrizione: giugno 2009), che hanno account aggiornati anche in inglese (il che vuol dire che l'obiettivo è essere ascoltati anche al di fuori dell’Iran). Sullo scenario politico, dopo l’uscita unilaterale dall’accordo nucleare decisa dal presidente americano Donald Trump, continua il solito refrain: per gli Stati Uniti l’Iran è il nemico numero uno, con sanzioni imposte non solo a Teheran, ma a chiunque non mostri nei loro confronti pari durezza.

Dunque, come è cambiato l’Iran in questi 40 anni? Cos’è diventato questo paese sterminato (grande oltre cinque volte l’Italia) e come ha influito sul suo sviluppo il perdurare della Repubblica Islamica?

Antonello Sacchetti è un giornalista, profondo conoscitore dell’Iran, fondatore del blog “Diruz, l’Iran in italiano” e autore del libro “Iran 1979. La Rivoluzione, la Repubblica islamica, la guerra con l’Iraq” (Infinito Edizioni).

«Per comprendere i cambiamenti ci sono alcuni indicatori importanti, da tenere in considerazione. Anzitutto l’alfabetizzazione. Nell’intervista che Reza Pahlavi rilasciò a Oriana Fallaci nel 1973, lo stesso Scià ammetteva che nonostante il suo impegno, nonostante la creazione dell’Esercito del Sapere (una specie di corpo di leva, con giovani ragazzi che avevano studiato, anche all’estero, e che furono mandati ad insegnare negli angoli più sperduti del paese) solo il 25% degli iraniani sapeva leggere e scrivere. Oggi quella percentuale ha superato l’80%. Anche gli indici demografici sono in continuo aumento: nel ’79 l’Iran aveva 37 milioni di abitanti, oggi sono più di 82 milioni. Noi riceviamo spesso un’immagine banalizzata dell’Iran, vediamo le foto di allora, con le ragazze in minigonna e senza velo affiancate a quelle di oggi, con le giovani che indossano l’hijab.

E’ innegabile che la riforma del codice civile voluta da Khomeini abbia penalizzato e marginalizzato le donne. Ma da allora c’è stata un’evoluzione. Non dimentichiamo che un tempo l’università era riservata solo a una minoranza di studenti. Dopo l’avvento dei religiosi al potere l’Università rimase chiusa tre anni. Oggi invece è un fenomeno di massa che riguarda moltissimi giovani e soprattutto ragazze, che sono addirittura in maggioranza, si stima attorno al 65%, comprese quelle private.

Per accedere all’Università pubblica, islamica, bisogna sostenere un severo test di accesso. E in alcune facoltà, come odontoiatria, sono state introdotte delle quote azzurre, per riservare anche agli uomini una percentuale di iscrizioni, per evitare una sempre più schiacciante predominanza femminile. E questo vale in tutti gli ambiti della cultura, dell’arte. Le donne lavorano, scrivono. L’Iran non è come la società saudita. Altro esempio: nel primo Parlamento della Repubblica Islamica c’erano tutti mullah e una sola donna. Oggi, dopo 40 anni, le donne in Parlamento sono diciotto e per la prima volta hanno superato per numero gli stessi mullah».

Vuol dire che i religiosi stanno cedendo terreno? Può essere un segnale che qualcosa sta cambiando?

«A mio avviso no. Perché i religiosi continuano a comandare e a presiedere le istituzioni chiave, come il Consiglio dei Guardiani. La politica iraniana è particolare, nelle analisi non dobbiamo dimenticare che ci muoviamo sempre nell’alveo della Repubblica Islamica. Non sono ammesse posizioni che contemplino forme diverse o addirittura un cambio di regime. Perciò la selezione dei candidati è estremamente severa. Non devono essere “scomodi” al sistema. Fatta questa premessa, poi la competizione è vera, serrata, tanto che non sono mancate sorprese, come l’elezione di Rohuani».

Quindi la Repubblica Islamica è salda e solida?

«L’Iran è un paese di forti contraddizioni, che non gode di grandi simpatie non soltanto in Occidente, con molti nemici dichiarati, ma che paradossalmente rappresenta a oggi una delle realtà più stabili e forti in un Medio Oriente in grande tumulto. Anche se bisogna andarci cauti con le definizioni: basti ricordare il presidente americano Carter, che nel 1978 definì l’Iran “un’oasi di pace”. E pochi mesi dopo lo Scià fu costretto all’esilio. Credo che la vera forza dell’Iran non sia l’immobilità, la “chiusura”, come erroneamente si potrebbe immaginare, ma la capacità di adattarsi a quel che intorno accade, ed è accaduto di tutto. Un atteggiamento poco ideologico e molto flessibile, pragmatico. L’Iran ha collaborato con gli americani nella guerra contro i talebani, consentendo loro, ad esempio, il sorvolo. Con l’Iraq, nemico storico, i rapporti sono oramai così stretti che qualcuno lo definisce un “protettorato iraniano”. L’Iran è uno dei pochi paesi ad aver combattuto l’Isis sul terreno, con i pasdaran. E’ un Paese che è cambiato moltissimo, pur mantenendosi all’interno di uno schema ben definito. E’ paese che ha il suo asset nello Stato, ancor più che nel petrolio. Anche se è un paese accerchiato. Oggi nessuno può sapere che fine farà, o quanto ancora durerà, la Repubblica Islamica. Anche se negli anni i militari, i pasdaran, hanno conquistato spazi sempre maggiori e un potere, anche economico, molto forte».

Ma c’è malcontento nel paese? Nel 2020 ci saranno le elezioni legislative, nel 2021 le presidenziali...

«Ce n’è molto. Per l’economia soprattutto. Rouhani era stato eletto a sorpresa per firmare l’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti, il che voleva dire uscire dall’isolamento internazionale, richiamare investimenti. Che però sono stati molto inferiori al previsto. Poi c’è la corruzione, gli scandali finanziari, i problemi d’inquinamento, gli effetti del cambiamento climatico per lo sfruttamento irresponsabile del territorio, in questi giorni ci sono state inondazioni spaventose, mai viste. I problemi ci sono, e gravi. Il malcontento anche. Ma non tale da ipotizzare, almeno a quanto si può intuire oggi, un cambio di assetto dello Stato».

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