Un foro di proiettile nella città di Shire nella regione del Tigray, Etiopia. Foto: Reuters
In Etiopia lo scenario s’è improvvisamente ribaltato. C’è un esercito in fuga, ed è quello etiope: quello che nel novembre dello scorso anno, su ordine del premier Abiy Ahmed (vincitore nel 2019 di un premio Nobel per la pace) aveva lanciato una feroce offensiva contro i ribelli del Tigray People’s Liberation Front (Tplf) con il pretesto che avevano attaccato alcune postazioni militari. In realtà per piegare, a qualsiasi costo (anche il più spregevole), la resistenza del gruppo etnico più organizzato e pericoloso, che più di qualsiasi altro si opponeva al progetto del premier di superare, a livello di governo centrale, la spartizione delle cariche istituzionali in base alle etnie di appartenenza (e che perciò aveva fondato il Partito della Prosperità, un’unica formazione politica composta da tutti i partiti). L’esercito etiope, in combutta con quello eritreo, proprio in nome di questa “guerra regionale” si è macchiato di crimini orrendi, con migliaia di civili tigrini uccisi nei rastrellamenti casa per casa, compresi gli anziani e i bambini, oltre alle donne, prima stuprate però. «Quello che è avvenuto è inimmaginabile», ha detto al New York Times Letay Tesfay, della Tigray Women's Association. Un’atroce campagna di pulizia etnica, come denunciato in quest’ultimo anno da tutte le principali organizzazioni umanitarie, da Amnesty International a Human Right Watch. Al punto che il presidente del Tigray People’s Liberation Front, Debretsion Gebremichael, riuscito a sfuggire alla furia dei militari, aveva accusato alcuni mesi fa il governo etiope e i suoi alleati eritrei di genocidio.
Alleanza tra le etnie
La partita sembrava chiusa, tale la sproporzione delle forze in campo (il governo etiope ha acquistato negli ultimi mesi armamenti da Cina, Turchia, Iran ed Emirati Arabi). Ma i tigrini, militarmente addestrati (molti hanno servito nell’esercito in passato), hanno saputo non soltanto resistere, ma anche allargare il proprio campo delle alleanze, coinvolgendo altre etnie contrarie al piano di centralizzazione di Abiy Ahmed. Come l’Oromo Liberation Army, che punta a conquistare l’indipendenza dell’Oromia, la regione più popolosa dell’Etiopia, e che lo scorso agosto aveva annunciato un’alleanza strategica con il Tplf per combattere “lo stesso nemico” (nonostante il premier etiope Abiy sia di etnia oromo: non un dettaglio da poco). E questo è bastato per cambiare l’inerzia del conflitto: prima la riconquista da parte dei ribelli della capitale del Tigray, Mekelle. Poi l’avanzata verso le regioni confinanti Amhara e Afar, con la conquista delle città di Dessiè e Kombolcha (smentita dal governo etiope, che ha parlato di “propaganda”), a circa trecento km dalla capitale Addis Abeba. E i continui raid aerei dell’aviazione etiope (diversi bombardamenti sono stati segnalati a Mekelle nella seconda metà di ottobre) non sono riusciti a rallentare l’avanzata delle truppe tigrine, che evidentemente hanno capito la fragilità dell’esercito federale, puntando alla capitale, al centro del potere. Quindi non più un conflitto regionale limitato al Tigray, ma una vera guerra civile. Le defezioni nell’esercito nazionale si moltiplicano: a centinaia raggiungono gli schieramenti appartenenti alla propria etnia. E sono nove, finora, le fazioni anti-governative che si sono alleate con l’obiettivo di rovesciare il governo di Abiy Ahmed e il suo progetto di creare una Etiopia statalista e centralizzata, eliminando la peculiarità (e il potere) delle etnie locali.
