È a pochi chilometri dalle nostre coste, più vicina del Belgio o della Spagna, e con essa condividiamo una storia fatta di scambi e di scontri. Spesso tuttavia del continente africano si continua a parlare come di una realtà distante, in un misto di esotismo e di pietismo. Eppure l’Africa ha rappresentato un sogno per generazioni italiani, e per un periodo slogan come la ricerca di un “posto al sole” e di una “quarta sponda” hanno riempito le piazze e le pagine dei giornali. Così come c’è stato, a partire dagli anni ‘60, un grande interesse per le vicende e le speranze dei giovani Paesi africani, tra marce per il Terzo Mondo (secondo l’espressione in voga al tempo) e film come La battaglia di Algeri.
Un passato recentemente riportato alla memoria da Leila El Houssi, docente di Storia e istituzioni dell’Africa alla Sapienza di Roma, con il libro L' Africa ci sta di fronte. Una storia italiana: dal colonialismo al terzomondismo (Carocci 2021). Un volume che nasce da anni di studi ma prende anche spunto dall’attualità: “Pensiamo al movimento Black Lives Matter e alla polemica che si è sviluppata negli Usa intorno a statue e monumenti – spiega la storica a Il Bo Live –. Anche da noi non mancano i riferimenti a un passato multiculturale ma anche coloniale, come vie e strade intitolate alla Libia e alla Somalia, oppure alle battaglie di Dogali e di Adua: quanti però oggi, soprattutto tra i giovani, sono in grado di comprenderli?”.
Il volume prende le mosse proprio dall’inizio dell’avventura coloniale italiana, con l’occupazione nel 1882 della piccola baia di Assab, nell’attuale Eritrea, già acquistata qualche anno prima dalla compagnia Rubattino. Sono gli anni in cui il canale di Suez fa del Mar Rosso un luogo strategico per gli equilibri mondiali e l’Italia, sebbene ancora invischiata nei postumi della riunificazione, prova e ad entrare nella partita seguendo le orme di Francia e Inghilterra. Fin dall’inizio però il percorso è pieno di difficoltà e di rovesci: nel 1887 una colonna militare cade in un’imboscata tesa dalle truppe abissine nei pressi di Dogali, lasciando sul terreno 430 uomini. È solo un anticipo di quello che avverrà ad Adua il 1° marzo 1896, quando le forze comandate dal generale Baratieri saranno annientate da quelle del negus Menelik.
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio; montaggio di Elisa Speronello
Per anni le velleità italiane in Africa segneranno il passo, fino a riprendere un quarto di secolo più tardi con l’annessione della Tripolitania e della Cirenaica: anche qui però gli occupanti dovranno fronteggiare la rivolta dei Senussi, perlomeno fino alla cattura e all’impiccagione nel 1931 della loro guida Omar al-Mukhtar. Un percorso in cui il regime fascista appare in perfetta continuità con l’Italia liberale: fino a quando, con l’occupazione dell’Etiopia nel 1936, “l'Impero riappare sui colli fatali di Roma”, per dirla con la retorica mussoliniana. Nasce l'Africa Orientale Italiana, destinata a durare appena cinque anni: un sogno per il fascismo, un incubo per buona parte delle popolazioni locali.
Quello italiano non fu un colonialismo buono o dal volto umano, come testimoniano la ferocia con cui furono condotte le operazioni belliche, con uso di bombardamenti aerei e di gas anche sulla popolazione civile, e la successiva brutale repressione, costellata di stragi come quella di Debre Libanos in Etiopia, dove 297 monaci e 23 laici furono sterminati su ordine di Rodolfo Graziani. Nomi che per anni sono stati ignorati dai testi scolastici e dalla stessa pubblicistica italiana, impegnata a sostenere che in fondo gli italiani avevano portato la civiltà ed erano andati a “costruire le strade” (come ricorda provocatoriamente il recente volume di Francesco Filippi). Una leggenda rosa contro cui si è battuta una generazione di storici e di accademici: a partire dal recentemente scomparso Angelo Del Boca, che sul punto ingaggiò e vinse una querelle contro Indro Montanelli (già ufficiale delle nostre truppe coloniali).
