SOCIETÀ

Amnesty e Israele: la polemica sui diritti e lo scambio di accuse reciproco

Una denuncia plateale che in pochi istanti ha fatto il giro del mondo, sollevando sconcerto e polemiche: secondo Amnesty International, tra le più accreditate Ong internazionali per i diritti umani, Israele è responsabile di aver imposto negli anni “un sistema di oppressione e dominazione contro il popolo palestinese, equiparabile a un regime di apartheid”. Di aver trattato i palestinesi come “un gruppo razziale inferiore” sia in Israele, sia nei Territori occupati. Di aver perpetrato, dunque, un crimine contro l’umanità, così come è definito dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione sull’Apartheid. E che, come tale, andrebbe perseguito. Amnesty International ha appena pubblicato un nuovo rapporto di 280 pagine, colmo di prove, fatti, testimonianze, che documentano “atti inumani o disumani” perpetrati dagli israeliani quali uccisioni, torture, persecuzioni, trasferimenti forzati, massicce requisizioni di terre e proprietà, limitazioni dei movimenti, negazione dei diritti economici e sociali, rifiuto di concedere nazionalità e cittadinanza. «Milioni di palestinesi vivono sotto il sistema di apartheid israeliano», scrive ancora Amnesty. «E al centro di questo sistema violentemente razzista c’è l’esperienza palestinese di vedersi negata una casa. Per oltre 73 anni Israele ha forzato lo sfollamento di intere comunità palestinesi e ha demolito centinaia di migliaia di case, causando terribili traumi e sofferenze. Oltre 6 milioni di palestinesi rimangono attualmente rifugiati». Per poi concludere con un’esortazione: «Israele deve smantellare questo sistema crudele e la comunità internazionale dovrebbe fare pressione affinché lo faccia. Tutti coloro che hanno giurisdizione sui reati commessi dovrebbero indagare su di essi». Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha ulteriormente precisato: «Lo chiamiamo apartheid perché è apartheid ai sensi del diritto internazionale». Come dire: non si tratta di un’opinione: basta seguire il filo delle violazioni commesse per avere il quadro d’insieme.

Non è la prima volta che il governo israeliano finisce nel mirino delle Ong. E la costante è sempre la stessa definizione: apartheid. Equiparando il trattamento riservato da Israele ai palestinesi alla segregazione razziale imposta dal governo di etnia bianca del Sudafrica, dal dopoguerra fino al 1993. Lo scorso anno era stata la volta di Human Right Watch, che in un suo rapporto, titolato “A Threshold Crossed” (“una soglia varcata”) aveva denunciato “l’oppressione sistematica e la discriminazione istituzionale” che il governo israeliano applica nei Territori occupati: «Le autorità israeliane trattano i palestinesi in modo separato e ineguale rispetto ai coloni ebrei israeliani». E ancor prima (gennaio 2021) era stata la volta di B’Tselem, la più nota organizzazione non governativa israeliana, che si occupa prevalentemente del rispetto dei diritti umani nei Territori occupati e che per prima aveva utilizzato il termine apartheid per definire “la supremazia ebraica tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano” (qui un abstractdel rapporto). «Lo strumento chiave che Israele utilizza per attuare il principio della supremazia ebraica è l’ingegneria dello spazio geograficamente, demograficamente e politicamente», sostiene B’Tselem. «Gli ebrei vivono la loro vita in uno spazio unico e contiguo in cui godono dei pieni diritti e dell'autodeterminazione. Al contrario, i palestinesi vivono in uno spazio frammentato in più unità, ciascuna con un diverso insieme di diritti, concessi o negati da Israele, ma sempre inferiori ai diritti consentiti agli ebrei».

Il governo israeliano: «Un rapporto pieno di bugie»

