SOCIETÀ

America Latina: la sfida del recupero ambientale

Una deforestazione meno spinta nell’ultimo decennio, in media. Ma con un'impennata significativa negli ultimi due anni. L’America Latina rimane al centro delle questioni ambientali, come testimoniano le discussioni sugli incendi della scorsa estate in Brasile e nei paesi limitrofi e le dichiarazioni tronfie del presidente Bolsonaro sulle sue visioni di sviluppo dell’Amazzonia brasiliana.

Dopo due decenni, a partire dal 1990, in cui la perdita netta di foresta sudamericana viaggiava al ritmo di circa 5 milioni di ettari all’anno (un’area pari circa a Piemonte e Lombardia insieme), dal 2010 la perdita netta era molto rallentata, dimezzata quasi. Serviranno però i dati più recenti, relativi all’ultimo biennio e ancora non disponibili, per capire se ora siamo in presenza di una nuova inversione di tendenza o meno.

L’America Latina vive momenti complicati e in parte contraddittori, a seconda del paese, per quanto riguarda le politiche di gestione forestale e i progetti di recupero degli ambienti naturali. Come per l’Africa, anche nel continente Sudamericano convivono esperienze molto positive di sviluppo integrato in un’ottica di sostenibilità sia ambientale che economica, con veri e propri atti di furia distruttiva, quando intere porzioni di foresta sono rase al suolo per far posto a piantagioni di colture industriali. E non si tratta, come vedremo, di sola Amazzonia, l’unica foresta che fa parlare di sé gran parte dei media internazionali e sulla quale tutti sembrano avere sempre gli occhi puntati.

Anche se non è sempre immediato il collegamento, la gestione delle risorse ambientali è uno dei banchi di prova più difficili quando si valuta lo stato di salute di una democrazia. Tanto è vero che sul fronte ambientale da anni si combatte una vera e propria guerra, con molte vittime soprattutto tra coloro che portano avanti una difesa strenua dell’ambiente, come abbiamo raccontato anche qui poco tempo fa - Il cambiamento climatico e i difensori dell’ambiente. Numeri alla mano, l’America Latina è in testa alla graduatoria per numero di ambientalisti uccisi, soprattutto in Colombia, Brasile e Messico.

Rimettere le cose a posto: lo stato delle foreste nel mondo

Qualche settimana fa abbiamo avviato su Il BO Live una serie di approfondimenti che muove dalla sfida lanciata dalle Nazioni Unite per la Decade della Land restoration, dedicata al recupero delle foreste, primariamente, ma non solo. Quando si parla di Land restoration infatti si ragiona in termini di recupero e conservazione dinamica di diversi ambienti oggi minacciati dallo sviluppo tumultuoso che ha caratterizzato negli ultimi decenni diversi settori produttivi su scala globale. Rimane il fatto, però, che le foreste sono le protagoniste primarie di qualsiasi discorso sullo stato di salute dell’ambiente e quindi da lì muoviamo per capire se le politiche di gestione ambientale funzionino o no. 

Nella prima puntata di questa serie, siamo partiti dall’Africa, il continente che ha perso più foresta nelle decadi recenti. Ma in realtà è il continente americano quello dove si gioca gran parte della partita. Ci concentreremo dunque, in questo contributo, sugli aspetti critici della sfida ambientale soprattutto in America Latina, con un esempio specifico che riguarda il Paraguay, andando poi a raccontare, in una prossima puntata, i progetti e le soluzioni che si stanno sperimentando.

Deforestazione, forestazione e piantagione

I dati del Global Forest Resources Assessment targato FAO, come si vede nel grafico sottostante, mostrano che dopo la Federazione Russa, che da sola ha un quinto del totale delle foreste del mondo, è il continente americano quello più verde: Brasile, Stati Uniti e Canada controllano complessivamente quasi un terzo dei circa 4 miliardi di ettari di foreste del mondo. Letto in altro modo, questo dato si riassume anche così: cinque i paesi dominano da soli oltre la metà delle foreste globali. Russia e Canada controllano la quasi totalità delle foreste boreali, che sono circa un terzo del totale, mentre quelle tropicali, che sono quasi la metà del totale, sono nella fascia centrale del continente africano, in America Latina, in Cina e Indonesia. Le foreste nelle fasce temperate e subtropicali del pianeta contribuiscono in modo più o meno equivalente e assai meno significativo rispetto alle altre due.

Complessivamente, negli ultimi 30 anni, abbiamo perduto oltre 400 milioni di ettari di foresta naturale nel mondo. DAl 1990, però, la perdita netta è andata diminuendo complessivamente, con differenze marcate a livello regionale. E infatti, se è vero che nell’ultima decade si è disboscato di più soprattutto in Africa, nei 20 anni precedenti la maggiore perdita netta si è avuta appunto in America Latina.

Il continente delle piantagioni (forestali)

Le foreste non sono tutte uguali. Uno dei dati più interessanti del report FAO è il rapporto tra foreste naturali, composte da specie native, e foreste che sono invece state piantate, sia con operazioni di riforestazione che con vere e proprie piantagioni forestali a scopo produttivo. 

