SOCIETÀ

La biodiversità alpina tra natura e cultura

L'ecosistema alpino, nonostante sia parte integrante dell'identità italiana, nell'immaginario comune è spesso considerato poco rappresentativo del paese, quasi ad essere un mondo a parte, scollato dallo stereotipo del buon cibo e dei paesaggi marittimi. La montagna è caratterizzata da una grande ricchezza culturale e dalla peculiare convivenza tra uomo e natura, che costituiscono la biodiversità dell'ambiente montano, come sostenuto dallo storico dell'ambiente Marco Armiero: “John McNeill nel suo libro Montagne del mondo mediterraneo, che è uno studio comparato su paesi quali Italia, Grecia, Marocco e altri, fece un'ipotesi sull'abbandono montano: sosteneva che fosse un fattore negativo per l'ecosistema. D'altra parte Oliver Rackham e Alfred Grove, nell'opera The nature of Mediterranean Europe: an ecological history, sostenevano, semplificando, che minore è la presenza dell'uomo meglio è per la natura. Io penso che le peculiarità culturali e la biodiversità montane stiano bene assieme. Infatti, le persone che abitano la montagna hanno avuto anche un effetto positivo sul mantenimento dell'ecosistema montano. Basti pensare a cosa abbia significato, in termini di riduzione degli incendi, che i boschi siano controllati e non lasciati a se stessi. Pensiamo anche al significato del mantenimento del pascolo e degli altri presidi umani sul territorio”.

“Non vorrei essere frainteso – continua Armiero – chiaramente l'uomo ha fatto anche tanti danni. Se pensiamo, ad esempio, agli effetti negativi del turismo selvaggio o della monocultura sciistica o da neve, questa ha avuto un impatto storico sull'ecosistema e sulla biodiversità in montagna, così come la monocultura idroelettrica. Questo succede quando pensiamo a un ambiente solo come riserva di energia o come un parco giochi per turisti che vengono dalla città. Un turismo sostenibile, giusto e attento alle comunità locali si può progettare. L'alpinista e scrittore di cose di montagna, Enrico Camanni, parlava del modello della montagna dolce, che si rifà a quello dello slow food, per il quale il turismo non deve essere un mordi e fuggi focalizzato sulla neve ad ogni costo. Non dimentichiamo inoltre la questione controversa e problematica delle grandi infrastrutture, come la Tav. Tuttavia le comunità che hanno lavorato in questi territori e hanno protetto, curato e usato il bosco, i pascoli e la montagna hanno avuto un'influenza positiva sul mantenimento della biodiversità, alla quale si può dare un'accezione più complessa, di cui fanno parte le piante e gli animali, ma anche le culture, le lingue, i dialetti e le tradizioni”.

L'approccio delle comunità montane all'ambiente circostante si è evoluto nel tempo? Lo storico spiega: “Una cosa sono le comunità montane dell'800, altra cosa sono quelle dei primi del '900, diverso ancora è quel poco che ne è rimasto dal secondo dopoguerra fino ai nostri giorni. A volte tendiamo a musealizzare, fermandolo nel tempo e trasformandolo in un museo, quello che vogliamo proteggere. Così la comunità montana diventa una specie di realtà metastorica o astorica: è la stessa nel passato, nel presente e nel futuro. L'idea del museo all'aria aperta, degli ecomusei come osservatori, ha il suo perché, ma ha un limite: in generale ci piace visitare i musei, ma chi vorrebbe viverci? È impossibile costringere la vita quotidiana reale in un museo. L'evoluzione ha portato anche alla perdita di molti saperi sull'ambiente montano, questo a causa innanzitutto del grande spopolamento della Seconda guerra mondiale. Ciò ha portato alla professionalizzazione della conoscenza della montagna, con la figura della guida alpina per i turisti. Penso che sarebbe un bel progetto da portare avanti quello di mappare, per proteggerli, questi saperi alpini. Anche se ciò comporterebbe il rischio di fossilizzarli, quando invece è necessario farli vivere, trovando le occasioni per mantenerli in vita. Mi chiedo se il grande ritorno alla terra che si sta verificando nel sud Europa dopo la crisi economica, che ha visto la creazione di imprese miste tra agricoltura e turismo sostenibile, potrebbe coinvolgere anche la montagna”.

