CULTURA

Le altezze infinite di Alberto Giacometti

È lo scultore delle altezze che puntano al cielo, delle nove lunghissime variazioni di Donna di Venezia, della Donna in piedi, che raggiunge quasi i tre metri, dell'Uomo che cammina, venduto da Sotheby’s nel 2010 per 104 milioni di dollari, dei cani e dei gatti, delle piazze popolate da figure filiformi, di disegni (in particolare ritratti di amici, familiari e artisti) che sono strumenti per vedere, studiare, capire il vero e che fissano l'espressione dello spirito, eliminando il superfluo, di quadri con paesaggi conosciuti e amati, in cui i colori si fanno espansione della luce sulla tela. Ed è anche l'uomo che, con vaghezza e al tempo stesso assoluta precisione, cercava di definire se stesso: "Io non so chi sono, né chi ero. Mi identifico con me stesso e non mi identifico, ma forse sono identico al ragazzino che ero a dodici anni".

La storia d'arte e vita di Alberto Giacometti (1901-1966) - segnata da un profondo legame con il padre Giovanni, pittore, con il quale nel 1920 visita, innamorandosene, la Cappella degli Scrovegni a Padova, e con la sua terra natale, la Val Bregaglia in Svizzera - viene ora raccontata attraverso Il tempo di Giacometti, da Chagall a Kandinsky. Capolavori dalla Fondazione Maeght, mostra curata da Marco Goldin e allestita, fino al 5 aprile prossimo, al Palazzo della Gran Guardia di Verona.

Il titolo rivela la sostanza del progetto espositivo che offre non solo l'occasione di scoprire l'artista svizzero in settanta opere, provenienti dalla fondazione francese di Saint-Paul-de-Vence, nata dalla felice esperienza dei galleristi Aimé e Marguerite Maeght, ma di incontrare, in una ventina di dipinti, anche il genio di altri artisti, Kandinsky, Braque, Chagall, Miró, Derain e Léger, come Giacometti attivi a Parigi tra le due guerre e fino agli anni Cinquanta e Sessanta. 

Non potrei immaginare una infanzia e una giovinezza più felici di quelle che ho vissuto con mio padre e con tutta la mia famiglia Alberto Giacometti
Certo, io faccio pittura e scultura e questo da sempre, dalla prima volta che ho disegnato o dipinto, per mordere la realtà, per difendermi, per nutrirmi, per crescere... Alberto Giacometti

"Non appena il mio sguardo cerca di prendere familiarità con loro, di avvicinarle, ecco che [...] esse si allontanano a perdita d'occhio": lo scrittore Jean Genet, testimone del lavoro di Giacometti in atelier sulle Donne di Venezia, descriveva così quelle figure, con il torso appiattito e la testa piccola, capaci di provocare un sentimento di familiarità e al tempo stesso di impenetrabile mistero. Ed è una sensazione che ben si sposa con la "doppia" idea che aveva di sé lo stesso Giacometti, con quella sua incerta capacità di identificazione. 

"Scultura, pittura, disegno sono sempre stati per me dei mezzi attraverso cui prendere coscienza della mia visione del mondo esterno - spiegava Giacometti - e soprattutto del volto dell'essere umano nel suo insieme, o più semplicemente dei miei simili, e in particolar modo di coloro che mi sono più vicini per un motivo o per l'altro". E in questo senso, rispondendo a questa esigenza di vicinanza alle persone più amate, sceglieva spesso il fratello Diego (ma in precedenza anche il fratello Bruno, ritratto da bambino) e la moglie Annette come modelli e a loro chiedeva di posare per sculture e dipinti, restando immobili, per ore, seduti sullo sgabello del suo studio.

La bellezza di questa mostra è data dall'incontro tra arte e vita. Non prevale un racconto sull'altro, Giacometti si svela attraverso la narrazione di una esperienza straordinaria, che inizia con le prime prove giovanili, attraversa il periodo surrealista e raggiunge la maturità delle sue opere più note, di un'avventura artistica profondamente legata a una storia personale fatta di affetti, incontri, relazioni, riflessioni, dubbi e un'instancabile ricerca dell'essere umano, dell'essenza e della profondità "che trasforma le persone, gli alberi, gli oggetti". Scrive Goldin nel secondo capitolo del saggio introduttivo al catalogo della mostra, concentrandosi sulla potenza dei volti: "Ciò che importa è cogliere l’essenza nell’unicità della visione. Percepire la regola universale. E tutto ciò, nello sguardo dedicato a un volto. E nello sguardo che il volto allo sguardo restituisce. Come dentro una corrente d’amore. C’è un’eternità, forse una delle eternità possibili, nei volti di Giacometti, nella loro presenza che diventa assenza. In questa eternità annunciata, c’è il senso di un perdersi, con il volto come sola, unica traccia".

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