La stragrande maggioranza delle foreste mondiali (il 93%) sono a rigenerazione naturale. Foreste che si perpetuano, riproducono e sviluppano da sole, senza intervento o con una gestione molto limitata da parte dell’uomo. Il restante 7% invece è foresta piantata. Dal 1990 è aumentata l’estensione delle foreste piantate  per più di 130 milioni di ettari. Un dato positivo? Dipende.

Le foreste piantate infatti possono essere a loro volta di due tipi: seminate, riforestate e fatte crescere per sviluppare in boschi e foreste più vicine possibile a uno stato naturale, o vere e proprie piantagioni forestali, che perlopiù hanno una finalità produttiva e sono pesantemente gestite dalle popolazioni umane. Le piantagioni forestali hanno poca diversità, sono composte da uno o poche specie di alberi, e tendono a essere coeve, con alberi della stessa età, piantati nello stesso periodo. 

Per molto tempo si è guardato alla protezione ambientale in una chiave quasi esclusivamente conservativa. Si è lavorato per mettere sotto protezione gli ambienti a rischio, o si è cercato di andare in quella direzione. In qualche caso addirittura la conservazione è stata portata avanti a scapito delle popolazioni indigene che vivevano nelle zone dichiarate protette e che sono state così costrette a spostarsi rinunciando alle proprie terre. Una visione molto restrittiva della conservazione che è parecchio evoluta negli ultimi anni.

Oggi ci sono 726 milioni di ettari di foresta protetti in tutto il mondo, poco meno del 20% del totale - erano 191 nel 1990. L’America Latina è la regione al mondo con la maggiore proporzione di foresta protetta, pari al 30% del totale. Ma è anche quella in cui l’uso delle piantagioni forestali è più spinto, e questo non è affatto un elemento positivo.

Nel mondo, le piantagioni forestali sono poco meno della metà delle foreste piantate (e quindi circa il 3% del totale delle foreste del mondo, pari a 130 milioni di ettari). Ma la distribuzione non è ovviamente omogenea.

Le foreste piantate, ci ricorda la FAO, includono un ampio raggio di diverse situazioni: si va dalla semina o reintroduzione di varietà tipiche di una certa zona ma perdute in seguito a deforestazione, per diversi motivi, fino all’introduzione di varietà del tutto estranee alla storia di una certa regione. Tipicamente, quest’ultimo caso si ha quando la piantagione di una foresta ha un obiettivo primariamente produttivo: cellulosa, diversi tipi di legname, altri prodotti forestali che entrano in una filiera di mercato e così via. Come vediamo dal grafico qui sopra, in Sud America il 97% delle foreste piantate sono con specie introdotte da altre parti del mondo, quindi non native. In più, sempre dai dati FAO, il 99% delle foreste piantate in questa regione sono a piantagione, con una ridotta varietà di specie di alberi. 

Un altro elemento importante sono i piani di gestione delle foreste, che sono indicativi della messa a punto di politiche di conservazione, trattamento e management dell’ambiente forestale. Esistono piani e leggi forestali che gestiscono la gran parte delle foreste europee, mentre solo un quarto delle foreste africane e addirittura solo un quinto di quelle sudamericane sono tutelate o gestite attraverso piani specifici. Anche la proprietà delle foreste è indicativa della filosofia e della politica di gestione: complessivamente, nel mondo, il 75% circa delle foreste è considerata proprietà pubblica. Questa percentuale sale in Europa al 90% ma scende nell’intero continente americano a circa il 60%. Un terzo delle foreste americane, sia a Nord che a Sud, sono dunque proprietà privata. 

Le foreste piantate, se ben gestite, possono assolvere molti scopi e usi, gran parte dei quali indubbiamente benefici: svolgono un ruolo di recupero ambientale sia per i suoli che per l’equilibrio complessivo degli ecosistemi; consentono la produzione di diversi tipi di cibo e aumentano significativamente la sicurezza alimentare delle popolazioni che le gestiscono; offrono la possibilità di avere legno per diversi utilizzi, da quello come combustibile alla materia prima di tutta una serie di prodotti trasformati. Contrastano l’erosione del suolo e la desertificazione, favoriscono una migliore gestione delle risorse idriche naturali, sono bacini di carbonio e quindi contrastano il riscaldamento globale. Ma hanno anche un enorme valore sociale, perché offrono rifugio a diverse comunità locali e costituiscono una risorsa paesaggistica di enorme valore. E consentono di ridurre la pressione sulle foreste naturali. Il problema sorge quando la gestione è invece orientata esclusivamente alla produzione intensiva, senza essere inserita in un piano di sostenibilità a lungo termine che prenda in considerazione tutte le dimensioni, da quella strettamente ambientale a quella economica, sociale, culturale. Foreste piantate con l’obiettivo di sfruttamento intensivo sono state spesso al centro di operazioni speculative e di conflitti anche accesi con impatti drammatici sulla vita delle comunità indigene locali.