“Le Alpi, che nella retorica nazionalista simboleggiavano i sacri confini della patria, in realtà erano un colabrodo. La gente che ci viveva passava la gran parte della sua vita in città, in pianura oppure in Francia, in Svizzera ecc. L'immigrazione è diversa dallo spopolamento, che è un abbandono e non è caratterizzato dalla circolarità. La montagna ha sempre vissuto l'immigrazione in un modo molto interessante: parlo soprattutto delle Alpi. Spesso si trattava di migrazioni temporanee, legate al lavoro che costringeva a spostarsi in città o all'estero per poi tornare sui monti. C'era una forte permeabilità”.

Nella rappresentazione mediatica spesso la montagna è raffigurata nel contesto idilliaco della natura o della contrapposizione delle comunità con gli animali selvatici, qual è la verità? “Temo, da una parte, che ci sia una scarsa rappresentazione e che la montagna sia un grande assente nella nostra identità. Qualche anno fa ho pubblicato Le montagne della patria e, sebbene la geografia ci racconti di un paese in gran parte formato da colline e montagne, nell'immaginario italiano ed estero non si pensa a questo, ma alle grandi città d'arte e al mare. Io ho scritto il mio libro in inglese, molti mi chiedevano come mai avessi scelto questo tema, piuttosto che altre tematiche stereotipate come il cibo. Credo che la montagna non sia stata assente in grandi momenti storici del paese: con la Prima guerra mondiale le Alpi entrano nel discorso dell'identità nazionale. In Italia si combatté una guerra in gran parte alpina. Bisognerebbe attribuire alla montagna un ruolo centrale nell'identità nazionale, perché è uno dei luoghi dove si fondono in maniera forte la natura e la cultura. Il rapporto tra umani e animali sui monti diventa più drammatico, è un luogo di resistenza da tanti punti di vista. Prima di tutto storico, perché la scelta antifascista in Italia equivaleva ad andare in montagna: scegliere la montagna significava schierarsi da una certa parte. La resistenza è anche dal punto di vista giuridico: l'Italia ha un patrimonio di terre comuni, soprattutto nelle zone interne ad alta quota, in contrapposizione col totalitarismo proprietario come solo modo di possedere. In montagna sopravvivono delle specie animali che non incontriamo così facilmente in pianura e in città, come lupi e orsi” spiega Armiero.

I progetti per la montagna devono essere il risultato di uno jazz della conoscenza suonato assieme, improvvisando un po', da esperti e comunità del luogo Marco Armiero

"Si pone una questione etica: è giusto che la specie umana abbia l'esclusiva di certi ecosistemi e che solo gli umani e i loro alleati, come pecore e agnelli, abbiano il diritto di esistenza su Alpi e Appennini? Si pone anche un problema di natura politica, è chiaro l'aspetto negativo dell'uccisione degli animali da allevamento da parte di lupi e orsi, è anche vero, però, che gli animali vengono uccisi anche dall'inquinamento, dai lavori, dagli sversamenti e via dicendo. Tutto ciò incide ugualmente sugli ecosistemi. Anche gli incendi sono problematici, così come la riforestazione quando si deve decidere quali essenze usare. Spesso si è scelta l'opzione delle specie di alberi a crescita rapida, come l'eucalipto. Se si accumulano essenze forestali altamente infiammabili, si bandisce qualsiasi tipo di qualche fuoco controllato, che in passato costituiva un modo di amministrare il bosco, e ci si basa su una cultura pirofobica, la situazione può sfuggire di mano. Non credo che qualcuno debba sacrificarsi per la sopravvivenza di lupi e orsi, si tratta di scelte collettive che dovrebbero prevedere le giuste compensazioni, senza rinunciare alle tecniche di controllo e alla videosorveglianza. Non devono essere gli abitanti delle montagne a pagare il prezzo della salvaguardia della biodiversità, ma deve essere il sistema Italia a premiare le montagne perché sono resistenti. Il patrimonio della biodiversità include la convivenza con animali meno facili da gestire, siamo in una fase storica che va oltre la figura del luparo” conclude Armiero.

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