Le informazioni che filtrano sono poche e poco verificabili, ma arrivano segnali della tensione riflessa. Come la dichiarazione dello stato d’emergenza proclamato dal premier Abiy, che ha chiamato il popolo (vale a dire i civili) «a sospendere le attività per marciare e usare ogni tipo di arma per seppellire i terroristi del Tplf venuti per distruggere il Paese». Toni sopra le righe, non propriamente da Nobel per la pace. E, di fatto, un incoraggiamento alla formazione di milizie non addestrate e senza alcun controllo. Al punto che anche l’ambasciata degli Stati Uniti ad Addis Abeba ha diramato un’allerta, ordinando la partenza dall'Etiopia dei dipendenti del governo americano e dei loro familiari a causa di conflitti armati, disordini civili e possibili carenze di forniture: “C’è un deterioramento significativo delle condizioni di sicurezza, e la situazione potrebbe aggravarsi ulteriormente".
L’Italia esprime profonda preoccupazione per il deteriorarsi della situazione in #Etiopia di questi ultimi giorni, che rappresenta un serio rischio per la stabilità del paese e di tutta la regione pic.twitter.com/kw8tsKBCFZ
— Farnesina 🇮🇹 (@ItalyMFA) November 4, 2021
Anche la Farnesina ha chiesto agli italiani di lasciare il Paese prima possibile. A quanto risulta, l’autostrada che collega la capitale al nord del Paese (teatro degli scontri più intensi, ma ce ne sono anche a sud, per l'azione delle fazioni Oromo) è in gran parte interrotta. Il timore, per il governo centrale, è che la capitale possa finire accerchiata dalla manovra dei ribelli. Il ministro della giustizia ha annunciato che chiunque violi lo stato d’emergenza (che resterà in vigore per 6 mesi) rischia da 3 a 10 anni di carcere per aver fornito “sostegno di qualunque genere a gruppi terroristici”. Uno stato d’emergenza che garantisce al governo un potere incontrollato e che Amnesty International ritiene “troppo ampio, che si estende a tutto il paese e limita i diritti umani”, poiché consente alle autorità di arrestare chiunque senza mandato e di tenerlo in carcere anche soltanto in base a un sospetto. Secondo Deprose Muchena, direttore regionale di Amnesty International per l'Africa orientale e meridionale, «questo stato di emergenza è un modello per l’escalation delle violazioni dei diritti umani, inclusa la detenzione arbitraria, in particolare di difensori dei diritti umani, giornalisti, minoranze e critici del governo». A rischiare, e molto, potrebbero essere anche gli attivisti per i diritti umani, i giornalisti, le stesse licenze delle ONG potrebbero essere sospese arbitrariamente. Intanto continuano le vendette etniche. Venerdì scorso la polizia paramilitare ha fatto irruzione nell’Istituto Don Bosco di Addis Abeba, arrestando 38 persone tra preti, suore e volontari di organizzazioni umanitarie, caricati a forza sulle camionette e portati chissà dove. Tutti di origine tigrina. Stessa etnia dei professori assassinati (alcuni linciati) nelle ultime settimane presso le Università di Bairdar e di Wollo, nella regione dell’Amhara. Anche 16 membri dello staff delle Nazioni Unite ad Addis Abeba sono stati prelevati con la forza dalla polizia, come ha denunciato ieri il portavoce dell’Onu, Stéphane Dujarric, chiedendo il loro rilascio immediato (sarebbero comunque detenuti nella capitale). Nei giorni scorsi esponenti del governo centrale etiope avevano accusato le Nazioni Unite, i media occidentali e alcuni gruppi umanitari di “simpatizzare con i ribelli del Tigray”.
