SOCIETÀ

Libertà o cancel culture: quale equilibrio?

La libertà di parola è minacciata, non solo dai populismi ma dallo stesso pensiero progressista. Giunge per molti versi sorprendente e inaspettato l’appello pubblicato da Harper’s Magazine e firmato da oltre 150 intellettuali, accademici e giornalisti, tra cui molti esponenti di spicco delll’intellighenzia liberal. Le pur giuste preoccupazioni su giustizia e di inclusione, scrivono gli estensori, rischiano di indebolire “il libero confronto e la tolleranza delle differenze in favore del conformismo ideologico”. Il documento non manca di attaccare espressamente le “forze retrograde” e il loro supposto campione, Donald Trump, ma allo stesso tempo chiede che la battaglia sia condotta in nome della libertà e non del dogmatismo.

Tra gli aderenti nomi di peso come Martin Amis, Margaret Atwood, Ian Buruma, Noam Chomsky, Francis Fukuyama, Fareed Zakaria, Michael Walzer, Salman Rushdie e J.K. Rowling. Proprio sulla ‘mamma’ di Harry Potter, convinta femminista, nelle ultime settimane si sono concentrati i riflettori a causa di una feroce polemica che l’ha contrapposta al mondo Lgbtq, del quale fino ad ora era considerata una paladina. I suoi tweet sull’importanza del sesso alla nascita rispetto al genere sono stati infatti interpretati da alcuni come un attacco alle persone trans: una controversia che, oltre alla sconfessione di una parte importante del mondo della cultura e dello spettacolo, potrebbe esserle costata anche un temporaneo calo delle vendite.

È opinione comune che negli ultimi anni il dibattito pubblico si sia inasprito, a causa di una serie di fattori come l’ascesa dei social come piazza mediatica e la polarizzazione della politica, a cui negli ultimi anni si sono aggiunte le rivendicazioni del MeToo e le recenti tensioni etniche e razziali. E così più che a un confronto oggi si assiste a uno scontro tra contrapposte ortodossie: è quello che denuncia anche la giornalista Bari Weiss, dimessasi dal New York Times in segno di protesta contro il conformismo intellettuale che caratterizzerebbe la testata, una sorta di maccartismo che non di rado sfocerebbe nel bullismo e nell’intimidazione.

Tra libertà e giustizia

Non stupisce dunque che la lettera pubblicata sul Harper’s abbia sollevato reazioni contrastanti. “Alcuni colleghi che stimo l’hanno firmato, altri no: personalmente ho trovato condivisibile l’appello, pur nella sua estrema genericità – spiega a Il Bo Live Mario Del Pero, docente di storia internazionale e di storia della politica estera statunitense presso il prestigioso Institut d’études politiques/SciencesPo di Parigi –. La preoccupazione che emerge è quella di fissare paletti per salvaguardare un confronto intellettuale aperto, rispetto a un’ossessione che credo si sia diffusa verso il linguaggio e che sembra ogni giorno ridurre e monitorare sempre più il perimetro del dicibile”.

La casistica è numerosa e negli ultimi tempi pare essersi intensificata. Lo psicologo cognitivo e linguista di Harvard Steven Pinker, tra i firmatari della lettera, è stato sommerso dalle critiche per aver messo in dubbio le ragioni delle recenti proteste in America e per aver utilizzato le espressioni come ‘urban violence’, che rimanderebbero a concetti e visioni razziste. Ma gli esempi abbondano: “Qualche anno fa un docente all’università di Toronto è stato attaccato perché, nonostante le loro richieste, non ha accettato di rivolgersi ad alcuni studenti usando un pronome ‘neutro’ (‘ze’o ‘zir’) invece che maschile o femminile – continua Del Pero –. Io stesso negli Stati Uniti una volta ho ricevuto una lettera di protesta da parte di alcuni studenti e studentesse perché ho usato l’aggettivo sexy in riferimento alla tesi di dottorato di Condoleezza Rice, la prima donna afroamericana divenuta segretaria di Stato”.

Intendiamoci: le democrazie sono per definizione progetti incompiuti, e accanto alla perenne trasformazione dei diritti c’è necessariamente anche quella del linguaggio – prosegue lo studioso –. Una volta c’era persino un Journal of Negro Studies, oggi il termine ha una chiara valenza dispregiativa ed è inaccettabile. È giusto fare attenzione, soprattutto da parte di noi educatori e insegnanti, ma c’è il rischio che il progressivo restringimento di quello che si può e non si può dire alla fine nuoccia sia alla libertà intellettuale che all’insegnamento”.

Una situazione che affonda le radici anche nella college culture americana, laboratorio e culla a partire dagli anni ’60 di ogni controcultura: “Non parlerei propriamente di neopuritanesimo, piuttosto a volte vedo nei miei studenti, in particolare nordamericani, un’ansia di asetticità, di neutralità. Questo però è l’esatto contrario di come dovrebbe essere un ambiente accademico, in cui lo studente deve essere stimolato e a volte persino provocato. Credo inoltre si tratti anche di problematiche legate a questa generazione, che ha una nuova idea di diritti e che ha trovato quasi un elemento identitario nel mettere in discussione categorie di genere consolidate”.

Politically correct o accountability?