Interessi, inganni e conflitti sociali: la deforestazione del Chaco

Il Gran Chaco è la seconda foresta più importante del Sud America, casa di una enorme quantità di specie native sia vegetali che animali che non si trovano in nessun altro ambiente del mondo. Il Gran Chaco è una foresta asciutta si estende dal Paraguay all’Argentina e alla Bolivia. Secondo i dati satellitari pubblicati dall’Earth Observatory della NASA, circa il 20% della foresta del Chaco è stata eliminata negli ultimi 30 anni, per fare spazio all’allevamento o all’agricoltura. Si tratta di oltre 142mila chilometri quadrati, un’area pari quasi alla metà dell’intera Italia. Il paese che ha dato un forte impulso alla deforestazione è stato il Paraguay, con oltre 44mila chilometri quadrati (o 4,4 milioni di ettari) di foresta cancellati tra il 1987 e il 2012. L’immagine qui sotto consente di confrontare, facendo scorrere il cursore nel mezzo da un lato all'altro, la situazione nel nord-ovest del paese tra il 1990 e il 2016 e mostra gli effetti drammatici della deforestazione, resa evidente dalla comparsa di numerosi rettangoli bianchi che corrispondono agli appezzamenti disboscati e utilizzati per l'allevamento bovino. Le immagini utilizzate sono satellitari ottenute via Google Earth.

Il motivo principale che spinge a deforestare il Chaco è dunque la produzione di carne bovina. Che ha come mercati di riferimento, secondo quanto si legge su uno studio del World Resources Institute, non l’Europa o gli Stati Uniti ma mercati meno esigenti dal punto di vista dei requisiti di qualità e di sostenibilità. L’espansione degli allevamenti a spese della foresta ha effetti su diversi piani: non solo significa mettere a rischio una biodiversità eccezionale con perdita di specie che solo qui hanno il proprio habitat naturale, ma significa anche peggiorare il bilancio delle emissioni, perché la foresta secca è un grande bacino di assorbimento del carbonio atmosferico. 

Ma, soprattutto, è causa di enormi conflitti sociali, perché la regione nordoccidentale del Paraguay è la terra dove vivono diverse comunità indigene, gli Ayoreo, Chamacoco, Enxet, Nivakle, Manjuy, Maka'a, Toba Qom, Nandeva e i Guarayo. Comunità che vivono utilizzando la foresta per tutte le proprie necessità e che si trovano ora dunque in grande pericolo. L’unica possibilità per queste comunità di essere protette è vedere riconosciuto il loro diritto alla terra, e quindi alla proprietà dei propri territori. Ma qui entra in gioco il tema della proprietà della foresta e della posizione politica del governo del paese che è più vicino all’agroindustria. Essendo buona parte della foresta di proprietà privata è molto difficile, sia per ragioni economiche che politiche, per le comunità indigene poter ottenere il controllo delle zone in cui vivono. 

La questione è molto complessa, tanto che è nato un progetto per mappare le terre indigene, e per monitorare lo stato di avanzamento dei riconoscimenti ufficiali di proprietà. La mappa sottostante, prodotta dalla Federazione per l’Autodeterminazione dei Popoli Indigeni con la collaborazione di molte altre organizzazioni tra cui il World Resources Institute e il Global Forest Watch, è aggiornata costantemente e consente di tenere traccia di quali zone del Paraguay vengono riconosciute di proprietà dei popoli indigeni e quindi assegnate loro formalmente e protette dal disboscamento.

La questione della gestione della foresta del Chaco da parte del governo del Paraguay è stata anche al centro di una multipremiata inchiesta giornalistica, Los desterrados del Chaco, pubblicata da un piccolo media indipendente e molto innovativo di Asunción, la capitale del paese, El Surtidor. L’inchiesta racconta di come El Chaco sia soggetto a molteplici attacchi da parte del governo e delle aziende che intendono sfruttarlo, a maggior ragione da quando il motivo di interesse non è più solo lo sfruttamento agricolo e per la produzione animale ma addirittura per la possibilità di sfruttare risorse del sottosuolo che sarebbero state trovate in anni recenti: petrolio e perfino diamanti. 

Ma l’inchiesta, che ha vinto il premio giornalistico Premio Gabo nel 2018, fa un passo in più, e spiega bene anche un meccanismo che sfrutta leggi obsolete, come quella forestale paraguayana, per compiere un vero e proprio inganno anche a spese dei cittadini di altre parti del mondo e addirittura dei sistemi di certificazione ambientale. In sintesi, ci spiega che quando compriamo carbone vegetale, la cosiddetta carbonella per fare il barbecue, certificata come sostenibile perché proveniente da foresta ricostituita, stiamo in realtà contribuendo alla deforestazione paraguayana. Perché in realtà il governo non solo non riduce il ritmo della deforestazione ma non fa nemmeno reali sforzi per riforestare nonostante gli impegni presi anche a livello internazionale. Il che ci fa capire come, al di là dei sistemi di certificazione ambientale e dei meccanismi di protezione internazionale, è davvero necessario conoscere bene le dinamiche a livello locale per essere certi di non contribuire, anche senza volerlo, all’ennesima devastazione ambientale.

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