“ Quello italiano non fu un colonialismo buono o dal volto umano
L'Africa Orientale Italiana. Padova, municipio
Vero è che il colonialismo italiano presenta caratteri peculiari, essendo stato pensato più per dare uno sfogo alla crescente pressione demografica proveniente dalla madrepatria piuttosto che per costruire un efficiente impero commerciale e industriale. Sta di fatto che, soprattutto dopo la conquista dell’Etiopia, le colonie furono anche teatro dell’elaborazione e della messa in pratica della prima legislazione razzista del fascismo, che in seguito sarebbe in parte servita da modello per quella contro gli ebrei. Comunque la si veda il contributo dell’Italia al riassetto del continente africano fu, nonostante i suoi limiti, tutt’altro che trascurabile, se solo si pensa al contributo dato all’“invenzione” di nuove entità nazionali come Libia ed Eritrea.
Un rapporto complesso e ricco di zone d’ombra che con la fine della guerra e la nascita della Repubblica viene in qualche modo messo da parte, nonostante i timidi tentativi di mantenere almeno parte dei possedimenti oltremare (tanto che l’Italia avrà l’amministrazione fiduciaria della Somalia su mandato Onu fino al 1960). Con la decolonizzazione l’Africa riacquista di nuovo un suo ruolo, importante se non proprio centrale, nel nostro dibattito pubblico, e grazie a figure come Giorgio La Pira e Amintore Fanfani, ma anche a Pietro Nenni, l’Italia riesce a vedere un’opportunità nello smantellamento dei vecchi imperi coloniali. Anche dal punto di vista economico, con l’Eni di Enrico Mattei che in pochi anni cambia il paradigma del rapporto tra compagnie petrolifere e Paesi produttori.
“ Spiccano nelle relazioni con gli Stati africani le figure di due presidenti della Repubblica come Saragat e soprattutto Segni
Nel quadro tracciato con precisione dal libro di El Houssi spiccano in particolare le figure di due presidenti della Repubblica come Giuseppe Saragat e soprattutto Antonio Segni, artefici di una vera e propria strategia diplomatica “terzomondista”. I due capi dello Stato italiani, passati entrambi al ministero degli esteri prima di approdare al Quirinale, visitano il continente e ricevono i loro omologhi africani, concludendo accordi di cooperazione economica, commerciale e culturale. Negli stessi anni cresce anche la cooperazione italiana in Africa, che spesso si appoggia alla rete di missioni e di strutture cattoliche che svolgono un’opera determinante e meritoria in settori fondamentali come istruzione e sanità (si pensi solo al Cuamm, che proprio l’anno scorso ha compiuto 70 anni).
Gli anni ’70 e ’80 sono quelli della politica mediterranea e filoaraba di Andreotti e di Craxi, ma dopo lo shock di Mani Pulite l’Italia sembra in parte chiudersi in sé stessa. Un atteggiamento che, con poche eccezioni, dura fino ad oggi, nonostante l’Africa sia tornata ad essere il terreno di confronto e di scontro tra grandi e piccoli potenze: dalla Cina agli Stati Uniti, passando per Turchia e Francia. Un legame antico, quello tra Italia e Africa, che oggi con l’immigrazione si arricchisce di un elemento nuovo. E qui si ritorna allo spunto di partenza: quanto sappiamo delle nostre vicende comuni, e quanto queste possono facilitarci od ostacolarci nel comprendere il presente?
“La nostra storia è diversa da quella degli Stati Uniti e di altri Paesi dove la presenza di comunità africane e arabe è più antica – conclude Leila El Houssi –: forse da noi non c’è un livello di razzismo paragonabile, tuttavia c’è la questione urgente della cittadinanza, dalla quale oggi sono esclusi tanti, troppi giovani nati o comunque presenti in questo Paese. Così come in molti ambienti c’è ancora una certa resistenza rispetto a persone con nomi e cognomi diversi rispetti a quelli a cui siamo abituati: una paura del diverso, alimentata anche da certa politica, che può essere superata solo con la conoscenza e la cultura”. A patto di avere il coraggio di guardare anche al passato con onestà e rispetto, valorizzando i punti comuni ma scegliendo di non ignorare errori ed orrori.
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