La reazione del governo israeliano anche questa volta è stata sdegnata e rabbiosa. Yair Lapid, ministro degli Esteri israeliano e futuro primo ministro (a partire da agosto 2023, in base a un accordo di alternanza siglato con l’attuale premier, Naftali Bennett), ha respinto seccamente il rapporto in quanto “distaccato dalla realtà” e passando immediatamente all’attacco frontale, accusando apertamente Amnesty di antisemitismo: «Amnesty fa eco alle stesse bugie condivise dalle organizzazioni terroristiche. Odio usare l'argomento secondo cui se Israele non fosse uno stato ebraico, nessuno in Amnesty oserebbe opporsi. Ma in questo caso non c’è altra possibilità». «Israele non è perfetto», ha concluso Lapid, «ma è una democrazia impegnata nel diritto internazionale e aperta al controllo, con una stampa libera e una forte Corte Suprema». In una nota, il governo israeliano sostiene che il rapporto «consolida e ricicla le bugie dei gruppi di odio ed è stato progettato per versare benzina sul fuoco dell’antisemitismo». Lo scorso ottobre il ministero della Difesa israeliano aveva emesso un decreto militare che definiva “organizzazioni terroriste” sei associazioni della società civile palestinese: Addameer, al-Haq, Difesa dei bambini palestinesi, Sindacato dei comitati per il lavoro agricolo, Centro “Bisan” per la ricerca e lo sviluppo e Unione dei comitati delle donne palestinesi. «Il decreto – denunciava Amnesty - mette fuorilegge le attività di queste associazioni, vieta il finanziamento e il supporto in loro favore e autorizza la chiusura delle loro sedi, il sequestro dei loro beni e l’arresto del loro personale». Ma è evidente quanto il governo israeliano tema le conseguenze di un simile ritorno d’immagine a livello internazionale. Un sondaggio dello scorso giugno, condotto negli Stati Uniti, ha rilevato che circa la metà dei Democratici vorrebbe un maggiore sostegno della Casa Bianca in favore dei palestinesi.

Un’ondata di reazioni

La diffusione del rapporto di Amnesty ha sollevato un’ondata di reazioni che riflette al millimetro la polarizzazione delle posizioni, inconciliabili, incompatibili. Quasi a mostrare l’assenza di una via d’uscita, come se il punto di osservazione fosse sempre “unico”, talmente radicato da impedire altri sguardi, altre sensibilità, altri livelli di comprensione. Per fare qualche esempio: il quotidiano israeliano Haaretz ha ospitato un intervento firmato da  Hagai El-Ad, ex direttore generale di B’Tselem, nel quale si racconta del funerale di Haj Suleiman al-Hathaleen, un attivista palestinese di 75 anni morto il mese scorso dopo essere stato investito da un carro attrezzi della polizia israeliana, mentre tentava di opporsi al sequestro di automobili “non registrate”. «Per Israele, la sua comunità è un nulla, solo un'altra località palestinese da cancellare e sostituire, soffocata lentamente mentre l’insediamento vicino – le sue case iniziano letteralmente dove finiscono le baracche di Umm al-Kheir – fiorisce». Di contro, il Wall Street Journal ha pubblicato un editoriale (firmato “la redazione”) titolato “La diffamazione dell'Apartheid di Israele”, nel quale si legge: «Il rapporto di Amnesty tratta la fondazione di Israele come il peccato originale da cui derivano tutte le altre offese (…). Questa è una diffamazione che distorce la storia. Israele è stata fondata nel 1948 sulla scia dell’Olocausto con un ampio sostegno internazionale. Gli ebrei che si stabilirono nella Palestina storica dovettero combattere per sopravvivere contro le milizie arabe e gli eserciti nazionali che volevano spingerli in mare (…). Il rapporto ignora che Hamas, che controlla Gaza, ha giurato di distruggere Israele e che Israele non ha altra scelta che imporre misure di sicurezza per proteggersi dagli attacchi terroristici».

In difesa, per così dire, dell’operato del governo israeliano, è sceso formalmente il Dipartimento di Stato americano: «Respingiamo l’idea che le azioni di Israele costituiscano apartheid: i rapporti del Dipartimento non hanno mai usato tale terminologia», ha dichiarato il portavoce Ned Price. «Penso che sia importante, in quanto unico stato ebraico al mondo, che al popolo ebraico non debba essere negato il diritto all’autodeterminazione e dobbiamo garantire che non venga applicato un doppio standard». Posizione rafforzata da un tweet dell’ambasciatore americano in Israele, Tom Nides: «Andiamo, queste accuse sono assurde». Quasi in contemporanea, lo scrittore britannico Jonathan Cook scriveva su Middle East Eye:  «I muri che proteggono Israele stanno finalmente crollando. Con la pubblicazione del nuovo rapporto di Amnesty International, ai sostenitori di Israele è rimasta una sola tattica: accusare i critici di antisemitismo. Non si tratta soltanto di una critica all'occupazione di Israele. Tutti e tre i gruppi (riferendosi ai precedenti report di HRW e di B’Tselem, ndr) hanno sottolineato per decenni il flagrante disprezzo da parte di Israele del diritto internazionale, e la sua probabile responsabilità per aver commesso crimini di guerra, nei territori occupati». Il settimanale Internazionale ha pubblicato lo scorso 15 dicembre, sottotitolandolo, un lungo video del New York Times dove gli stessi soldati israeliani raccontano la loro esperienza a Hebron: “gli ordini che ricevono, le umiliazioni a cui sottopongono i palestinesi spesso senza una ragione, il rapporto con i coloni e con le loro azioni provocatorie e violente”.

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