La libertà di parola e di pensiero sono dunque a rischio, sotto l’occhiuta vigilanza delle nuove guardie rosse del ‘politicamente corretto’? Non tutti sono d’accordo: “Penso innanzitutto che ci sia un fraintendimento generale riguardo questo famigerato ‘politicamente corretto’”. A parlare è Emanuele Monaco, dottore di ricerca in storia contemporanea all'università di Bologna, i cui interessi accademici spaziano dalla storia degli Stati Uniti alle questioni di genere e Lgbtq. “L’espressione riconduce a un aspetto formale del vivere civile, il tentare di non usare un linguaggio irrispettoso: dire ad esempio ‘operatore ecologico’ invece di ‘spazzino’. Oggi purtroppo ‘politically correct’ viene usato con una vena offensiva, aggiungendo magari la parola ‘buonista’, per descrivere le cause di emancipazione delle minoranze razziali, sessuali e di genere”.

Monaco critica anche la lettera pubblicata su Harper’s: “Negli Stati Uniti sicuramente il cambiamento della sensibilità, soprattutto nelle ultime generazioni, ha portato a eccessi di zelo – che recentemente vengono soprattutto da aziende private – nel rivendicare linguaggi, metodi e atteggiamenti meno escludenti. Usare però episodi discutibili come quelli occorsi a Pinker per lamentare un pericolo per la libertà di espressione è assurdo e controproducente (magari chiediamo ai dissidenti di Hong Kong cosa ne pensano delle ‘pene Twitter’ di J.K. Rowling). Infatti, dopo pubblicata, la lettera è stata usata proprio per difendere il diritto di pochi di dire e scrivere le cose più offensive senza ripercussioni”.

La lettera pubblicata su Harper's è stata usata per difendere il diritto di pochi di dire e scrivere le cose più offensive Emanuele Monaco

Per Monaco più che di cancel culture e di online shaming è più corretto parlare di accountability, ovvero di responsabilità per le posizioni assunte in pubblico. “Il concetto non l’hanno inventato Metoo o Black Lives Matter, esiste da sempre – conclude lo studioso –. I personaggi pubblici hanno sempre dovuto calibrare ciò che dichiarano per non incontrare l’astio di chi potrebbe offendersi, perdere consenso o violare i codici etici di associazioni, aziende, università, partiti di appartenenza. I movimenti oggi chiedono che questo concetto si allarghi anche a opinioni offensive, poco informate, uscite infelici e falsità dette a riguardo di minoranze già abbastanza discriminate”.  Secondo Monaco “nessuno chiede una censura sulle opinioni o sulla libertà di ricerca: si chiede inclusività, rispetto e attenzione. E sarebbe interessante chiedersi perché il tema delle disparità etniche e di genere entri nel dibattito pubblico sotto forma di indignazione per potenziali minacce alla libertà di parola”.

Contestualizzare e storicizzare

Il problema però va al di là delle tempeste sui social e coinvolge anche lo spazio pubblico. Le società occidentali, in particolare di area anglosassone, appaiono percorse da un dibattito che ne sta ridefinendo le basi, in una tensione tra i grandi fenomeni socioculturali degli ultimi decenni – a cominciare da femminismo, multiculturalismo e diritti Lgbtq – e la parte della popolazione che vi resiste. “Io ad esempio vedo molto di positivo nella mobilitazione a cui stiamo assistendo negli Stati Uniti – riprende Mario Del Pero –. Gli afroamericani hanno fatto passi avanti, come ci dicono anche gli indicatori su tasso di scolarizzazione, reddito e popolazione carceraria, ma i progressi da fare sono ancora molti: è giusto invocarli e battersi per essi”.

Le contrapposizioni esplodono quando si tocca la memoria e i suoi simboli, come nel caso degli abbattimenti e danneggiamenti di alcuni monumenti. “Qui dobbiamo stare attenti a non leggere le vicende americane con le categorie italiane – spiega Del Pero –. Negli Usa sono stati censiti circa 1.500 monumenti confederati, quasi tutti edificati tra il 1900 e il 1930, cioè nel periodo in cui il Sud riafferma pienamente la segregazione razziale. Nell’America di oggi questi monumenti continuano ad avere un significato controverso”.

Le nuove generazioni hanno trovato quasi un elemento identitario nel mettere in discussione categorie di genere consolidate Mario Del Pero

Questo non significa giustificare il vandalismo: per lo studioso però le soluzioni vanni trovate caso per caso, usando buon senso e pragmatismo. Del Pero fa l’esempio della statua del senatore Thomas E. Watson, razzista e antisemita, che nel 2013 è stata rimossa dall’area di fronte al Campidoglio di Atlanta (Georgia) per essere trasferita nel parco di un museo adiacente: “Quella di contestualizzare e storicizzare mi sembra la soluzione più ragionevole. Mi ha colpito ad esempio che sia stato tolto il nome di Woodrow Wilson dal centro di affari internazionali di Princeton, uno dei più importanti al mondo. Lì sono un po’ combattuto: è vero che Wilson fu anche razzista e che risegregò il governo federale, ma in quel contesto la scuola era dedicata all’idea di internazionalismo wilsoniano, all’America che si apre al mondo e guida la trasformazione dell’ordine internazionale. Bisognerebbe guardare il perché di ogni situazione e il messaggio che dà. Una soluzione però difficile nel quadro di un’America iperpolarizzata come quella d’oggi, in cui le soluzioni mediane e di buon senso tendono ad essere poco popolari”.

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