Il disastro umanitario
Alla preoccupazione per gli esiti della guerra si aggiunge dunque quella per la difesa della popolazione civile, già martoriata da un anno di conflitto. Secondo un report pubblicato il mese scorso dall’Ocha, l’ufficio delle Nazioni Unite che si occupa di affari umanitari, soltanto nelle regioni settentrionali dell’Etiopia, compreso il Tigray, ci sono oltre 5 milioni e 200mila persone che hanno bisogno di aiuti, di cibo, di medicinali. Di queste, 400mila persone di queste sono totalmente indigenti e 200mila bambini non hanno ricevuto le vaccinazioni fondamentali (e non si parla di Covid-19: quello è un altro capitolo drammatico). E raggiungerle, vale a dire portare un aiuto concreto, è difficilissimo. La stessa Ocha stima che dal 12 luglio scorso sono riusciti a entrare nella zona di guerra poco più di 600 camion d’aiuti umanitari, mentre per far fronte alla gravissima crisi umanitaria ne servirebbero “almeno 100 al giorno”. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha lanciato pochi giorni fa un appello chiedendo l’immediato cessate il fuoco. Troppo poco secondo Human Rights Watch: «L’Unione Africana e le Nazioni Unite dovrebbero andare oltre le discussioni e agire per evitare ulteriori atrocità in Etiopia», ha dichiarato Kenneth Roth, direttore esecutivo di HRW. Che punta il dito proprio contro Addis Abeba: «Il governo etiope, i suoi alleati e gli oppositori dovrebbero fermare le azioni e le politiche che rischiano di incitare agli abusi e adottare misure urgenti per garantire che i diritti di tutte le comunità siano pienamente protetti». E la tensione resta altissima. Secondo diversi rapporti di intelligence, non sono da escludere attentati al Bole International Airport di Addis Abeba.
«Il conflitto etiope si sarebbe dovuto evitare ad ogni costo. Ma al punto in cui siamo sembra improbabile che i combattimenti possano lasciare il campo a una soluzione negoziale», scrive su Ispi (l’Istituto per gli studi di politica internazionale) Uoldelul Chelati Dirar, professore Associato di Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università di Macerata. «Una vittoria delle forze tigrine, che controllano tutti i centri strategici e le vie di approvvigionamento mentre il governo centrale è arroccato ad Addis Abeba e nel sudovest dell’Etiopia, è ormai più che verosimile. I toni drammatici del discorso del premier Abiy Ahmed lo dimostrano: il governo è allo sbando. Unica variabile è quella dell’Eritrea». Perché questa potrebbe essere l’evoluzione del conflitto: Asmara, dopo aver appoggiato militarmente la politica di Abiy, si ritrova a fronteggiare la nuova avanzata dei ribelli tigrini. E se, come sembra, il Tplf riuscirà a far cadere il governo di Abiy, è assai probabile che in una fase successiva possa attaccare l’Eritrea per riprendere il controllo dei propri territori, ma in realtà per risolvere una volta per tutte i contrasti con il regime del dittatore Isaias Afewerki.
Evoluzioni future, si vedrà. Ma ora la partita militare si gioca tutta in Etiopia. Negli ultimi giorni diverse manifestazioni a favore del governo centrale si sono svolte ad Addis Abeba (c’è chi sostiene su input dello stesso premier), per protestare “contro l’aggressione delle forze ribelli”, e contro le sanzioni commerciali imposte dagli Stati Uniti all’Etiopia proprio per “la sua incapacità di porre fine a una guerra di quasi un anno nella regione del Tigray che ha portato a grosse violazioni dei diritti umani”. Anche questo potrebbe essere letto come il segnale che la diplomazia internazionale stia abbandonando l’attuale esecutivo al suo destino. Perfino la Turchia (che dall’agosto scorso ha venduto al governo centrale armi per oltre 50 milioni di dollari, compresi 14 droni da combattimento) ha preso le distanze, sostenendo di voler tenere “relazioni amichevoli con tutti i gruppi etnici”, proponendosi come mediatore per una pace. Ruolo che, concretamente, sta già svolgendo Jeffrey Feltman, inviato speciale degli Stati Uniti nel Corno d'Africa, d’intesa con il rappresentante dell’Unione africana, l’ex presidente nigeriano Olesegun Obasanjo. L’obiettivo sarebbe raggiungere un accordo entro la fine della settimana per il cessate il fuoco e il ritiro di tutte le parti in conflitto, che consentirebbe anche l'accesso alle aree interdette per l’ingresso degli aiuti umanitari nelle zone più colpite dalla carestia. Ma l’esito della trattativa resta incerto. L’alleanza etnica (che si è data il nome di “Fronte unito dell’Etiopia federalista e delle forze confederaliste”) non sembra avere alcuna intenzione di negoziare: vuole soltanto la resa incondizionata di Abiy Ahmed come pre-condizione per sedersi a un tavolo. C’è chi sostiene che l’ex premio Nobel starebbe già pianificando la fuga, per sé e per i suoi familiari, all’estero.